Creato da Ufficioluoghiperduti il 16/03/2011

Luoghi Perduti

l'introvabile dove...tra sensazione e coscienza

 

 

Everything happens to me

Post n°33 pubblicato il 25 Luglio 2012 da Ufficioluoghiperduti
 

 

Il Portogallo ai tempi della dittatura. Due ragazze Una finisce in

carcere. Il mistero sulla sua sorte e una ricerca disperata

Lo Hot-Dog era un locale minuscolo, con un bancone e pochi tavoli. Non era molto affollato,

per fortuna. Quella sera non avevo voglia di folla. Ma forse in quella nebbiosa sera di domenica

i lisbonesi non erano in vena di sentire il jazz. Sulla porta c’era un manifesto con scritto: Il

sassofono di Tecs. E poi, sotto: Omaggio a Sonny Rollins.

Mi sistemai a un tavolo d’angolo. Il cameriere arrivòsollecito e mi chiese se volevo mangiare

subito o dopo la musica. Dipende da quanto dura la musica, risposi. Sono solo due pezzi, disse

lui, stasera la sassofonista fa solo due pezzi, èstanca, ieri era sabato e ha suonato fino alle tre

del mattino. Convenni che era meglio mangiare dopo l’audizione e il cameriere mi chiese se

volevo un aperitivo. Gradirei un assenzio, dissi. Lui non si scompose minimamente e replicò

con ghiaccio o senza ghiaccio? Perché chiesi io, l’assenzio si serve anche col ghiaccio? Noi

qui sì disse lui, nel nostro locale si serve col ghiaccio. Senza ghiaccio, dissi tanto per

contrariarlo, voglio un assenzio serio, come lo bevevano un tempo.

continua a leggere

 

 

Fonte: ANTONIO TABUCCHI - la Repubblica

Lunedì 23 Luglio 2012

 
 
 

Lettere a un amico pittore

Post n°32 pubblicato il 18 Giugno 2012 da Ufficioluoghiperduti
 

 

" Ecco la descrizione di una tela che ho davanti a me in questo momento. Una veduta del parco della casa di salute in cui mi trovo:a destra una terrazza grigia, l'ala di una casa. Qualche cespuglio di rose sfiorite, a sinistra il terreno del parco - ocra rossa - terreno arso dal sole, coperto di aghi di pino caduti.Questo margine del parco è piantato di grandi pini dai tronchi e dai rami ocra rossa, con il fogliame verde rattristato dalla mescolanza di nero. Questi alti alberi si stagliano su un cielo serotino striato di viola su fondo giallo, il giallo verso l'alto vira al rosa, vira al verde. Una muraglia - ancora ocra rossa - sbarra la vista e ne sporge solo una collina violetta e ocra giallo. Ora, il primo albero è un tronco enorme ma colpito dal fulmine e segato. Un ramo laterale tuttavia si slancia altissimo e ricada su una valanga di aghi verde scuro. Questo gigante scuro - come un superbo sconfitto - contrasta, se lo consideriamo come carattere di essere vivente col sorriso pallido di un'ultima rosa che appassisce sul cespuglio di fronte a lui. Sotto gli alberi, panchine di pietra vuote, del bosso scuro, il cielo si specchia - giallo - dopo la pioggia, in una pozzanghera. Un raggio di sole, l'ultimo riflesso, esalta l'ocra scuro fino all'arancione. Delle figurine nere si aggirano qua e là tra i tronchi. Capirai che questa combinazione di ocra rossa, di verde intristito di grigio, di tratti neri che segnano i contorni, suscita un po' quella sensazione di angoscia di cui soffrono sovente alcuni miei compagni di sventura, che si chiama "veder -rosso". E del resto il motivo del grande albero colpito dal fulmine, il sorriso malaticcio verde-rosa dell'ultimo fiore d'autunno contribuiscono a confermare questa idea.

Un'altra tela rappresenta un sole che sorge su un campo di grano ancora verde;

Linee di fuga, solchi che montano in alto nella tela, verso una muraglia e una fila di colline lilla. Il campo è violetto e giallo verde. Il sole è bianco ed è circondato da una grande aureola gialla. In questa tela, per contrasto con l'altra, ho cercato di esprimere calma, una grande pace. Ti parlo di queste due tele, soprattutto della prima, per ricordarti che per dare un'impressione di angoscia, si può cercare di farlo senza puntare direttamente sull'orto di Getsemani storico; che per dare un motivo consolante e dolce non è necessario rappresentare i personaggi del sermone della montagna.

Vincent van Gogh, Lettere a un amico pittore,ed.Rizzoli

 
 
 

Bloomsday...libero un giorno per sempre

Post n°31 pubblicato il 17 Giugno 2012 da Ufficioluoghiperduti

Il filosofo Giulio Giorello presenta stamattina alla Biblioteca Ragionieri la nuova traduzione italiana di 'Ulisse'

Firenze, 16 giugno 2012 - Primo Bloomsday 'libero' in tutto il mondo, oggi, dopo la scadenza dei diritti d'autore sulle opere dello scrittore irlandese James Augustine Aloysius Joyce, per tutti James Joyce, (1882-1941), entrati nel pubblico dominio lo scorso 1 gennaio. Finora chi voleva organizzare celebrazioni con letture pubbliche dell''Ulisse', pubblicato per la prima volta nel 1922, doveva fare i conti con le severe restrizioni del nipote dello scrittore, Stephen Joyce , 80 anni, che vive a Parigi, erede dell'autore di 'Gente di Dublino'.

Con l'edizione 2012 del 'Bloomsday' e' possibile utilizzare liberamente il testo dell'Ulisse'' senza dover chiedere l'autorizzazione agli eredi di Joyce. Come di consueto fulcro delle celebrazioni e' Dublino, dove il
James Joyce Centre ha organizzato un vero e proprio Bloomsday Festival che culmina oggi con la 'Bloomsday Breakfast', una colazione tradizionale irlandese che verra' servita a centinaia di persone nella
Gresham Ballroom.

Il romanzo 'Ulisse' si svolge nell'arco di una sola giornata (il 16 giugno 1904) a Dublino, protagonista Leopold Bloom. Per celebrare la festa laica in onore di Joyce e del suo capolavoro nella capitale irlandese
si tengono per l'intera giornata reading, conferenze, spettacoli, visite guidate ai luoghi cari a Joyce e passeggiate notturne. Manifestazioni celebrative, anche se piu' ridotte, si svolgono in un centinaio di comuni
irlandesi e con il coordinamento del James Joyce Centre in Usa e in Europa a Sesto Fiorentino (Firenze), Parigi, Londra, Bucarest, Copenhagen, Oslo, Vilnius.

In Italia, dunque e' Sesto Fiorentino il comune che festeggia ufficialmente il 'Bloomsday'. Il filosofo Giulio Giorello presenta stamattina alla Biblioteca Ragionieri la nuova traduzione italiana di 'Ulisse' (Newton Compton). Insieme a Giorello Enrico Terrinoni, traduttore e curatore della nuova edizione che arriva oltre cinquant'anni dopo la prima, e finora unica, traduzione del fiorentino Giulio De Angelis, data alle stampe da Mondadori nel 1960.

Il 'Bloomsday' di Sesto Fiorentino sara' arricchito da letture della nuova traduzione di Terrinoni a cura dell'attore Emanuele Levantino e da un aperitivo irlandese. Data alle stampe nel gennaio scorso, alla
scadenza dei diritti d'autore sulle opere dello scrittore irlandese, l'opera e' resa in un italiano piu' moderno e cerca di riscoprire la comicita' del libro, oltre alla componente linguistica e culturale irlandese.

Giorello, filosofo e matematico, insegna filosofia della scienza all'Universita' di Milano ed e' considerato uno dei piu' importanti epistemologi europei. Enrico Terrinoni, docente di letteratura inglese
all'Universita' di Perugia, autore di numerosi scritti su Joyce , ha gia' curato la trasposizione in italiano delle opere di autori come Brendan Behan, Muriel Spark e John Burnside.

Intanto è aperta la battaglia legale sui manoscritti inediti di Joyce: La Biblioteca Nazionale d'Irlanda aveva annunciato la pubblicazione online nel corso di giugno di un'ampia collezione di autografi dello scrittore irlandese, fra cui appunti e prime bozze di 'Ulisse' e 'Finnegans Wake', ma uno studioso di Joyce , il saggista ed editore dublinese Danis Rose, ha protestato contro questa iniziativa, citando la Biblioteca Nazionale davanti all'Alta Corte di Dublino, definendosi danneggiato in quanto nuovo detentore legittimo del copyright degli inediti.

Gli stessi manoscritti, infatti, sono stati recentemente pubblicati da Rose presso l'editore americano 'House of Breathings' in un'edizione critica, con ciascun volume venduto a un prezzo che oscilla da 75 a 250
euro (la serie completa di sei tomi costa 800 euro). Rose si e' dichiarato detentore del copyright in base ad una clausola di una legge europea, che stabilisce che "la prima persona a pubblicare materiale
inedito che entri nel pubblico dominio acquisisce diritti equivalenti al copyright per un periodo di 25 anni".

Lo studioso ha definito l'iniziativa della Biblioteca Nazionale d'Irlanda "precipitosa" ed anche "poco saggia". Da parte sua la Biblioteca, tramite la direttrice Fiona Ross, ha precisato che il progetto di messa on
line degli autografi e' di lunga data e quindi non ha niente da spartire con quella di Rose. Adesso la questione del copyright degli inediti arrivera' anche al vaglio di una commissione ministeriale di revisione
istituita dal governo di Dublino

 
 
 

Lasciami,non trattenermi

Post n°30 pubblicato il 04 Giugno 2012 da Ufficioluoghiperduti
 

 

“Dove mi porta, dove mai vuole che arrivi,

questo cammino di deliquio. A un ravvedimento, a una conversione?

Sciocco non ci fu rancore,

ci fu sola e sovrana l’opera del tempoe della vita che ora si risente

 in tutta la sua tortuosa serpentina

di amore e di dolore, traverso le stagioni

e i volti e le persone…

C’è questo, sì,

 e c’è perché tu sei il mondo

nel vivo della vita”.

 
 
 

Mandami a dire

Post n°29 pubblicato il 04 Giugno 2012 da Ufficioluoghiperduti
 

Dolce mio tesoro, come stai?
Anche oggi ti ho cercata al telefono e tu non c'eri,
ma lì, nella tua lontananza, ti trattano bene? Mi raccomando: 
se solo ti sfiorano un capello, tu mandami a dire,
che con la rabbia del corpo mi mangio le strade
e ti raggiungo e dopo voglio proprio vedere. La mia parte egoista vorrebbe anche sapere se si infelice come me, perché vedessi come sono stanco di camminare da solo dentro la tristezza, a volte capita che piango senza sentirmi il singhiozzo. vorrei anche sapere se, quando è l'ora che il tramonto si siede sopra il sole, spingendolo giù, giù fin sotto il mare, sei sempre là, davanti alla finestra, ad osservare quel trapasso e a pensarmi. Una volta lo facevi, ed oggi? ti scongiuro tanto, mandami a dire. Cara, com'è assurdo questo nostro amore, che viveva meglio quando stavamo peggio, ma dentro quel peggio poi è venuto qualcuno e ci ha detto "Eccovi la libertà! prendere e andare". Che brutto affare è stato, se è vero che oggi siamo prigionieri della distanza.
Sapessi che rimpianto quando mi giro e guardo la nostra cronaca di ieri,
ora pagherei tutta la fatica che ho per prendermi le spalle e mettermele davanti, trasformando il nostro passato in futuro; succede anche a te?
 Se sì, mandami a dire, sarà meno dura sperare.

