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Sentimentalmente

Tutto ció che mi dá emozioni....

 
 

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Messaggi del 27/01/2015

Bambini, cuori da coltivare... con molta cura.

Post n°2384 pubblicato il 27 Gennaio 2015 da g1b9
 

  Oggi, giorno della memoria, come sempre vago su  internet alla ricerca di qualcosa da appuntare nella mia mente e nel mio cuore.   Tema scontato :L'olocausto.  Chiedo a Google un racconto sulla brutalita umana. Clicco sono fortunato e mi si apre questo PDF:


LA POESIA NEL RACCONTO DELLA CRUDA REALTA’


Noi alunni della 4°B, in occasione del giorno della Memoria, ci siamo commossi e indignati a
vedere il film “La vita è bella”, a leggere la poesia “Scarpette rosse”, ad ascoltare “La canzone del
bambino nel vento”, conosciuta anche come “Auschwitz”, cantata da F.Guccini e i Nomadi. In
quest’ultimo brano, l’autore parla metaforicamente dell’uomo, che ha compiuto la barbarie dei
campi di sterminio, definendolo “bestia umana”. Noi abbiamo provato ad attribuire dei colori a
quella creatura ed ai suoi sentimenti; ne sono scaturiti disegni ed elaborati.

 

 

La belva umana è...
Rossa di rabbia quando lo sconfiggevano
Verde militare quando è pieno di potere
Nero quando è infuriato come un toro
Grigio della sua stessa crudeltà
e non riusciva a trattenerla.
Bryan

 

La bestia umana è cattiva
Rossa di rabbia quando uccide
Verde di crudeltà.
Nera di egoismo
Gialla di potere
Viola di malvagità.
Questa è la belva
più
cattiva del
mondo.
Sofia

 


La rabbia
La belva umana è
arancione come il fuoco
c’è la rabbia nel suo cuore
che si deve sfogare.
Filippo

 

La belva umana
è veramente strana.
Spara e beve il sangue della gente
che non è per niente contenta.
Muoiono le persone su per i camini
i grandi e i bambini.
E’ una storia triste.
La belva umana è nera perché
vuole uccidere le persone.
Jennifer

 

La belva umana
La belva umana è rossa di rabbia
per gli Ebrei,
con quella pala che trascinava Maria nel vento
sempre più lontana.
Quell’uomo era un tedesco egoista
e con le ciglia nere e pelose
che trasformava il capo
facendolo diventare felice
per aver ucciso una bambina innocente;
era blu nelle mani
quando gli Americani arrivarono
e qui finisce il campo di concentramento per sempre.
Gioia

 

 

 
 
 

I bambini della Shoah... campo di concentramento di Terezin

 

 

Quest'anno propongo la lettura di questo articolo di Elena Loewenthal, giornalista della Stampa, sicura che vi colpirà come ha colpito me


.Che la memoria sia un valore e ricordare un dovere è cosa ormai assodata. Un dogma che non si discute, valido in assoluto. Ma non sempre è stato così, neppure a proposito di quella memoria divenuta tale per antonomasia, tanto da siglare una giornata apposita. La Shoah non è sempre stata l’oggetto di una commemorazione pubblica, non è sempre stata il simbolo del dovere morale di ricordare, per evitare che succeda di nuovo. Anzi. 

 

 

Negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, di imperativo ne era in vigore un altro, di segno opposto: lasciarsi tutto alle spalle. Tornare a vivere. E per poterlo fare, per potersi svegliare ogni mattina e prendere sonno ogni sera senza lo sgomento di quel passato prossimo, sembrava necessario dimenticare. Quanto meno, tacere. Israele era allora il paese con il più alto tasso di incubi notturni e urla dal sonno profondo. Ma i sopravvissuti tacevano, di giorno. Un po’ per continuare a sopravvivere, per non farsi distruggere dalla disperazione. Un po’ per l’indecifrabile vergogna di esserci ancora, mentre tutti gli altri erano morti.  

