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Messaggi del 10/09/2017

Esiste il modello d'uomo?

Post n°3674 pubblicato il 10 Settembre 2017 da g1b9
 

Scorrendo i giornali  oggi mi ha incuriosito  l'articolo di  Paolo di Stefano_Corriere della Sera_sui personaggi storici, epici o di fantasia, che vengono proposti agli studenti attraverso lo studio della letteratura italiana, personaggi che  trova insulsi, senza doti particolari, anzi personaggi , che non hanno nulla da insegnare , se si esclude Renzo Tramaglino e forse qualche personaggiodi Italo Calvino . Insomma il giornalista dell'epoca della società liquida, dell'industria 4.0, dell'evoluzione dei modelli femminili,e soprattutto quelli maschili, non indicherebbe mai ad esempio uno di questi personaggi. E ,alla luce del presente, colle sue problematiche,lontane anni luce da quelle , che accompagnavano  i giorni dei nostri eroi, come dargli torto?  Tuttavia questi eroi letterari non  passano inutilmente nelle nostre vite,basta pensare a quanto c'e da impararare dai loro caratteri. E qui intendo la somma di quei valori eterni, vedi onestà, fedeltà , lealtà,il senso dell'onore,la centralità della famiglia, il rispetto e la devozione allo Stato di appartenenza. A me non pare poco.
Ulisse e gli altri
A guardare i testi letterari che si frequentano a scuola con maggiore assiduità, sono rarissimi i protagonisti maschili che si presentano come uomini equilibrati, buoni padri di famiglia, persone di cui fidarsi, compagni decenti. Un’eccezione è Renzo Tramaglino. Piaccia o no, è lui il vero eroe di Manzoni, quello che cambia, che evolve, che si migliora, che prende coscienza di sé e della società, di sé nella società. Invece, quanti mezzi falliti e cialtroni, a parte gli eroi classici. Enea in primis. Già con Ulisse qualcosa non funziona: diviso tra conoscenza estrema e nostalgia,il narciso Ulisse non conosce il senso del limite e per questo Dante lo condannerà all’Inferno. Ma a conti fatti non si potrebbe fare la stessa obiezione a Dante? Il quale è talmente superbo da attribuirsi il potere di percorrere l’aldilà distribuendo a destra e a manca punizioni e salvazioni come fosse Dio. Nell’immensa considerazione che ha di sé, il megalomane Alighieri si propone al mondo come una sorta di profeta: ma guardandosi da fuori, quante ragioni avrebbe trovato, Dante, per cacciare se stesso tra i dannati?

Fatto sta che il mondo maschile che i nostri studenti attraversano nel loro percorso scolastico si presenta da subito come un panorama (per fortuna) alquanto problematico, se si pensa che la prima cantica della Commedia è quella di gran lunga più letta rendendo memorabili i maschi umanamente più simpatici ma moralmente meno raccomandabili: l’ignavo Celestino V, il lussurioso Paolo Malatesta, l’eretico Farinata, il crudele conte Ugolino… E procedendo (e semplificando) ci si potrebbe chiedere che razza di esempio di virilità finisca per rappresentare uno come Petrarca con il suo ossessivo invocare l’amata Laura e quel «fuoco di passione» mai del tutto realizzato. Per non parlare dell’ampio repertorio boccaccesco: i cui veri campioni sono, in definitiva, ser Ciappelletto e Andreuccio da Perugia. Da una parte il finto santo, bestemmiatore e peccatore indefesso; dall’altra il giovane mercante che da sprovveduto deve farsi a sua volta ingannatore ingegnoso per sfuggire ai tranelli femminili. Insomma, l’uomo-personaggio, che nella letteratura europea nasce con l’armatura del cavaliere in ambasce belliche e amorose, mette in scena la propria debolezza nei confronti dell’altro sesso (debolezza letteraria inversamente proporzionale alle reali gerarchie sociali): per essere simpatico deve mettersi in maschera, indossare abiti perversi o truculenti o super eroici; quando non finge (o finge di non fingere, direbbe Pessoa) appare antipatico e melenso, triste, malinconico.