 
 
 

otherness..togetherness

Post n°28 pubblicato il 01 Giugno 2012 da Ufficioluoghiperduti

«“Nel fondo potremmo essere come in superficie, – pensò [Lucas], – però dovremmo vivere in un altro modo. E che significa vivere in un altro modo? Forse vivere assurdamente per stroncare l'assurdo, lanciarsi in sé con una tale violenza che il salto finisca fra le braccia di un altro. Sì, forse l'amore, però la otherness dura quanto dura una donna, ed inoltre solo per quanto riguarda quella donna. In fondo non esiste otherness, appena la piacevole togetherness. Certamente è già qualcosa...”. Amore, cerimonia ontologizzante, dispensatrice di essere. E per questo gli veniva in mente in quel momento ciò che avrebbe dovuto venirgli in mente fin dal principio: senza possedersi non esisteva possesso dell'alterità, e chi si possedeva davvero? Chi era di ritorno da se stesso, dalla solitudine assoluta che significa non fare assegnamento neppure sulla compagnia di se stesso, essere obbligato ad entrare in un cinematografo, in un postribolo o nella casa degli amici, in una professione assorbente o nel matrimonio per trovarsi almeno solo-fra-gli-altri? Così, paradossalmente, il colmo di solitudine portava al colmo di gregarismo, alla grande illusione della compagnia altrui, all'uomo solo nella sala degli specchi e delle eco. Ma persone come lui e tante altre, che accettavano se stessi (o che si rifiutavano, però a ragion veduta) entravano nel paradosso peggiore, quello di trovarsi forse alle soglie dell'alterità e di non poterle varcare.
La vera alterità fatta di delicati contatti,
di meravigliose compensazioni con il mondo,
non poteva realizzarsi con un solo termine,
alla mano tesa doveva corrispondere un'altra mano da fuori, dall'altro»

Julio Cortázar, Il gioco del mondo, Einaudi, Torino 1969 

 
 
 

A Baku cantino i diritti umani

Post n°27 pubblicato il 18 Maggio 2012 da Ufficioluoghiperduti
 

Dal 22 al 26 maggio in Azerbaijan si terrà l'Eurovision Song Contest,il vecchio Eurofestival; la manifestazione canora voluta e pagata dal Presidente Aliyev (l'Italia per anni non ha mai partecipato)che ha dato in mano alla moglie Mehriban l'intera organizzazione dell'evento,investendo pare più di 50 milioni di euro,spicca sul golfo la sontuosa Baku Crystal Hall,23 mila posti vista Mar Caspio
Eppure i riflettori si spostano dal luccichio del mare a quello delle manette,all'imprigionamento di 70 e più persone,tra cui giornalisti,per ragioni politiche
Idra Abbasov,tra i più noti giornalisti della patria è stato duramente picchiato durante un servizio;l'Armenia ha ritirato la Band dei Dorians

Così si accende la luce sul Paese del presidente Ilham Aliev,poco aperto, moderno e vivibile, in pochi giorni non si potranno cancellare anni di soprusi e minacce ai giornalisti che ci vivono e ci lavorano. Difficile che questo importante evento che andrà in Eurovisione e sarà visto da milioni di persone cancelli in un attivo le violazioni alla libertà di stampa. Nel paese dell'ex Urss, secondo Human Rights Watch, sono 50 i giornalisti che nel 2011 sono stati vessati o aggrediti, mentre Reporter senza frontiere mette l'Azerbaijan al 162° posto (su 179) della lista della libertà di stampa dell'anno 2011/2012.
Ed è di pochi giorni fa il caso della giornalista Khadija Ismailova, freelance e corrispondente per Radio Free Europe/Radio Liberty di Baku, che il 7 marzo ha ricevuto un pacco contenente sei fotografie che la riprendono in momenti di intimità accompagnate da un messaggio: "Comportati bene o avrai delle disgrazie". La giornalista è da tempo impegnata in inchieste su affari poco chiari che hanno a che fare con persone legate al clan familiare del presidente Aliev e la stessa Ismailova è convinta che le minacce siano legate ad alcuni articoli pubblicati sul sito web di radio Free Europe. La giornalista aveva detto di aspettarsi, prima o poi, qualcosa del genere ma ha specificato che non saranno queste minacce a fermare il suo lavoro. Minacce poi seguite, lo scorso 14 marzo, da un video, postato su un sito web anonimo e creato da un falso account Yeni Musavat, nel quale la Ismailova veniva ripresa in un momento di attività sessuale. La giornalista ha presentato il caso al procuratore capo di Baku e al Ministro degli interni.
La Ismailova è, purtroppo, solo una di una lunga serie. Tra i casi più recenti c'è quello di Agil Khali, reporter del giornale ‘Azadliq', aggredito due volte nel 2008, anno in cui stava realizzando una serie di inchieste su compravendite di terreni a Baku. Mentre il giornalista era in ospedale, una Tv locale ha trasmesso un programma in cui Khalil veniva definito gay (una definizione che ha un certo peso in un Paese di fede islamica). È poi seguito l'arresto di un uomo ma i dati di Media Rigts di Baku dicono che, negli ultimi sette anni, su 300 casi di aggressione o minacce a giornalisti solo 2 sono stati oggetto di indagini.
Sempre nel 2008 il caporedattore di ‘Azadliq' è stato condannato a 4 anni di prigione per aggressione. L'accusa è di aver aggredito un uomo che sarebbe intervenuto in difesa di una donna la quale, a sua volta, sarebbe stata verbalmente aggredita da Zahid. Secondo la versione di Zahid, la donna sarebbe invece sbucata dal nulla, insultandolo, come lo stesso uomo, che avrebbe iniziato a colpire il giornalista. Rilasciato nel 2010, Zahid si è poi trasferito in Francia dopo le minacce che i suoi figli avevano subito a scuola.
Destino analogo, dopo essere stata picchiata ed aggredita più volte, per Meahet Nebisova, che ha seguito casi di violazione dei diritti umani negli ospedali psichiatrici, madre di tre figli. Alla giornalista che si è rivolta al Ministro degli interni e al procuratore capo di Nakchivan (città dove vive), il ministro ha garantito indagini serrate per scoprire i colpevoli ma i dati di Media Watch non danno ragione al governo azero. Ed è ancora senza colpevole l'assassinio di Elmar Huseyov, ucciso nel 2005, giornalista che è sempre stato molto critico nei confronti della famiglia presidenziale e dei suoi comportamenti.
Tutte note, queste, che suoneranno stonate tra le canzoni interpretate dai big dei maggiori Paesi europei che si preparano a calcare il palco dell'Eurofestival.
Elena Romanato - Millecanali.it

 

 
 
 
 
 

Cioran pillole. Posologia

Post n°24 pubblicato il 07 Maggio 2012 da Ufficioluoghiperduti

Cioran pillole. Posologia.

Hanno ragione Ceronetti e Rigoni: Cioran è un amico e la sua lettura risulta, in ultima analisi, corroborante. Ma come tutti gli anti-depressivi va maneggiato con cura, necessita di un libretto d'istruzioni. Pertanto non fate come me, leggetelo con moderazione, distacco e soprattutto diluitelo in qualche romanzo rosa o d'appendice. Se i rivenditori avessero un po' di coscienza lo dovrebbero vendere con un Harmony in offerta.

Forte della fresca lettura dell'opera omnia (seppur negli angusti limiti del mio intelletto) vorrei far partire queste "precauzioni d'uso" dalla confutazioni di due luoghi comuni su quest'autore: il suo debito con Nietzsche e con il nichilismo in genere è inferiore a quanto si dica; non è vero che il miglior Cioran è quello degli aforismi (i suoi saggi brevi sono altrettanto portentosi se non superiori).

Parlare di Cioran come di un nietzschiano, non vuol dire semplicemente avere travisato il suo non-messaggio, ma averlo ribaltato, capovolto. Situato agli antipodi della "volontà di potenza", la sua distruttività filosofica (meglio viscerale) ha poco da spartire con il fervore visionario e fanciullesco (non a caso parlerà, con un sorriso, di "ingenuità" di Nietzsche) del filosofo tedesco. Scettico molto più che nichilista, scosso da raptus metafisici costantemente frustrati dalla schiavitù del corpo, Cioran ha un unico grande nemico: se stesso. E se le sue imprecazioni si declineranno in grida "esulcerate" contro la Storia, la Filosofia, il Pensiero, il Linguaggio, la Letteratura, gli Uomini e soprattutto Dio sarà sempre sotto questo minimo comun denominatore. Patrono della contraddizione, profeta delle terre di mezzo, Cioran si muove, come un infermo epilettico, tra poesia e prosa, tra convento e storia, tra civiltà e barbarie, tra filosofia e puttane (o meglio nella filosofia delle puttane). Odia la psichiatria e scrive per terapia. Detesta la parola, gabbia insopportabile inadatta alla comunicazione; infatti non scrive, compone. La poesia, regno del vago, ha così corrotto il suo stile che leggerete musica: il Cioran del "Sommario", della "Tentazione", della "Caduta" e del "Funesto" sembra trasformare in lettere le note del "suo" Bach. Ma apprezzarne cadenza e metrica può indurre nella tentazione di lasciar sfilare sullo sfondo i contenuti, è per questo che suggerisco un paio di letture dei suoi testi.

Cioran va seguito come una dolce marea che ci porti non a riva ma in alto mare. Disintegrato ogni appiglio, ogni scoglio, quest'uomo ci abbandona in una terra di nessuno, patria del non sense. Fluttuanti come la sua malinconia, le sue opere vanno vissute come ferite (ce lo ricorda lui stesso nell' Apolide metafisico), lacerazioni con le quali confrontarsi, odiandolo e odiandosi per poi, sintesi inspiegabile, uscirne rinfrancati, purificati. Il pensatore rumeno parte spesso dal razionale per poi dimettersene, approdando all'ignoto per necessità, logica, "lucidità" (termine che ama forse più d'ogni altro). Considera persino l'essere, il più ostinato degli atti, una convinzione da debellare, un pregiudizio da fanatici. Tanto accanimento contro l'Uomo sembrerebbe nascondere un talento mistico, un "fanatico della rinuncia" e qui entra in gioco Cioran il fallito, tra tutti forse il più affascinante dei suoi aspetti. Di fronte alla sua incapacità, reo-confessa, di raggiungere "l'estasi" se non tre o quattro volte in vita sua per brevi momenti, troviamo la chiave meravigliosa di tutti i suoi scritti: insufficienza (forse, come sostiene lui, "endemica" per un occidentale) di trascendere lo "Spirito" ed abdicare la carne. Inchiodato da intelletto e fisiologia alla croce del Tempo, la sospensione dell'attimo resta una chimera, un bastione inespugnabile. Così, mimetizzata nel suo sarcasmo, la passione per i barboni e per Diogene il "cane" (prediletto tra tutti i filosofi), passa per una provocazione molto più di quanto non lo sia. In questo senso è più esplicita, didascalica direi, la sua venerazione per la biografia di Teresa D'Avila (letta cinque volte), invidiata eroina a cui credere, in fondo, per disperazione, unico carburante di cui disporre a dismisura.

Gli appunti personali pubblicati postumi per volontà della compagnia Simone Boué, i Quaderni, ci raccontano, più che altrove, un Cioran attaccato a fama e "io" e soprattutto un Cioran irritato, direi anzi infuriato con se stesso per questo. Pagine che, in realtà, avevamo già letto generalizzate nel meraviglioso saggio breve "Odissea del rancore" all'interno di Storia e Utopia o mirabilmente condensate nella sua j'accuse al Romanzo nel capitolo "Oltre il romanzo" della Tentazione di esistere.

"Non mi perdonerò mai di essere più vicino al primo venuto dei romanzieri di quanto non lo sia al più superficiale dei saggi di un tempo".

