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Per due volte nonna Annarella sembrò arrivata al capolinea. La prima volta, studiando al suo capezzale, vi avevo trascorso tutta la notte; le era stata data l’estrema unzione; invece si era ripresa. Ora, per la seconda volta era apparso don Giuseppe con l’olio santo. Ma eccola guardare di sbieco zia Orizia che frugava nei suoi cassetti, mentre zia Santa, la sua ultima, mite e buona come nonno Angelo, le recitava preghiere:
“Che cosa cerca quel cappone, che va ruspando tra le mie robe?”
“Oddio, si è ripresa di nuovo! Proprio adesso è uscito don Giuseppe”.
“E’ vero, Fabio, che c’ è stato il prete?” mi domandò.
“Sì, ti ha dato un’altra volta l’olio santo”.
“E l’abbiamo coglionato un’altra volta. Vaglielo a dire!”
Era una quercia; forte come le sue montagne, con i piedi nella pietra, di pietra. Non sapeva leggere e non sapeva il suo anno di nascita, ma viveva e non cercava altro che vivere. Si alzava all’alba, il giorno di riscossione della pensioncina sociale, e andava ad aspettare per ore l’apertura dell’ufficio postale, per essere la prima:
“Non si sa mai”, diceva, “potrei anche non fare in tempo”. Ed io le avrei regalato un po’ dei miei anni, ora che non sapevo più che farmene. Sarebbe morta, anni dopo, caduta nella macchia, dove andava ancora a far legna.
Intanto io rischiavo di accendere il camino con il diploma di laurea che mi ero conquistato o di finire avvinazzato.
Magari in compagnia di Adelmo Cherubini, che vantava di fare il vino più buono. Con l’uva comprata in campagna; ché quella mai matura dei nostri vitigni dava un vinello asprigno e leggero.
Quasi tutti i montanari che da bravi sabini volevano farsi il vino da sé acquistavano l’uva delle vigne di Moricone o di Montelibretti. Il giro delle cantine cominciava quando finivano i cori all’osteria, per esaurimento vocale. Qui l’assaggio del vino era esaltato dall’affettaggio di prosciutto o di pecorino e io non potevo essere che l’ospite d’onore.
Quando m’incontrava, Adelmo vedeva il sole. Spigliato commesso viaggiatore per la Ferrero e mia spalla prima nella maggioranza e poi nella minoranza del Consiglio Comunale, dopo due bicchieri mi invitava al duetto canoro; dopo la prima bottiglia era un filosofo eloquente e non privo di profondità, benché i suoi limiti lessicali lo portassero a un linguaggio avventuroso e contorto. Caro Adelmo, morto di cirrosi epatica qualche anno dopo, chiedendo notizie dell’Avvocato inurbato.
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