 

 

 

La terza via è la variabile della follia. Come quella in cui precipita l’Orlando di Ariosto, esatto contrario del principe di Machiavelli, proiezione del maschio tutto d’uno pezzo, fotografato nell’esercizio del potere supremo. Orlando è il paladino che tra un duello e l’altro passa il suo tempo a vagare in cerca di Angelica e che per lei impazzisce: la follia gli fa guadagnare la forza cieca e sovrumana per sbaragliare i nemici (e non solo). Se non fosse per il cugino Astolfo, che gli recupera il senno sulla Luna, Orlando sarebbe ancora in giro per il mondo a seminare panico. Il «personaggio-uomo» è una formula inventata dal critico Giacomo Debenedetti per significare come, passando dall’Ottocento al XX secolo, l’eroe da romanzo (europeo) si indebolisca in antieroe.

Ma l’identità dell’io lirico maschile proposto nelle scuole italiane è già in sé alla deriva da tempo: si pensi a Leopardi. E a quel Basettone-Moralone del Foscolo, che Gadda bollò come mandrillo, prototipo di virilità istrionica, di narcisismo esasperato. Eppure, sappiamo tutti quale brutta fine Foscolo assegna a quell’anima in pena, un po’ eroico-romantica e un po’ mammona, che è Jacopo Ortis, suicida per disperazione d’amore (e anche di patria). Nel giro di trent’anni, con Renzo Tramaglino, avremo una figura più alla portata del buon senso popolare. Lui sì che piaceva a Gadda, che pianse lacrime calde sul letto di morte al solo sentirlo nominare. Ma quanti uomini falliti in prosa e in poesia.

Pascoli non uscì dalla prigione perversa che aveva costruito per sé e per le due sorelle. E anche laddove sembra circolare un’aria meno autistica, non è detto che le cose finiscano meglio. L’Andrea Sperelli di D’Annunzio dovrebbe arrivare a uno studente di liceo come l’apoteosi dell’ipocrisia maschile chiagni-e-fotti in maschera (ancora maschere) simbolistico-decadente: il triangolo sì, quel «perfettissimo apparecchiatore» di artifici teatrali, il triangolo l’aveva considerato, scisso com’era tra l’altera, sensuale Elena e la fedele e dolce Maria. In contemporanea, i «vinti» di Verga sono affaccendati in ben altre faccende e il suo self-made man per eccellenza, Mastro-don Gesualdo, riesce sì a salire la scala sociale, da muratore a «don», ma nonostante tutti i successi di lavoro (e di denaro) chiude la vita in solitudine. Chi lo sa se Mattia Pascal e Zeno Cosini, pionieri della psicologia novecentesca, sono più vicini alla sensibilità dei nativi digitali. Certo, non mancherà di fascino l’uomo pirandelliano dalle due vite, anzi tre (Mattia, fu Mattia cioè Adriano Meis, Mattia reincarnato), l’uomo senz’ombra, fantasma anagrafico in fuga da se stesso e poi dal proprio nickname, attore di una tragedia buffa. Per non dire dell’ipocondriaco di Svevo, l’abulico Zeno, il cui temperamento viene descritto efficacemente dal suo stesso autore: «Passa continuamente dai propositi più eroici alle disfatte più sorprendenti. Sposa ed anche ama quando non vorrebbe. Passa la sua vita a fumare l’ultima sigaretta. Non lavora quando dovrebbe e lavora quando farebbe meglio ad astenersene». Per qualcuno è una specie di Charlot. È un corteggiatore maldestro di quattro sorelle, fino al matrimonio con Augusta e, tanto per cambiare, è pure un bugiardo e un traditore.

"Uomini (ovvero maschi) in fuga" sarebbe il titolo di un capitolo cospicuo della nostra letteratura. Tra i più geniali c’è il giovane Cosimo Piovasco di Rondò, il «barone rampante» calviniano, rampollo primogenito di una nobile casata estinta: basta un piatto di lumache rifiutato a fargli scattare la decisione di stabilirsi per sempre su un albero in segno di protesta contro l’autorità paterna. Vorrà dire qualcosa il fatto che il personaggio più inflessibile e coerente della narrativa italiana è un ragazzino? Il quale matura «sempre sapendo che per essere con gli altri veramente, la sola via era l’essere separato dagli altri»: un po’ come il «cavaliere inesistente», impressionante precursore del cybernauta odierno, tutto astrazione senza corpo. E vorrà dire qualcosa che Elsa Morante individui nell’adolescente (e orfano di madre) Arturo l’unico uomo in grado di amare davvero perdutamente una donna, la nuova sposa del padre, che si scopre omosessuale? Un personaggio uomo maturo, e moralmente ineccepibile, c’è: quello di Primo Levi, il sopravvissuto che ha sofferto l’inferno sulla terra, l’uomo che non può fingere.

 
 
 
 
 

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