Ad essere franchi, risulta estremamente difficile svelare o scoprire questo o quell'aspetto di quest'autore perché svelarsi e scoprirsi è appunto ciò che lui persegue, con reiterato successo, in ogni pagina. Diretto, essenziale, sincero fino all'esasperazione, ripetitivo come un mantra, elegiaco, terribilmente ironico, Cioran ci mostra il suo (e il nostro) scheletro e fa mostra dei suoi orrori, con un'eleganza di stile che, inspiegabile equazione, ha poco o niente della maniera. Per quanto, qui sì con Nietzsche, ci inviti a dubitare di chi scrive troppo bene, spiegandoci come forma e sostanza non vadano mai a braccetto, il tormentato rumeno risulta, in tutta o quasi la sua opera, la confutazione di questo assunto. Oppure, a ben pensarci, la conferma: Cioran è prima di tutto un aspirante del Vuoto, messia ripiegato della vertigine mancata del Nulla.

Brevi note biografiche

 

Emil Michel Cioran (1911-1995) nasce in Romania e studia Filosofia all'università di Bucarest. Studia Schopenhauer, Kant e Nietzsche. Influenzato dagli studi tedeschi, nel 1933 si trasferisce a Berlino. Pubblica i primi libri in lingua rumena ma dal 1937 si trasferisce a Parigi e dal 1945 scriverà solo in francese, lingua definita cavalleresca dallo stesso. Dotato di un'ironia fuori dal comune - e soprattutto apparentemente ignota ai vari filosofi e pensatori del periodo - e di una penna affilata e dissacratoria, è stato uno dei maggiori pensatori pessimisti

giambo arlechino, feb 09

Cioran Emil Michel - Confessioni e anatemi - nic
Cioran Emil Michel - L'inconveniente di essere nati - Paolo Castronovo
Cioran Emil Michel - Pillole di Cioran. Posologia - Giambo
Cioran Emil Michel - Sillogismi dell'amarezza - byrno

 

 

 
 
 

«La ricchezza nomade della letteratura migrante».

Post n°23 pubblicato il 07 Maggio 2012 da Ufficioluoghiperduti
 


Si intitola Il decreto e ha vinto il secondo premio della sezione lingua italiana del Premio Letterario «Antonio Gramsci», XII edizione. Autore del racconto è Ivano Mugnaini, poeta e scrittore, direttore della collana di narrativa dell'editrice «Puntoacapo». Insieme al suo racconto, Mugnaini ci offre preliminarmente alcune considerazioni sul tema della ricezione della letteratura romena in Italia, in una prospettiva di interesse generale. «La sfida - sottolinea - è quella dell'incontro, reale, con una civiltà complessa, multiforme, piena di contraddizioni, giovane e allo stesso tempo antica, aperta al dialogo autentico».

Quando Afrodita Chionchin mi ha proposto questa intervista riguardante la letteratura romena in Italia destinata al suo sito «Orizzonti culturali italo-romeni» ho avuto molte esitazioni. Conosco l'argomento molto meno rispetto a quanto vorrei. Il mio settore di studi ha riguardato e riguarda la letteratura italiana, e, per quello che concerne le letterature straniere, soprattutto il mondo anglofono e quello francofono. Ma, vista la cortesia della mia interlocutrice e la sua grande competenza, sia come studiosa che come traduttrice, ho accettato questo invito all'esplorazione, questo incitamento a ridurre, almeno in parte, quella che con un eufemismo potrei definire socratica «coscienza del non sapere». 
Accanto agli scrittori ormai classici, Mircea Eliade, Emil Cioran, e la stessa Herta Müller, ci sono molto autori romeni che stanno acquistando sempre maggiore rilievo e che testimoniano un grande fermento, conquistando lettori ed estimatori in tutta Europa, Italia compresa. E c'è, tra gli scrittori provenienti dalla Romania e il nostro paese un legame profondo, radicato, significativo. Alcuni risiedono in Italia (come Dieter Schlesak, che vive ad Agliano, è quasi un mio vicino di casa), ed hanno eletto la nostra penisola come patria ideale, anche della loro vena ispiratrice. D'altronde il fil rouge, dal punto di vista linguistico e non solo, è forte ed evidente. E lo studio della letteratura romena è attivo ed attento (anche in questo caso mi è gradito citare, tra gli altri, Bruno Mazzoni, uno studioso che opera a Pisa, città a me vicina e familiare). Le vicende storiche hanno condotto Italia e Romania su direttrici divergenti, ma restano, ben salde, radici comuni.
La letteratura romena attuale, inserita in un contesto di enormi cambiamenti, sospinta dalla necessità di inventare ex novo un presente, un futuro, un'identità condivisa, mi ricorda, per certi aspetti, quel fenomeno fertilissimo ed effervescente chiamato «neorealismo», quel movimenti di idee e progetti inventati tra gioia di vivere e disperazione, tragedia e commedia, capacità di ricostruire, sul piano fisico e morale, un mondo, una scommessa esistenziale.
C'è in più, nella letteratura romena, quel senso di «stabile preciarietà», quella ricchezza nomade, che si trasporta solo nel cuore e nella mente, mai nelle valige, costituito dalla «letteratura migrante». Mihai Mircea Butcovan e Viorel Boldis rappresentano due possibili esempi di questa categoria, ma molti altri scrittori, giovani e meno giovani, sarebbero da ricordare e da incontrare attraverso la lettura. Ritengo che, anche nelle nostre scuole di ogni ordine e grado, la lettura di alcuni autori romeni, la percezione diretta del loro modo di sentire, loro stessi e il mondo con cui vengono a contatto, potrebbe contribuire a far svanire gradualmente antichi pregiudizi. Ciò vale anche per i lettori adulti, perfino per quelli che si definiscono «progressisti». Molti scrittori romeni mostrano nei loro libri, con ironia a volte tragica a volte grottesca, le difficoltà dell'integrazione, sia dell'intellettuale in senso stretto, sia, soprattutto, dello straniero, l'étranger, il forestiero. Ciò ha un significato di documentazione sul nostro tempo, ma anche, in modo non secondario, un notevole rilievo metaforico.
Ribadisco quindi il mio impegno ad esplorare con più cura il vasto e variegato territorio della letteratura romena, e sono molto lieto che la Romania nel 2012 sia il Paese ospite d'onore del Salone del Libro di Torino. Sarà una sfida ed un'opportunità per molti lettori e «addetti ai lavori». L'opportunità è quella di allargare gli orizzonti, la sfida è quella dell'incontro, reale, con una civiltà complessa, multiforme, piena di contraddizioni, giovane e allo stesso tempo antica, dura ma anche solare, aperta al dialogo autentico, senza pregiudizi, senza preconcetti.
Spero, anche grazie ad Afrodita Chionchin ed al suo pregevole lavoro di divulgazione, di arrivare preparato a quel momento di incontro. Un po' meno socratico, un po' più ricco di stimoli e di opportunità, di lettura, di scrittura, di dialogo.
I.M.

 

«Il decreto», di Ivano Mugnaini


Chissà com'è il tempo oggi - si chiese Paride, mentre ascoltava gli schiocchi sordi delle ossa che accompagnavano gli stiracchiamenti e gli sbadigli abissali con cui cercava di scrollarsi il sonno di dosso ogni mattina. Si alzò, annaspò a lungo in cerca delle ciabatte, raggiunse la finestra, si chinò, è infilò la spina del computer nella presa. Inserì un dischetto con la scritta «Meteo», digitò i dati relativi al giorno e all'ora su cui desiderava ricevere informazioni, attese una frazione di secondo, poi vide scorrere sullo schermo una lista densissima di dati, relativi alle temperature minime, massime e medie e alle escursioni termiche giornaliere di diverse decine di città, di tutte le latitudini.
Che bestia, mi sono scordato un'altra volta di selezionare il luogo che mi interessa! Eppure a quest'ora dovrebbe averlo capito in quale città vivo questo arnese... No, ha ragione lui: per lui non fa nessuna differenza se lo adopero io o un australiano... se si trova in questa casa da vent'anni o in un bungalow in Sudafrica... per lui è assolutamente indifferente - rifletté Paride.

 

 
 
 

L'altalena del respiro

Post n°22 pubblicato il 07 Maggio 2012 da Ufficioluoghiperduti
 

La scrittura di Herta Müller Premio Nobel per la Letteratura 2009

Così inizia L'altalena del respiro, libro intenso e non facile ma un'opera importante, una testimonianza necessaria.

Far le valigie

   Tutto quel che ho lo porto con me.
   Oppure: Tutto quel che è mio me lo porto appresso.
   L'ho portato tutto, quello che avevo. Cose mie non erano. Cose nate con un'altra funzione, o appartenenti a qualcun altro. La valigia di pelle di maiale era la custodia di un grammofono. Lo spolverino era di mio padre. Il cappotto da città con il colletto di velluto era del nonno. I calzoni alla zuava, quelli di mio zio Edwin. I gambali di cuoio erano del vicino, il signor Carp. I guanti di lana verde, quelli di mia zia Fini. Solo la sciarpa di seta bordeaux e il nécessaire erano miei, regali degli ultimi Natali.
   C'era ancora la guerra, nel gennaio del 1945. Nel terrore che in pieno inverno dovessi andarmene chissà dove dai russi, ciascuno volle darmi qualcosa che potesse essere utile, quando ormai non c'è più niente che serve. Visto che nulla al mondo poteva servire. Visto che stavo sulle liste dei russi, irrevocabilmente, e ognuno mi dava qualcosa e aveva la sua idea nella testa. Io lo prendevo e a diciassette anni pensavo che questo andarmene stesse arrivando al momento giusto. Non doveva essere per forza la lista dei russi, ma bastava che non finisse troppo male che per me era persino un bene. Volevo andarmene vìa da quella cittadina angusta come un ditale, dove tutti i sassi hanno occhi. Anziché paura avevo quell'impazienza nascosta. E una cattiva coscienza, perché la lista che faceva disperare i miei era una situazione accettabile per me. Avevano paura che mi succedesse qualcosa, in terra straniera. Io volevo andare in un posto che non mi conoscesse.
   Qualcosa mi era già successo. Qualcosa di proibito. Era strano, sporco, svergognato e bello. Era successo nel parco degli ontani, giù in fondo, dietro la collina dall'erba rasa. Tornando a casa ero passato in mezzo al parco, nel padiglione rotondo dove nelle giornate di festa suonavano le orchestre. Mi ero fermato là un po' a sedere. La luce penetrava attraverso il legno finemente intagliato. Vedevo la paura dei cerchi vuoti, dei quadrati e dei trapezi, uniti da bianchi tralci con gli artigli. Era il motivo del mio smarrimento, il motivo del terrore sul viso di mia madre. In quel padiglione, l'ho giurato: non verrò più in questo parco.
   Quanto più cercavo di impedirmelo, tanto più in fretta ci tornai - due giorni dopo. Per un rendez-vous, così si diceva nel parco.
   Andai al secondo rendez-vous con lo stesso primo uomo. Si chiamava LA RONDINE. Il secondo era uno nuovo, si chiamava L'ABETE. Il terzo si chiamava L'ORECCHIO. Poi venne IL FILO. Poi IL RIGOGOLO e IL BERRETTO. E poi ancora LA LEPRE, IL GATTO, IL GABBIANO. E LA PERLA. Solo noi sapevamo quale fosse il nome di chi. Era il passo della selvaggina nel parco, e io mi lasciavo trasportare dall'uno all'altro. Ed era estate e le betulle avevano la corteccia bianca, e nei cespugli di gelsomino e sambuco crescevano pareti verdi di un impenetrabile fogliame.
   L'amore ha le sue stagioni. L'autunno metteva fine al parco. Gli alberi si spogliavano. I rendez-vous si spostarono insieme a noi al bagno di Nettuno. Accanto al portone di ferro c'era il suo emblema ovale con il cigno. Ogni settimana mi incontravo con uno che aveva il doppio dei miei anni. Era rumeno. Sposato. Non dico come si chiamava né come mi chiamavo io. Arrivavamo in momenti diversi e la donna alla cassa nella sua guardiola di vetro e piombo, il pavimento di pietra lucente, la colonna nel mezzo, le piastrelle alle pareti con la fantasia a ninfee, gli scalini di legno intagliati non dovevano pensare che ci fossimo dati appuntamento. Andavamo in piscina a nuotare insieme agli altri. Ci incontravamo soltanto nei piccoli box di legno che facevano da saune.
   Allora, poco prima del Lager e così dopo il mio ritorno a casa, fino al 1968, quando abbandonai il paese, ogni rendez-vous avrebbe significato la prigione. Cinque anni almeno, se mi avessero beccato. Qualcuno l'hanno pure beccato. Dritto dal parco o dalla piscina, dopo un interrogatorio brutale finiva in prigione. E poi da lì nel campo lungo il canale. Oggi so che dal canale non si ritornava più. Chi nonostante tutto ritornava era un cadavere ambulante. Invecchiato e devastato, inutilizzabile per qualsiasi amore al mondo.
   E all'epoca del Lager - se mi avessero beccato nel Lager sarebbe stata la morte.
   Dopo i cinque anni di Lager vagavo giorno per giorno nel tumulto delle strade provandomi le frasi migliori nella mente, nel caso mi avessero arrestato: COLTO IN FLAGRANTE - contro questo verdetto di colpevolezza mi sono preparato mille alibi e scuse. Porto con me il mio bagaglio, ed è un viluppo di quiete. Mi sono avviluppato così a lungo nel silenzio che non riesco mai a svoltolarmi in parole. Mi inviluppo soltanto in altro modo, quando parlo.