 

 

Poi ci fu un evento cruciale, senza il quale la memoria non sarebbe diventata quello che è oggi. Nel 1960 Adolf Eichman, la mente della Soluzione Finale, viene individuato e catturato dagli israeliani in Sud America, dove conduce una vita perfettamente tranquilla. L’anno successivo inizia a Gerusalemme il suo processo, in una sala costruita all’uopo. Centinaia di sopravvissuti prendono posto sul banco dei testimoni, sotto gli sguardi della corte e dell’impassibile imputato. Centinaia di giornalisti di tutto il mondo seguono le udienze. Molte sono trasmesse per radio. In Israele e nel mondo intero si ascoltano per la prima volta, da quelle vive ma straziate voci, i racconti della Shoah. In quei mesi, la memoria diventa qualcosa di diverso da ciò che era prima. Parole, sguardi, silenzi. Anche il tonfo del corpo svenuto di Yechiel De Nur, che ha voluto testimoniare con il nome di Ka-Tzetnik (abbreviazione di “prigioniero del campo di concentramento”) seguito dal numero che ha tatuato sul braccio, e non ce l’ha fatta. 

Livio Crescenzi, archeologo e traduttore di letteratura americana, sta da molti anni lavorando alla traduzione italiana di quel documento indispensabile che sono gli atti del processo. Inspiegabilmente, nella mole financo ridondante di letteratura intorno alla Shoah di cui dispone e in cui ancora si profonde la nostra editoria, mancava questo tassello fondamentale. Forse perché si tratta di un lavoro immenso e minuzioso, che esige passione e commozione nel senso più alto del termine, il desiderio cioè di sentire e inveitabilmente soffrire, lavorando su quelle parole. Più che mai quando il tema sono i bambini della Shoah, come in questo secondo volume degli atti, pubblicato come il precedente dal benemerito editore Mattioli 1885 con il titolo di “Un fiore mi chiama” (pp. 207, € 21,90) e una prefazione di Ernesto Galli della Loggia.  

 

 

Sono pagine terribili. Non c’è altro modo per definirle. E’ una lettura che mette a dura prova, che ti provoca continuamente, che ti invita ad ogni pagina a chiudere il libro, sbatterlo contro il primo muro, urlare che non è possibile. Eppure è così. Crescenzi ha metodicamente raggruppato le testimonianze per luoghi, momenti. Udienza per udienza. Dal ghetto di Varsavia dove più si era piccini più probabilità – per quanto scarsa – c’era di riuscire a contrabbandare un tozzo di pane di qua dal muro, sfuggendo alla sorveglianza. C’è la tacca su un altro muro, quello del dottor Mengele: sopra significava passare dai suoi esperimenti, sotto voleva dire essere troppo piccoli di statura, e finire immediatamente nelle camere a gas. C’è un’infinità intollerabile di neonati strappati alle braccia delle madri e sbattuti per terra per fracassargli il cranio. Ridendo. C’è quel bambino rimasto un anno nascosto in cantina con la consegna del silenzio, che a distanza di tanto tempo ancora sussurrava invece di parlare, per paura. C’è anche il sedicenne che Eichmann uccise perché aveva rubato due ciliegie dal suo albero. Era in una squadra di lavori forzati al servizio “domestico” e fu probabilmente l’unico caso in cui la bestia nazista ammazzò qualcuno direttamente, con le proprie mani. Il suo avvocato difensore si accanisce contro questa testimonianza, perché tutta la sua strategia è basata sul paradosso di un capo d’accusa – quello di essere il responsabile di più di sei milioni di morti – e nessun (o quasi nessun) omicidio compiuto in prima persona. Eichmann venne giustiziato il 31 di maggio del 1962 perché ritenuto colpevole di crimini contro l’umanità, nella piena consapevolezza che la pena, per quanto capitale, non era commisurata all’immensità della colpa. Momento cruciale della storia di tutti noi, chiave di volta del nostro approccio alla memoria, il processo Eichmann è anche, forse soprattutto, la resa di ogni possibile giustizia di fronte a un milione e mezzo di bambini inghiottiti dal fumo dei forni crematori, sfracellati contro il muro, centrati da un colpo di pistola, sepolti dentro una fossa comune. 

 

loewenthal@tin.it 

 
 
 
 
 

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Don't let someone become a priority in your life , when you are an  optional in their life... Relationships work best when they are balanced.

 

 

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