Giacomo Feltrinelli editore 2010

 

 

 
 
 

Lieux ...L'inventario di Perec

Post n°20 pubblicato il 06 Maggio 2012 da Ufficioluoghiperduti
 

Nel gennaio del 1969 Georges Perec intraprende un vasto progetto di scrittura che sembra prefigurare l'impresa del miliardario Percival Bathelbooth, il personaggio principale della Vita istruzioni per l'uso. Il progetto di Bartlebooth prevede la composizione di 500 acquerelli dipinti in altrettante località marittime sparse per il globo terrestre, la loro trasformazione in puzzle, la risoluzione dei 500 puzzle così prodotti e la successiva dissoluzione degli stessi nei luoghi in cui sono stati eseguiti gli acquerelli. Un giro del mondo che si dovrebbe stendere nell'arco di 50 anni e che viene interrotto dalla morte del miliardario, sopraggiunta durante la risoluzione del puzzle numero 439.

 Lieux (Luoghi, questo il titolo del progetto di Perec), meno ambizioso quanto all'estensione temporale, deve durare dodici anni. Al contrario di quella di Barthelbooth inoltre, l'impresa di Perec non prevede grandi spostamenti: dodici luoghi di Parigi (strade, piazze, un passage, incroci), legati al vissuto dello scrittore, sono l'oggetto di una duplice scrittura. Ciascuno dei luoghi scelti dev'essere descritto una volta all'anno sul posto, nel modo più neutro possibile, e in un altro momento dello stesso anno dovranno essere rievocati i ricordi ad esso legati. La rievocazione dei ricordi deve avvenire lontano dal luogo in questione. Un algoritmo matematico (biquadrato latino di ordine 12, creato appositamente per Perec dal matematico indiano Chakravarti) dispone la distribuzione dei 12 luoghi in modo da evitare ripetizioni e sovrapposizioni. Una volta conclusi, i testi sono imbustati e sigillati. All'occorrenza possono entrare nelle buste anche fotografie scattate sul luogo o testimonianze della presenza dello scrittore (biglietti della metropolitana, scontrini di cassa, biglietti del cinema, volantini). Alla fine dei dodici anni di lavoro previsti Perec avrà messo da parte 288 buste sigillate.
Nel 1973, al quarto anno di lavoro, Perec non rivela molto di quello che sarà di Lieux una volta aperte le buste, nel gennaio 1982: «Saprò allora se ne valeva la pena: infatti, non mi aspetto nient'altro che la traccia di un triplice invecchiamento: quello dei luoghi stessi, quello dei miei ricordi e quello della mia scrittura».
Come il progetto di Barthelbooth anche Lieux resta incompiuto. Perdita d'interesse, difficoltà a rispettare le consegne, fattori biografici, convincono lo scrittore ad interrompere la stesura di Lieux nel ‘75. Tuttavia il progetto non viene abbandonato del tutto.

 Alcune delle 133 buste accumulate in circa sei anni di scrittura non restano a lungo sigillate e sono pubblicate in sedi diverse tra il 1977 e il 1980, tutte sotto il titolo generico di «Tentative de description de quelques lieux parisiens» (Tentativo di descrizione di qualche luogo parigino). Nel ‘76 Perec pubblica un nuovo testo, filiazione diretta di Lieux, intitolato «Tentative d'epuisement d'un lieu parisien» (Tentativo di esaurire un luogo parigino), consistente nella descrizione del carrefour Mabillion (uno dei 12 luoghi scelti per Lieux) operata in loco e nel corso di tre giornate successive.

Anche Inventario esce dal grande cantiere concettuale di Lieux, la sua genesi è però complicata dal fatto che il testo nasce come complemento di un lavoro per la radio. Il 19 marzo del 1978, dentro un furgone-studio di France Culture, Perec si piazza al solito carrefour Mabillion e comincia a registrare ad alta voce tutto quello che vede. Per circa sei ore le parole dello scrittore si sforzano di restituire fotograficamente ogni particolare del paesaggio urbano, di inseguire la vita, il ritmo, i micro-avvenimenti del luogo. È l'impresa paradossale di un linguaggio che cerca di essere contemporaneo alla realtà («Un'insegna al neon Pizza Verdi lampeggia: Pizza accesa spenta accesa spenta accesa spenta accesa spenta accesa»). Questa registrazione verrà poi trasformata in una trasmissione radiofonica della durata di due ore, trasmessa il 25 febbraio del 1979 all'interno dell'Atelier de Creation Radiophonique di France Culture. Il lavoro di riduzione, oltre che sulla soppressione delle parti meno interessanti, si baserà sulla redazione e sulla recitazione dell'Inventario. In pratica Perec ha riascoltato le sei ore di registrazione e repertoriato ogni singolo elemento della lunga descrizione orale, stabilendo un vero e proprio catalogo di tutto ciò che è visibile nel Carrefour Mabillion nel corso di un pomeriggio qualunque . Non stupisce tanto zelo da archivista, se si pensa che l'autore de La vita istruzione per l'uso ha raccolto alcuni dei suoi più interessanti testi teorici in un libro che s'intitola Pensare/Classificare

La costellazione di scritti prodotti a partire da Lieux ci porta direttamente a quella che potrebbe definirsi la poetica perecchiana dell'infra-ordinario. Nel corso degli anni settanta Perec è invitato ad animare, insieme a Paul Virilio e Jean Dauvignaud, la rivista Cause Commune, diretta da quest'ultimo. I testi di questi anni, alcuni dei quali pubblicati proprio sulla rivista, risentono nettamente del taglio sociologico-antropologico di Cause Commune. Tra i principali obiettivi della rivista era quello di definire un'antropologia della contemporaneità e di intraprendere «un'investigazione della vita quotidiana a tutti i suoi livelli nei suoi recessi e nei suoi anfratti generalmente disdegnati o rimossi». Un simile progetto di rivalutazione del quotidiano affonda le radici in un terreno già ricco. Una parte importante del pensiero francese del dopoguerra si era confrontata con la tematica della quotidianità: Fernand Braudel, Michel de Certeau, Marcel Mauss, Henri Lefebvre, Maurice Blanchot, ad esempio, ciascuno nell'ambito delle proprie ricerche specifiche, avevano mirato a una rivalutazione della dimensione più superficiale delle pratiche di vita e puntato sulla forza rivelativa della quotidianità contro l'egemonia dello spettacolare, dell'evento e dell'ideologico.
La questione che si pone Perec, sulla scorta di questi autori, è la seguente:

«quello che succede davvero, quello che viviamo, il resto, tutto il resto, dov'è? Quello che succede ogni giorno e che ritorna ogni giorno, il banale, il quotidiano, l'evidente, il comune, l'ordinario, l'infra-ordinario, il rumore di fondo, l'abituale, come renderne conto, come interrogarlo, come descriverlo?»

Il linguaggio adottato, secondo Perec, dovrà muoversi alla stessa altezza del suo oggetto, privo di tecnicismi, quasi passivo, piatto. In Specie di spazi ritorna a più riprese su questioni metodologiche relative alla rivelazione dell'infra-ordinario:

«Bisogna procedere più lentamente, quasi stupidamente. Sforzarsi di scrivere cose prive di interesse, quelle più ovvie, più comuni, più scialbe. (...) Sforzarsi di esaurire l'argomento anche se sembra grottesco, o futile, o stupido. (...) Costringersi a vedere più piattamente».

La posta in gioco sono le infinite possibilità di abitare gli ambienti, gli spazi, il mondo: di impossessarci dei nostri luoghi. L'Inventario delle cose viste al carrefour Mabillion è, in questa prospettiva, un esercizio di riappropriazione attraverso lo straniamento:

«Continuare fino a quando questo luogo diventi improbabile, fino a sentire, per un breve istante, l'impressione di essere in una città straniera o, meglio ancora, fino a non comprendere più quello che succede o che non succede».

Soltanto a questo punto sarà possibile ritrovare:

«la sensazione della concretezza del mondo: qualcosa di chiaro, di più vicino a noi: il mondo non più come un percorso da rifare senza sosta o come una corsa senza fine, non più come una perenne sfida da accettare senza tregua, non come unico pretesto per un'esasperante accumulazione né come illusione d'una conquista, ma come ritrovamento d'un senso, come percezione di una scrittura terrestre, d'una geografia di cui abbiamo dimenticato di essere gli autori».


INVENTARIO

(...)

Diverse centinaia, se non diverse migliaia, di passanti dei due sessi, tra i quali, in ordine sparso
Undici bebé portati a passeggio nelle carrozzine
Un macellaio
Cinque uomini calvi
Un prete con una lunga barba
Una signora che mangia del cioccolato
Diciotto uomini col berretto
Sette uomini col basco
Un uomo con la bombetta
Due uomini con dei cappelli tirolesi
Un piccolo fattorino per i telegrammi
Un turista con una macchina fotografica a tracolla
Diciannove fumatori, di cui tre amanti della pipa, due amanti di sigari, uno di sigaretti
Quattro ragazze con delle incerate gialle
Ventitre casalinghe che vanno al mercato con i carrelli della spesa
Un uomo con delle rose
Un militare di leva
Un uomo che mi indica
Tre postini
Cinquantasette persone che attraversano la strada correndo
Tre coppie che passeggiano con un cane
Quarantatre persone con dei pacchi
Una signora con due baguette sotto il braccio
Un uomo con un cappello di pelo
Una bambina che mi fa la linguaccia
Due uomini con la cravatta a farfalla
Duecentoventisette persone con l'ombrello
Una signora con una scatola di dolci
Una bambina che si mette le dita nel naso
Due donne con degli abiti felpati
Un uomo con un lungo grembiule da cameriere
Tre ragazze con il poncho
Un uomo che guarda se gli hanno rigato la portiera della macchina
Un uomo che saluta qualcuno di molto lontano
Un giapponese in un pullman
Una ragazzina che si protegge dalla pioggia tenendo un giornale sulla testa
Un uomo con un violoncello
Una donna che porta a spasso due cani
Due uomini che spingono dei carrelli
Settantaquattro persone in impermeabile
Una donna che sbadiglia nella sua macchina
Una coppia che si bacia
Due ragazze con gli zaini
Due persone che mangiano dei panini per strada
Una ragazzina che ride da sola
Tre addetti alle fogne
Cinque uomini con ventiquattr'ore
Una coppia che passeggia con una mappa di Parigi
Una signora con un bastone da passeggio bianco
Un uomo che sospira
Un uomo che si sfrega le mani
Una signora con un cappello verde
Una signora con un cappello bianco
Cinque netturbini
Un uomo con dei lunghi favoriti che porta a spasso il suo cane
Sette lavavetri di cui uno dall'aria poco allegra
Una donna con un libro rilegato sottobraccio
Una giovane donna che mi scatta una foto
Uno scolaro che porta il suo zainetto in spalla
Sei signore che spingono dei passeggini
Due uomini che fanno cadere la cenere delle sigarette attraverso la portiera della loro macchina
Un uomo che cammina con delle stampelle
Una ragazza che ha comprato uno yogurt
Tre uomini molto grassi
Un cieco che un altro uomo aiuta ad attraversare la strada
Due operai vestiti di bianco
Quattro ufficiali verosimilmente stranieri
Un uomo che si pulisce i denti
Un uomo che si mangia le unghie
Una ragazza che pedala per mettere in moto il suo motorino
Una giovane donna con gli occhiali alzati sulla fronte
Una signora che zoppica leggermente
Un uomo che mangia una mezza baguette
Quindici persone che hanno appena comprato il giornale della sera
Un uomo con tutto l'armamentario del fotografo
Quattro signore che camminano aiutandosi con un bastone da passeggio
Ventotto fattorini di cui diciassette che consegnano giornali
Un uomo che ha l'aria di soffrire per la pioggia

 
 
 

Bestiario,raccolta di racconti

Post n°19 pubblicato il 06 Maggio 2012 da Ufficioluoghiperduti
 

Che la letteratura argentina contemporanea abbia dato nuovo spazio vitale a un glorioso genere narrativo quale il "racconto fantastico" è cosa nota: basterebbe il nome di Borges a provarlo. Ma la prima caratteristica di Julio Cortazar, capofila della generazione che segue a quella di Borges, più ancora che la capacità d'astrazione è la precisione realistica in cui la trasfigurazione visionaria affonda le radici: i vari quartieri di Buenos Aires, gli ambienti altoborghesi o piccoloborghesi o popolari, le atmosfere familiari, i locali dove si balia il tango... Il misterioso, l'irrazionale, il tragico germogliano dalla più corporea descrizione del quotidiano. È in questa pregnanza ambientale che salti nel tempo, scambi di destini, apparizioni, stregonerie arcaiche prendono forma e senso: la vita segreta di una società si popola di tensioni misteriose e inquietanti.
Sugli scenari reali si stacca il "bestiario" metafisico: animali invisibili, come la tigre del racconto che dà il titolo al libro, o immaginari, o creati dal nulla come i coniglietti della Lettera a una signorina a Parigi, o descritti con tanta dolorosa precisione da finire per immedesimarsi in essi. Bestiario è il libro che nel 1951 ha rivelato Cortzar, e resta una delle sue opere più intense e felici, la migliore "introduzione" all'arte di questo scrittore capace di pagine folgoranti, assolute.
Nato nel 1914 a Bruxelles, figlio di un diplomatico, Julio Cortazar ha lasciato l'Argentina nel 1951. Visse dal 1951 in Francia (fino alla sua morte (1984) a Parigi), dove si rifugiò esule volontario in opposizione al regime di Juan Perón.

"Bestiario" una raccolta di racconti.

CASA OCCUPATA

Julio Cortázar

Ci piaceva la casa perché oltre ad essere spaziosa e antica (ora che le case antiche soccombono alla più vantaggiosa liquidazione dei loro materiali) conservava i ricordi dei nostri bisavoli, del nonno paterno, dei nostri genitori e di tutta la nostra infanzia.

Ci abituammo, Irene ed io, a persistervi da soli, cosa che era una follia perché in quella casa potevano vivere otto persone senza darsi fastidio. Facevamo le pulizie il mattino, alzandoci alle sette, e intorno alle undici lasciavo a Irene le ultime camere da spolverare per andare in cucina. Pranzavamo a mezzogiorno, sempre puntuali; non restava molto da sbrigare, tranne pochi piatti sporchi. Era piacevole pranzare pensando alla casa profonda e silenziosa e a come bastassimo noi soli per mantenerla pulita. A volte arrivammo a credere che fosse lei a impedire che ci sposassimo. Irene rifiutò due pretendenti senza seri motivi, e a me morì Maria Esther prima che decidessimo di fidanzarci ufficialmente. Ci affacciamo alla quarantina con l'inespressa convinzione che il nostro semplice e silenzioso matrimonio di fratelli fosse la necessaria conclusione della genealogia fondata dai bisavoli nella nostra casa. Un giorno saremmo morti là, cugini improbabili e schivi avrebbero ereditato la casa e l'avrebbero rasa al suolo per arricchirsi con il terreno e i mattoni; o meglio, noi stessi l'avremmo abbattuta come giustizieri prima che fosse troppo tardi.
Irene era una ragazza nata per non dare noia a nessuno. Tolte le attività del mattino, trascorreva la giornata facendo lavori a maglia sul sofà o in camera sua. Non so perché tessesse tanto, credo che i lavori a maglia siano per le donne il grande pretesto per non fare niente. Irene non era così, ordiva sempre cose necessarie, golf per l'inverno, calze per me, liseuse e sottovesti per lei. Qualche volta tesseva una sottoveste e poi la disfaceva in un momento perché qualcosa non le piaceva; era divertente vedere nel cestino il mucchio di lana increspata che si rifiutava di perdere la sua forma di poche ore. Il sabato ero io che andavo in centro a comprarle la lana; Irene si fidava del mio gusto, era contenta dei colori e non dovetti mai restituire alcuna matassa. Profittavo di queste uscite per fare un giro nelle librerie e domandare inutilmente se c'erano novità di letteratura francese. Dal 1939 non arrivava niente di importante in Argentina.
Ma è della casa che mi interessa parlare, della casa e di Irene, perché io non conto. Mi domando che cosa avrebbe fatto Irene senza i lavori a maglia. Si può rileggere un libro, ma quando un pullover è finito non si può ripeterlo impunemente. Un giorno trovai l'ultimo cassetto del comò di canfora pieno di scialletti bianchi, verdi, lilla. Erano in naftalina, appilati come in una merceria; non ebbi il coraggio di domandare a Irene cosa pensasse di farne. Non avevamo bisogno di guadagnarci da vivere, tutti i mesi arrivavano i soldi della campagna e il denaro aumentava. Ma Irene si svagava solo con i lavori a maglia, dimostrava un'abilità meravigliosa e a me fuggivano le ore guardandole le mani simili a ricci argentei, ferri in su e in giù e uno o due cestini a terra dove si agitavano costantemente i gomitoli. Era bello.

Come potrei dimenticare la distribuzione della casa. La stanza da pranzo, una sala con arazzi, la biblioteca e tre grandi camere da letto rimanevano nella parte più interna, quella che guarda su Rodríguez Peña. Solo un corridoio con la sua massiccia porta di rovere isolava quella parte dall'ala frontale dove si trovavano un bagno, la cucina, le nostre camere da letto e il living centrale, con il quale comunicavano le camere da letto e il corridoio. Si entrava nella casa attraversando un atrio con maioliche, e la porta finestra dava sul living. Di modo che si entrava attraverso l'atrio, si apriva il cancello e si passava nel living; si avevano allora sui due lati le porte delle nostre camere da letto, e di fronte il corridoio che conduceva nella parte più interna; continuando per il corridoio, si oltrepassava la porta di rovere e più oltre cominciava l'altro lato della casa, oppure si poteva girare a sinistra proprio davanti alla porta e proseguire per un corridoio più stretto che portava in cucina e in bagno. Quando la porta era aperta ci si accorgeva subito che la casa era molto grande; altrimenti dava l'impressione di uno di quegli appartamenti che si costruiscono adesso, fatti per muoversi appena; Irene ed io vivevamo sempre in questa parte della casa, quasi mai oltrepassavamo la porta di rovere, salvo che per fare le pulizie, perché è incredibile quanta terra si accumuli sui mobili. Buenos Aires sarà una città pulita, ma lo deve ai suoi abitanti e non ad altro. C'è troppa terra nell'aria, appena soffia un po' di vento si palpa la polvere sui marmi delle consolle e fra i rombi dei centrini di macramè; è una vera fatica toglierla bene con il piumino, vola e resta sospesa in aria, un momento dopo si deposita di nuovo sui mobili e sui ripiani.

Lo ricorderò sempre con precisione perché fu semplice e senza particolari inutili. Irene stava lavorando a maglia in camera sua, erano le otto di sera e all'improvviso mi venne in mente di mettere sul fuoco il bricco del mate. Mi avviai per il corridoio fino a trovarmi davanti alla porta di rovere che era socchiusa, e stavo girando verso la cucina quando sentii qualcosa nella sala da pranzo o nella biblioteca. Il suono arrivava indistinto e sordo, come il rovesciarsi di una sedia sul tappeto o un soffocato sussurro di conversazione. Lo udii anche, nello stesso momento o un secondo più tardi, in fondo al corridoio che andava da quelle stanze alla porta. Mi gettai contro la porta prima che fosse troppo tardi, la chiusi di colpo appoggiandomici con il corpo; fortunatamente la chiave era infilata dalla nostra parte e inoltre feci scorrere il grande chiavistello per maggior sicurezza.
Andai in cucina, scaldai il bricco, e quando fui di ritorno con il vassoio del mate dissi a Irene:
- Ho dovuto chiudere la porta del corridoio. Hanno occupato la parte in fondo.
Lasciò cadere il lavoro a maglia e mi guardò con i suoi gravi occhi stanchi.
- Ne sei sicuro?
Annuii.
- Allora, - disse raccogliendo i ferri, - dovremo vivere da questo lato.
Io preparavo il mate con molta cura, ma lei tardò un istante a riprendere il suo lavoro. Ricordo che stava facendo una sottoveste grigia; mi piaceva quella sottoveste.
I primi giorni ci sembrò penoso perché entrambi avevamo lasciato nella parte occupata molte cose che amavamo. I miei libri di letteratura francese, per esempio, erano tutti nella biblioteca. Irene sentiva la mancanza di certe tovagliette, di un paio di pantofole che le tenevano tanto caldo in inverno. Io rimpiangevo la mia pipa di ginepro e credo che Irene pensasse a una bottiglia di Esperidina oramai antica. Frequentemente (ma questo accadde solo nei primi giorni) chiudevamo qualche cassetto dei comò e ci guardavamo con tristezza.
- Qui non c'è.
Ed era una cosa in più di tutto quel che avevamo perduto all'altro lato della casa.
Ma ne fummo anche avvantaggiati. Le pulizie furono talmente semplificate che anche alzandoci tardissimo, alle nove e mezzo per esempio, non erano ancora suonate le undici che già ce ne stavamo con le mani in mano. Irene si abituò a venire con me in cucina e ad aiutarmi a preparare il pranzo. Ci pensammo bene, e decidemmo così: mentre io preparavo il pranzo, Irene avrebbe cucinato piatti da mangiare freddi la sera. Ce ne rallegrammo perché è sempre seccante dover abbandonare le proprie camere sul far della sera e mettersi a cucinare. Adesso ci bastava la tavola in camera di Irene e i piatti freddi.
Irene era contenta perché le restava più tempo per lavorare a maglia. Io mi sentivo un po' smarrito senza i libri, ma per non rattristare mia sorella presi a sfogliare la collezione di francobolli di papà, e questo mi servì ad ammazzare il tempo. Ci divertiamo molto, ciascuno occupato nelle cose sue, quasi sempre riuniti nella camera d'Irene, che era più comoda. A volte Irene diceva:
- Guarda il punto che mi è venuto. Non ti sembra il disegno di un trifoglio?
Un momento dopo ero io che le mettevo sotto gli occhi un quadratino di carta affinché ammirasse il valore di un francobollo di Eupen-et-Malmèdy. Stavamo bene, e a poco a poco cominciavamo a non pensare. Si può vivere senza pensare.

(Quando Irene sognava ad alta voce io mi svegliavo subito. Non mi sono mai potuto abituare a quella voce da statua o da pappagallo, voce che viene dai sogni e non dalla gola. Irene diceva che i miei sogni erano fatti di grandi scossoni che qualche volta facevano cadere la coperta. Le nostre camere da letto erano divise dal living, ma di notte si sentiva tutto nella casa. Ci sentivamo respirare, tossire, presentivamo il gesto che conduce all'interruttore della lampadina, le mutue e frequenti insonnie.
A parte questo, tutto era silenzioso nella casa. Di giorno, solo i rumori domestici, lo strofinio metallico dei ferri da cucito, uno scricchiolio nel voltare le pagine dell'album filatelico. La porta di rovere, credo di averlo già detto, era massiccia. Nella cucina e nel bagno, che erano contigui alla parte occupata, ci mettevamo a parlare a voce più alta oppure Irene cantava qualche ninna-nanna. In una cucina c'è troppo rumore di stoviglie e bicchieri perché altri suoni vi irrompano. Quasi mai permettevamo lì il silenzio, ma quando tornavamo alle camere da letto e al living, allora la casa si faceva silenziosa e in penombra, camminavamo persino più piano per non darci noia a vicenda. Credo fosse per questa ragione che di notte, quando Irene cominciava a sognare ad alta voce, io mi svegliavo subito).
È quasi come ripetere la stessa cosa, salvo le conseguenze. Di notte mi viene sete, e prima di andare a letto dissi a Irene che andavo in cucina a prendere un bicchiere d'acqua. Dalla porta alla camera da letto (lei lavorava a maglia) udii il rumore in cucina; forse nella cucina o forse nel bagno perché il gomito del corridoio spegneva i suoni. Irene fu colpita dal modo brusco con cui mi fermai, e venne accanto a me senza dire una parola. Restammo ad ascoltare i rumori, notando distintamente che provenivano da questa parte della porta di rovere, nella cucina e nel bagno, o nello stesso corridoio, dove incominciava il gomito quasi al nostro fianco.
Non ci guardammo neppure. Strinsi il braccio di Irene e la feci correre con me fino alla porta finestra, non ci voltammo indietro. I rumori si udivano sempre più forti ma sempre sordi, alle nostre spalle. Chiusi d'un colpo la porta e restammo nell'atrio. Ora non si udiva nulla.
- Hanno occupato questa parte, - disse Irene. Il lavoro a maglia le pendeva dalle mani e i fili arrivavano fino alla porta e vi si perdevano sotto. Quando vide che i gomitoli erano rimasti dall'altro lato lasciò cadere il lavoro senza guardarlo.
- Hai avuto tempo di portare via qualcosa? - le domandai inutilmente.
- No, niente.
Restavamo con quel che avevamo indosso. Mi ricordai dei quindicimila pesos nell'armadio della mia camera da letto. Troppo tardi ormai.
Poiché mi era rimasto l'orologio da polso, vidi che erano le undici di sera. Cinsi con un braccio la vita di Irene (credo che lei stesse piangendo) e uscimmo in strada. Prima che ci allontanassimo, ebbi pietà, chiusi bene la porta d'entrata e gettai la chiave nel tombino. Che a un povero diavolo non venisse in mente di rubare e di entrare in casa, a quell'ora e con la casa occupata.

(Tratto dalla raccolta Bestiario, Einaudi, Torino, 1974, a cura di Ernesto Franco, traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini e Vittoria Martinetto)

 

 
 
 

El Tango De La Vuelta

Post n°18 pubblicato il 06 Maggio 2012 da Ufficioluoghiperduti
 

Los libros de Cortázar
El tango de la vuelta

El martes 14 de febrero de 1984 se enterraba en París, en el cementerio de Montparnasse, a Julio Cortázar. Al día siguiente, según figura en el colofón, se terminaba de imprimir en Bruselas La Puñalada/El tango de la vuelta, un curioso libro del pintor holandés Pat Andrea y del propio Cortázar, cuya pista se perdió a partir de ese momento entre Europa y América, y del que 17 años más tarde se recuperarían 240 ejemplares.


La historia comenzó en Argentina, en marzo de 1975. Pat Andrea es un joven pintor holandés que llega a Buenos Aires justo el día después del golpe militar del general Videla. Allí vivió los ocho primeros meses de la dictadura, marcados por la conmoción del golpe de Estado y la feroz represión que se desató. En 1979, ya de vuelta en Europa y casi en estado de trance, trabaja en una serie de 34 dibujos que tienen como hilo argumental la sangre y los cuchillos, siempre clavados a traición, por la espalda.


Cuando Elisabeth Franck, una galerista belga, vio los dibujos, propuso a Andrea que buscara a alguien que le firmara un prólogo, con idea de editar un libro. Andrea acudió a ver a Julio Cortázar, con quien quedó para ver los dibujos en un pequeño cuarto que el artista tenía entonces alquilado cerca de la Place Pigalle, en París. «Recuerdo que me pareció un tipo enorme, cuando entró tuvo que agacharse para no darse en la cabeza con la puerta. Estaba claro que era mucho mayor que yo, pero sin embargo mostraba una extraña apariencia juvenil, iba vestido con una parka, de manera muy informal. Vio los dibujos despacio, y le encantaron».


Cortázar acepta hacer un texto para el libro, pero anuncia a Andrea que no será ni un prólogo, ni una presentación, sino un cuento que le entregó cinco meses más tarde, y que se titulaba El tango de la vuelta. El texto, traducido al holandés y al francés, se publicó en sendas ediciones de 400 ejemplares, en 1982. Fue entonces cuando la editora se planteó publicar también el libro en inglés y en español que debieron imprimirse en los años siguientes, ya que a Pat Andrea le llegaron los ejemplares «de autor» que justificaban la tirada. Lo cierto es que hay un momento a partir del cual los hechos empiezan a difuminarse; Elizabeth Franck sufre una profunda crisis de la que no conseguirá recuperarse. Abandona la galería, cambia de domicilio, y desaparece durante largas temporadas.

Tras la muerte de Franck, los libros, que nunca llegaron de hecho a distribuirse, desaparecieron definitivamente más allá de algunos ejemplares que aparecieron en la galería y que se distribuyeron en librerías y mercados de ocasión. Nadie en los siguientes quince años volvió a tener noticias del libro.


En la edición del año 2000 de ARCO, la galerista madrileña Eugenia Niño tiene una conversación con Celia Birgagher, directora de una revista de arte, quien le habla de unas cajas de libros que guardaba en Miami, y que Elisabeth le había confiado en depósito diez años atrás. La galerista española, que sabía de la existencia del libro por Pat Andrea, decidió hacerse cargo de ellos.

Los libros llegaron a Madrid en julio de ese año, en seis cajas de cartón, algunos, los menos, dañados y con marcas de humedad. En total, se salvaron 240 ejemplares. Nadie sabe cuántos se editaron, ni dónde está el resto. Todo parece indicar que Elisabeth Franck envió al menos una parte de la edición a Florida para distribuirlos desde allí. Al desentenderse de sus negocios, los libros quedaron definitivamente olvidados.

En noviembre de 2005 los 34 originales de Pat Andrea se expusieron en el MACUF -Museo de Arte Contemporáneo Unión Fenosa-, en La Coruña, con motivo de una exposición antológica del pintor.

Centro Virtual Cervantes © Instituto Cervantes, 1997-2012. 

 

 
 
 

Arthur Cravan

Post n°17 pubblicato il 06 Maggio 2012 da Ufficioluoghiperduti
 

Eclettico, imprevedibile, folle o geniale a seconda dei punti di vista... o delle giornate, Vinicio Capossela sorride quando mi presento. "Mangialibri? Un bellissimo nome, pensa che una delle mie parole preferite è mangiadischi!". Feeling immediato, una domanda tira l'altra e voilà: l'intervista.
Perché mai un libro dovrebbe avere quattro guantoni in copertina?
Parole e pugni sono la metafora della vita, dell'incontro: In clandestinità è il racconto del nostro Novecento, un inno all'amicizia scritto a quattro guantoni. Penso che quattro mani oltre che colpirisi possano anche stringersi ed è quello che mi auguro. In questo libro parliamo della quotidianità dei piccoli gesti, delle piccole storie che puoi maneggiare come un pacchetto di sigarette, come sapersi orientare in un piccolo supermercato di quartiere. Vincenzo Costantino - il mio coautore - è il tipo di persona che sa se una marca di toast è meglio di un'altra.
 
Dov'e Vinicio oggi?
Amo "Sliding doors" e nella vita personalmente ho sempre avuto difficoltà a chiudermi le porte alle spalle. E infatti nella mia vita ci sono molti spifferi.
 
Per il Festival della Letteratura di Roma 2009 avete sperimentato la forma del reading: come mai?
Per me che sono un cantante era un po' una novità, così per come l'abbiamo concepito è una forma di lotta con il pubblico, un match fra noi contro di loro.
 
Qual è la tua giornata perfetta?
Quando si può contare sulla propria autosolidarietà, non sull'autostima attenzione. Quando si può fidare di se stessi, indossare una camicia a quadrettini come quella che ho oggi e avere " come torto il buon umore".
 
In una delle cose che hai scritto per questa occasione parli della luna...
Sì, "Camoia e la luna", un brano tratto da un testo che si intitola "Il paese dei coppoloni", che descrive un villaggio i cui abitanti sono soliti indossare delle coppole per una ragione particolare. La luna è sempre stata una specie di territorio di evocazione dell'anima: la prima volta a cinque anni, in un cortile, vidi che aveva una faccia, allora mi inginocchiai e le chiesi scusa per non averla creduta divina. Più tardi due andini dell'Ecuador mi raccontarono degli occhi della madre morta, due stelle in cui incarnavano la "loro signora luna", la loro madre. La luna raccoglie i lamenti, i canti d'amore.
 
Com'è andata questa esperienza editoriale con Vincenzo?
Un incontro senza filtro, fatale ma casuale, Mr. Pall incontra Mr. Mall, due esseri che si completano, inseparabili come la scritta sul pacchetto di sigarette, alle prese con la difficoltà della vita quotidiana. Anche la copertina ha un rimando preciso alle sigarette, infatti stiamo già pensando ad sequel che avrà una copertina azzurrina - più light. Abbiamo raccontato storie piccole come nel bellissimo film "Smoke", dove la box non è solo metafora della vita e la copertina è se vogliamo una dedica - pugni e poesia - ad Arthur Cravan, pugile e poeta.
 
Cosa pensi della scrittura in prosa?
Quando scrivo cerco di elaborare e rendere visibile un mondo fatto di cose, trovo che la musica sia un'arte più socievole, che riesce a coinvolgere molte persone, come i musicisti e i tecnici, mentre la scrittura è un modo di rientrare a casa. La musica ti porta in giro, la scrittura ti riporta a casa, ecco.
 
Possiamo sperare in un prossimo libro?
Me lo auguro, anche in passato ho dedicato molto tempo alla scrittura e prima o poi uscirà "Il mondo dei coppoloni" e altri due o tre progetti che vorrei portare a compimento.
Pubblichiamo un articolo dello scrittore Alberto Prunetti, autore tra le altre cose di Potassa e Il fioraio di Perón, e uno dei due membri dell'Arthur Cravan Italian Heritage Committee. Geniale cercatore di storie sepolte, vero conoscitore di personaggi della letteratura e dell'arte assolutamente originali, Alberto ci regala un vero e proprio dagherrotipo narrativo, una storia che puzza di cloruro d'argento e che restituisce tutte le tonalità di personaggi, luoghi e tempi che vale la pena conoscere. Il primo fotogramma di una pellicola appena cominciata...

Un bruto, uno che non capisce le leggi. Per Vaneigem, il campione del mondo di nichilismo dada. Uno che ha dato corpo alla sfida di Arthur Rimbaud contro la civiltà. Ma che corpo, signori, che carcassa: 105 chili su due metri e cinque. Tutti di muscoli. Intestati a Arthur Cravan, pronipote di Oscar Wilde, sedicente campione dei pesi massimi in Canada e guastatore del dadaismo internazionale. Lo avvistano, agli inizi del Novecento, a Losanna, Parigi, Madrid e New York. Disertore professionista, durante la Grande Guerra cambia continuamente cittadinanza e identità per disertare di nuovo, e alla recidiva aggiunge il cambio di genere: riesce a passare una frontiera travestito da donna, anzi: da donnone. E lo vedono in mille altri posti. Conferenziere farneticante, invece di declamare versi si spoglia e offre dimostrazioni di pugilato. Poi spara con la sua rivoltella sopra la testa del pubblico e se ne va per fondare una rivista di critica brutale, Maintenant, che vende lui stesso su un carro da verduraio davanti agli altari delle avanguardie europee. Insulta letteralmente tutti i poeti dell'epoca e tra i prosatori copre di merda il povero Gide, che non ha il coraggio di dirgli assolutamente niente. E c'è da capirlo, poveretto.

Giunto per vie fortunose a Madrid, il pittore e scrittore Picabia lo inserisce nel jet set: con una camicia di seta strabordante di muscoli balla il tango e va in giro accompagnato da un paio di meretrici. Poi conosce Jack Johnson, il campione del mondo scappato dagli Stati Uniti perché inseguito dall'odio dei suprematisti bianchi. I due pugili decidono di applicare il dadaismo alla noble art e inscenano la grande truffa dei pesi massimi. Allestiscono in Spagna un incontro che dovrebbe essere il match del secolo. Jack Johnson all'epoca è un mito, il più grande pugile prima di Muhammad Alì. Si accordano per una borsa enorme anche per chi perderà. Il palazzo dello sport non riesce a contenere le migliaia di spettatori: suona il gong, dopo un paio di jab telefonati, Cravan si mette in ginocchio e toccando i piedi di Johnson lo  supplica: «Non picchiarmi, mammina, ti voglio bene!» Il pubblico non la prende bene e cerca di linciare i due pugili. Loro scappano e si sbronzano in periferia.

A quel punto Cravan fa perdere le sue tracce. Ricompare in America. A New York vive nei parchi, nel nord del Canada si dedica alla pesca dei merluzzi. In Messico vive di espedienti, poi gestisce una palestra di lotta libera e prepara una conferenza sull'arte egizia. Conosce la poetessa inglese Mina Loy, si innamora perdutamente e la sposa, nonostante fosse già sposato con un'altra. Non capisce le leggi e si chiede incuriosito perché lo accusino di bigamia. Alla fine Mina scappa a Buenos Aires, lui le scrive lettere colme di poesia. Secondo André Breton, che lo inserisce nella Antologia dello humour nero, Cravan una notte si ubriaca come un pazzo in una spiaggia messicana, ruba una barchetta e prende il largo a remi, fiducioso delle proprie braccia e  convinto di poter ricongiungersi col suo amore a Buenos Aires. Scompare nell'oceano

Mina lo aspetta per un po', poi torna in Inghilterra. Lo cerca per tutte le carceri e i bordelli e le palestre degli Stati Uniti. Poi si arrende. Lo dichiarano scomparso nel 1918, quando aveva 31 anni. Sulla sua morte ci sono altre ipotesi: secondo Blaise Cendrars finì accoltellato in una bettola. Secondo altri la sua scomparsa sarebbe un trucco per fottere i creditori: arrivò a Buenos Aires, cambiò identità e divenne un maestro di tango. Visse mille vite, morì mille morti.

Alberto Prunetti

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Un Violino Per Chagall

Post n°16 pubblicato il 05 Maggio 2012 da Ufficioluoghiperduti
 

 

A Vitebsk tutto vola: un vecchio ebreo col giaccone nero, una capanna aerostatica, un cavallo fuggito dalle stalle di Giotto. Volano le vacche, gli sposi, i giorni e un violinista sul tetto.

Cosa suona nella notte in mezzo alla pianura di neve?

Con quale musica culla il villaggio e spegne icone e fantasmi?

Non permettete che cada il violino, testimone di nozze e di funerali. Non permettete che taccia.

È forse un violino zingaro inventato dal diavolo?

È forse un violino per guidare i viaggiatori delle grandi steppe?

Violino rotto della tragica Russia?

Nessuno sa cosa porta dentro il suo sacco, il suo rozzo sacco, il vecchio ebreo dal giaccone. Forse nasconde un libro che racconta la lotta di Giacobbe con l'angelo?

Se è un violino, meglio che cada nelle mani di Chagall.

Allora tutto vola, i tetti rossi, i candelieri, le mani cerate del rabbino, la luce intermittente della sinagoga.

 
 
 

Siate. Siate. Siate.

Post n°15 pubblicato il 05 Maggio 2012 da Ufficioluoghiperduti
 

Sermone ai cuccioli della mia specie

Cari cuccioli, vi ho guardato a lungo. Ero lì nascosta nel buio e vi guardavo giocare, nascosta nel buio come una carogna, come una spia che studia il nemico, come un ladro che aspetta il momento buono, come un terrorista che guarda a distanza e fa i suoi piani d’innesco. Io vi guardavo ammutolita, intenerita da voi, cari cuccioli della mia specie, e poi anche disgustata da voi che eravate lì inermi a un palmo dal mio naso.
Siete indeboliti cuccioli. Siete spaventati e soli. Siete avidi. Siete sazi. Siete svuotati. Sfiniti siete. Siete vinti.
Io vi guardavo da una quasi nausea, da tutto quel buio: ricordavo un’antica infelicità d’infanzia, un’antica paura. ricordavo bene quell’essere fra gli altri, spersa, sola. La mia paura me la ricordavo, guardando la vostra. Ricordavo bene il mio sguardo, come se lo avessi sempre visto da fuori: sbigottito, quasi non ci credevo d’essere in questo mondo, non me lo spiegavo, il mondo, non mi raccapezzavo. Come precipitata ero, dalle altezza caduta molto giù, molto di lato, nel mondo degli uomini e delle donne. Nel mondo delle case di mattoni. Nel mondo dove si lavora e si mangia e si dorme e si fa la cacca ogni giorno e ogni giorno si fa la pipì tante di quelle volte e si mangia e si dorme e ci si lava la faccia.
Da dentro quello sguardo, chiusa lì dentro nella mia fortezza io guardavo il mondo dei grandi e provavo una grande pietà. Io li sentivo che piangevano dentro. Sentivo che non ce la facevano. Li sentivo gridare dentro. Con muri dentro, con scarafaggi e muffe, dentro. E un giorno, quando ero molto piccola, ho fatto un giuramento, un giuramento infante, senza le parole, ma chiarissimo e sonante: io me li prendo tutti nel petto e li scampo, li porto in salvo.
Ho giurato così, senza dire neanche una di queste parole, ma con tutte queste parole più forti cento volte. Nel mio letto, vicino al grande armadio con lo specchio, fra le sponde altre di legno, con la sorella vicina che tossiva, giuravo forse ogni notte, per quella tosse, per la faccia stanca del mio babbo, e per tutte le facce dei grandi, coi loro segni come di grande pena. Una bambina nel suo letto ha fatto il giuramento, recitato la formula che salva, forse ha vinto sulla morte e sul mondo.
Aspettavo il giorno in cui mi avrebbero detto il grande segreto. Sentivo, lo sapevo, che dietro al loro non dire niente si nascondeva la grande verità. Sentivo, lo sapevo, che loro sapevano tutto quello che io non sapevo. Sentivo che un giorno me lo avrebbero detto e io avrei capito il mondo e non avrei sofferto come loro, perché loro stavano già soffrendo anche per me. Sentivo e aspettavo.
Poi molto piano, molto in ritardo, molto piano, millimetro dopo millimetro, in un lavorio di tic tac e minuti molto piccoli, piano piano, sono passata di là, sono caduta del tutto nel mondo, appiattita, schiacciata al suolo in un lento atterraggio.
Adesso, cari cuccioli, io sono grande. Sono molto grande. Sono quello che mai e poi mai avrei voluto essere: una persona grande. Adesso io sono dei loro. Adesso lontanissima sono dai miei favolosi sette anni, quando ero un genio buono, uscito da poco dalla lampada, e un filosofo ero, ma senza le parole, un grandioso poeta analfabeta, un artista senz’arte.
Adesso da qui, da questo esilio duro, da questo corpo con peso, da questa mente complicata, da questa mente ingombrante, da qui, da questo buio che è tutto il mio, da qui vi guardo, adorandovi. Vi chiedo aiuto. Una parte di me vi supplica, vi implora, vi chiede aiuto e aiuto. Adesso tocca a voi salvarmi, fare il giuramento. Potrete? Ci riuscirete? Mi sentite? Sentite?
Dicono che siete rotti. Siete sazi, dicono. Corrotti. Rovinati siete, come tutto il resto. Anche voi nella lista lunga delle perdite: l’acqua, l’aria, il silenzio, il pudore… Anche voi. Stuprati siete, rotti. Vecchissimi e troppo stanchi per l’infanzia. Scarichi. Vuoti.
Allora adesso imparate. Imparate l’odore dei nemici potenti. Sbranate, cuccioli, le loro mani piene. Scassate le loro tane come galere. Sputare sui loro piatti. incendiate le stanze gonfie di giocattoli, scappate, morsicate, tirate pietre sui televisori, scalciate, spaccate questo micidiale nostro sogno, l’inesauribile bisogno di confort, fateci a pezzi, scancellate noi, puniteci per aver fatto di voi le nostre miniature, per avervi disinnescati, resi innocui, per non avervi ascoltati, nel vostro sommo sapere.
Voi che eravate le porte del regno dei cieli e chi non passava da voi non passava, voi che eravate purissima gioia, voi che eravate noi bloccati nella più grande bellezza, voi che somigliavate ai cuccioli degli altri animali, voi che capivate lo splendore misterioso degli animali, voi che dormivate un sonno perfetto e benedetto, voi che vi svegliavate ridendo, voi che facevate balletti strepitosi. Voi, nostre divintà domestiche.
Nascete ancora, cuccioli. Restate. Siate. Salvate. Giurate. Siate. Siate. Siate.
 
 
 

La casa del tempo sospeso

Post n°14 pubblicato il 03 Maggio 2012 da Ufficioluoghiperduti
 

In un mondo di storpi, è il sano ad essere diverso. Questo è il primo paradosso che si realizza nella Casa. I suoi bizzarri abitanti sono bambini e adolescenti accomunati da una menomazione: mutilati, paraplegici, ciechi, albini, ritardati. L'invalidità diventa il segno distintivo di un'umanità eletta proprio perché reietta, il simbolo dell'appartenenza ad un mondo altro, creato su misura per loro.

 

All'interno della Casa questi ragazzi dimenticati sperimentano le passioni della loro età con l'intensità che solo la giovinezza concede: amicizia, rivalità, odio, desiderio di emulazione, amore, affetto. Stringono legami profondi, affrontano le sfide quotidiane, crescono nel loro piccolo e complesso universo.

E soprattutto: sognano. Ma nella Casa le loro fantasie, prodigiose e terrificanti, acquistano concretezza come per magia, tessono una rete di illusioni che finisce per sostituire la realtà. La geografia della Casa viene creata e ricreata incessantemente dall'immaginazione dei suoi abitanti, dalle loro storie, paure, segreti, sogni. Ci sono luoghi proibiti, spazi che suscitano strane suggestioni, si dilatano all'infinito, mutano improvvisamente; ci sono pozioni allucinatorie e amuleti sciamanici; ci sono cacce in foreste oniriche; ci sono divieti scaramantici e obblighi sacri; ci sono metamorfosi e magie.

La realtà è confinata oltre il recinto della Casa, nell'Esteriorità: banale, priva di fantasia, ostile, insensata. Ma prima o poi l'infanzia finisce e il mondo degli adulti chiama alla resa dei conti: allora si può solo fuggire definitivamente nel sogno oppure rinunciare per sempre alla condizione meravigliosa e crudele dell'adolescenza. Affrontare l'ingresso nell'età matura e la fine delle illusioni sarà la più grande e dolorosa sfida per gli abitanti della Casa.

La casa del tempo sospeso di Marjam Petrosjan ha una rara dote: rappresentare perfettamente la realtà attraverso il fantastico. Non c'è modo migliore di descrivere un adolescente che come un reietto, che vede gli adulti come esseri del tutto estranei, che alimenta la propria diversità come marchio elettivo, che vive in una dimensione separata dal resto del mondo, dove la realtà è fatta di sogni e passioni. La cosa più straordinaria nel leggere questo libro è sorprendersi nel paragonare gli stravaganti storpi della Casa ai propri ex compagni di classe, o ai vecchi amici dei giardinetti, e  immaginare sé stessi all'interno di quella marmaglia, affibbiarsi un soprannome evocativo, pensare in quale tribù collocarsi. La potenza immaginifica di queste pagine non restituisce solo un teatrale sense of wonder, ma descrive quel modo di sentire caratteristico dell'infanzia, in cui non c'è confine fra immaginazione e realtà. E infine ci si chiede, con un filo di amarezza, quando si è perso quel modo incantato di guardare il mondo. La casa del tempo sospeso è un libro che ti interroga su quanto sia illusorio ciò che ritieni reale e normale, e su quale sia il prezzo da pagare per diventare adulti.

Mariam Petrosjan, La casa del tempo sospeso, Salani 2011

 

 
 
 

Top 5 ai confini del mondo

Post n°13 pubblicato il 02 Maggio 2012 da Ufficioluoghiperduti
 

Questa Top 5 è dedicata a quegli autori che accompagnano i loro lettori alla fine (geografica) del mondo, attraverso esperienze che portano alle colonne d'Ercole dell'avventura concepita non come mera sfida, ma come forma di sperimentazione e conoscenza di sé. Quali sono, oggi, i libri in grado di fare questo?
 
1. Mi chiamavano montanaro, Alex Bellini. Nato nel 1978 dalle parti di Sondrio, assolutamente lontano dai mari, Alex porta a termine nel 2006 una traversata a remi in solitaria dell'oceano atlantico partendo da Genova ed arrivando fino a Fortaleza, in Brasile. Il libro, oltre ad essere un coinvolgente e mai noioso resoconto di pensieri e azioni di mesi di vita in mezzo al mare senza anima umana intorno, mostra la caparbietà e le fragilità di un ragazzo che decide di lasciare tutto ciò a cui tiene di più per andare a cercare fra il nulla delle onde quel qualcosa che non è nemmeno sicuro di trovare, ma che lo ha chiamato e che lo fa sentire vivo.
 
2. Il sogno del lupo, Ario Sciolari. Avete mai immaginato di percorrere 3000 chilometri con degli sci ai piedi, ad un temperatura media di -25° C, insieme a due lupi (non cani lupo, lupi veri!)? Probabilmente no. Ario Sciolari non solo lo ha immaginato, ma lo ha anche fatto. È di questo che si legge ne Il sogno del lupo: una traversata in solitaria delle alpi scandinave che porta a tuffarsi nuovamente nella natura più primitiva ed incontaminata per imparare qualcosa, senza la volontà di raccontarsi forte a tutti i costi nelle situazioni più dure.
 
3. Confessioni di un serial climber, Mark Twight. Probabilmente, se non siete appassionati di arrampicata non lo avete mai sentito nemmeno nominare, ma questo scalatore è in grado di farvi cambiare idea se pensate che la letteratura di montagna sia boooring. Un racconto di avventure sulle più importanti catene montuose mondiali, ma soprattutto una dichiarazione di guerra alla mediocrità. Twight è un estremista, a tratti arrogante, con le capacità introspettive che solo la montagna sa regalare.
 
4. Luoghi selvaggi, Robert MacFarlane. Forse preferite qualcosa di meno mozzafiato o forse state solo pensando: tutto bello, emozionante, ma chi può andare in mezzo all'oceano o in cima al K2? Vorreste un luogo per voi più esotico del suolo italico ma ugualmente raggiungibile? Ok... Pronti a fare un biglietto (rigorosamente low cost) alla volta della Gran Bretagna? Sì perché con questo libro non avrete più scuse. Scoprirete come il vostro angolo di natura ed avventura vi stia aspettando fra Scozia, Inghilterra ed Irlanda.
 
5. Sul tetto del mondo, Jon Lewis. Questo libro è un trojan per fare entrare tutti quegli autori che avremmo voluto mettere in questa Top 5 ma non abbiamo potuto farlo, semplicemente perché mostri sacri di questo modo di scrivere e di vivere che avrebbero sbaragliato la concorrenza. Sono raccolte qui alcune pagine di Bonatti, Messner, Krakauer e non solo. Spunti per poi proseguire con loro!
 
E voi,cosa leggete ai confini del mondo?

 

 

 
 
 

Felsinea

Post n°12 pubblicato il 02 Maggio 2012 da Ufficioluoghiperduti
 

photo credit: Michele Ursino

Per molti Bologna ha un sapore di cultura che non si toglierà mai di dosso. In tutta Italia ci sono studenti che pianificano il loro trasferimento a Bologna, e ogni anno, verso settembre, i muri della città si riempiono di volantini che offrono camere (a prezzi esorbitanti). Quella fetta di centro storico che è il quartiere universitario è fitta di biblioteche e librerie.

Pensate: l'intera provincia di Bologna non raggiunge il milione di abitanti, eppure ci sono più di cento librerie indipendenti e più di duecento biblioteche. La prima libreria d'Italia a fare orario continuato è nata qui, esattamente sotto le Due Torri. Abbiamo avuto un Nobel come Carducci, abbiamo Benni, Brizzi e Cacucci; Eco lo si vede ancora girare per Bologna, e Pasolini purtroppo non lo si vede più. Se la chiamano "Bologna la dotta", un motivo c'è.

Le librerie Le librerie di Bologna se la passano meglio di quelle di altre città italiane. Grazie all'università, 90.000 persone sono obbligate ad acquistare in media una ventina di libri ogni anno, spesso titoli fuori catalogo o di difficile reperibilità per le grandi catene. Come a Milano, anche le librerie indipendenti di Bologna non temono l'ebook e non sentono la minaccia di colossi online come Amazon e Ibs. Certo, i forti sconti che solo le catene possono praticare (e che in altri paesi europei sono vietati per legge) hanno chiuso tante librerie storiche, ma sono proprio le catene quelle più colpite dalla vendita online e dalla rivoluzione digitale.

Ecco le prime librerie di cui vogliamo parlarvi.

Nel 2005 chiude la Libreria Duomo di via Indipendenza, e una cliente offre a Nicoletta Maldini lo spazio per aprire una nuova libreria, la Libreria Trame, Via Goito 3/c. In neppure sei anni è diventata il nome che tutti citano quando si parla di librerie indipendenti.

La Libreria Trame è gestita da tre donne: Nicoletta Maldini, Orsola Mattioli e Anna Vezzoli, tutte e tre forti lettrici. A differenza delle grandi catene, una libreria indipendente deve riuscire a creare dei percorsi culturali all'interno dei propri scaffali, e la Libreria Trame ci riesce. In uno spazio di soli 50 mq, questa libreria riesce a esporre più di 6.000 titoli. Difficilmente troverete pile da venti copie sul tavolo all'entrata, e ogni libro in vendita è stato scelto con criterio tra le migliaia di pubblicazioni che affollano ogni anno il mercato editoriale.

Ma il vero punto di forza della Libreria Trame è il rapporto diretto coi clienti. Con il passare degli anni, le libraie hanno imparato a conoscere i propri clienti abituali, i loro gusti e le loro particolarità. Tra tutte le librerie di Bologna, la Libreria Trame è senza dubbio una delle nostre preferite.

 

Inaugurata a ottobre del 2010, Golconda, Via Nosadella 23/a, è la più recente tra le librerie di cui parleremo oggi. Giacomo Totani, il libraio, è un ragazzo aquilano che si è trasferito a Bologna una volta finiti gli studi. Gestisce Golconda da solo e bisogna ammettere che ha avuto delle belle idee.

Golconda vende libri di ogni tipo e graphic novel. Invece di puntare sui titoli più venduti del momento, Giacomo preferisce tenere quei volumi che le librerie più grosse non tengono o hanno difficoltà a procurare. Ma la cosa più interessante di Golconda riguarda le iniziative: è partner di "Gran Spolvero", un programma radiofonico che va in onda ogni mercoledì su Radio Città del Capo, organizza reading e presentazioni, e ha ospitato un workshop di fumetti per bambini. Basta recensire uno dei libri acquistati per avere uno sconto sui prossimi acquisti, e se siete forti lettori e avete in programma di sposarvi, perché non fare la lista di nozze da Golconda?

 

Una delle gemme nascoste tra i portici bolognesi è Ibis, Via Castiglione 31/a. Nata nel 1983 da un gruppo di studiosi di esoterismo, lo scopo di Ibis è quello di diffondere in maniera corretta e non settaria i principali aspetti dell'Esoterismo orientale e occidentale. Questo e la scelta di titoli di qualità sono i punti di forza di Ibis.

La libreria si affaccia su via Castiglione attraverso una piccola vetrina ricca di libri, e per entrare si passa da una porta a lato della libreria. Sui suoi scaffali si possono trovare libri su qualunque argomento inerente l'esoterismo, dall'alchimia alle medicine non convenzionali, dal buddhismo allo yoga alle filosofie orientali e occidentali. Ibis sponsorizza attraverso il suo sito diversi eventi e permette l'acquisto di molti titoli del suo catalogo. Tra le tante librerie specializzate di Bologna, Ibis è una delle poche a essere davvero insostituibile.

 

Modo Infoshop, Via Mascarella 24/b, ha intrapreso un percorso leggermente differente rispetto alle altre librerie di questa puntata di "Indie per cui". Nasce in un centro sociale di Bologna, il Link, dove vende dischi e libri portati dagli artisti che si esibiscono. Nel 2003 trova la sede attuale e comincia a contattare i piccoli editori.

È una delle librerie indipendenti più grandi di Bologna. Per Fabio e Giuseppe, i librai, il modo migliore che una libreria ha per sopravvivere agli sconti delle catene è quello di ibridarsi: vendita di libri, quindi, ma anche di dischi, fumetti e DVD; ma Modo Infoshop si è trasformata da semplice libreria a qualcosa di più quando ha preso la gestione del bar affianco, creando di fatto un luogo di incontro nel quartiere universitario.

 

E un articolo sulle librerie indipendenti di Bologna non può dimenticarsi della Libreria Nanni, Via de' Musei 8, un'icona per i bolognesi. Con i suoi 186 anni, Nanni è la libreria più antica di Bologna. Situata sotto il cosiddetto "Portico della Morte", questa libreria incanta: davanti all'enorme vetrina, sotto al portico, sono installate delle bancarelle che ricordano le bouquinistes parigine, mentre le grandi vetrine lasciano intravedere la mole di libri esposta all'interno.

Nanni vende volumi rari, spesso introvabili. Appena si varca la soglia ci si ritrova davanti a una parete fitta di libri e a un bancone con altri libri ancora; a destra e a sinistra, sempre libri. Alcuni sono tomi rilegati in pelle e passati per le mani di chissà quante generazioni, altri sono libri più recenti, appena usciti. Molti dei libri in catalogo possono essere acquistati direttamente dal sito della libreria.

 

Bologna ha molte altre librerie più o meno storiche che meritano di essere raccontate; queste erano solo le prime cinque. E se avete una libreria che vi sta a cuore, segnalatecela!(da Jacopo Donati)

 

 

 
 
 

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