Creato da: rivedelfiume il 26/06/2006
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Post n°35 pubblicato il 25 Novembre 2006 da rivedelfiume

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Nomen omen”: e come il celebre dirigibile da cui hanno preso il nome, gli Zeppelin sfidano le leggi di gravità, viaggiando grazie ai gas infiammabili che li sostengono; sono loro, e non altri, gli indiscussi campioni del mondo dei complessi rock, categoria pesi massimi.
Quando nel 1968 Jimmy Page torna dalla Scandinavia con i suoi New Yardbirds non ha ancora un’idea precisa delle grandi possibilità di quel complesso. Come ultimo chitarrista dei vecchi Yardbirds, Page eredita lo scettro di quegli «sperimentatori del beat», dopo il concerto d’addio a luglio; Jimmy conta sul cantante-chitarrista Terry Reid e sul batterista Paul Francis per sostituire Keith Relf e Jim McCarthy, due dei membri originali del complesso. Reid ha però firmato un contratto come solista con il produttore Mickie Most ed è cotrettoa rinunciare; al suo posto, suggerisce di ingaggiare un giovane cantante di nome Robert Plant.
«Andai a vederlo» ricorda Jimmy «ed a quei tempi stava in un complesso chiamato Obbstweedle, che suonava nel college di un istituto magistrale appena fuori Birmingham. Ci saranno state una dozzina di persone in sala... una di quelle serate fra studenti dove si pensa innanzitutto a bere, e poi magari anche alla musica».
Page rimane indifferente di fronte allo stile «californiano» del complesso « ma Robert era fantastico, lo ascoltai quella sera e sentii poi un nastro di prova che mi diede e capii che senza dubbio aveva una voce fuori del comune, assolutamente originale. »
Plant, con la sua voce capace di coprire più di un’ottava e l’atteggiamento vocale estremamente libero che gli faceva spesso smarrire le parole per bizzarre improvvisazioni, è stato il personaggio adatto per librarsi in aerei voli in tandem con la chitarra di Page. Robert raccomanda inoltre un vecchio compagno di avventura, John “Bonzo” Bonham, e quando Chris Dreja smolla tutto per intraprendere la carriera di fotografo, al basso viene incluso John Paul Jones, un musicista di studio che Jimmy ha conosciuto a New York, noto per aver arrangiato, fra le altre cose, la celebre “Mellow Yellow” di Donovan. Abbandonato il nome di New Yardbirds («sarebbe stato come lavorare con false pretese»), diventano Led Zeppelin, sfruttando un’idea di Keith Moon.
In una piccola sala londinese, vera e propria base per le loro registrazioni, gli Zeppelin compongono il mosaico della propria musica. «Il primo disco è il risultato delle prime due settimane insieme. Fra di noi, scrivemmo sette pezzi e impiegammo soltanto trenta ore a inciderli. Penso che ciò sia dipeso dal fatto che avevamo tutti la massima fiducia in noi stessi ed eravamo realmente preparati; fatto sta che in studio non ci furono intoppi. Registrammo le canzoni cercando di attenerci il più possibile alla versione dei concerti dal vivo».
Nelle esibizioni in pubblico, gli Zeppelin s’impongono ben presto come grandi signori della scena, padroni di «trucchi» spettacolari. La loro musica varca l’Oceano con fragore di chitarre e tormenti vocali: alla radice dello stile c'è il blues, senza dubbio, le canzoni di Willie Dixon ("You Shook Me", "I Can’t Quit You Baby"), ricche di metafore sessuali e di giochi elettronici, strette fra la quiete di "Black Mountain Side" e le accelerazioni anfetaminiche di "Communication Breakdowvn". Page, frustrato nei suoi tentativi di dare un’impronta personale agli Yardbirds, si prende una bella rivincita, dando dimostrazione di una maestria strumentale che costringe immediatamente a rivedere la gerarchia dei chitarristi pop, a danno degli « intoccabili» Clapton, Hendrix e Beck. Già qualcuno si lancia sulle tracce degli Zeppelin, ma il vuoto creato dall’abbandono dei Cream richiede soluzioni grandiose. I Led Zeppelin sanno imporsi e, mentre declina l’effimera moda dei supergruppi (es. i Blind Faith), riescono a dimostrare di poter essere non solo i più grandi, ma anche i migliori. Non mancano i problemi, però. «Ci capitava questo,» ricorda Page, «che il pubblico era completamente dalla nostra parte mentre i giornalisti che ci stimavano si potevano contare sulle dita di una mano».
Non è proprio così, ma è certamente vero che, con l’arrivo delle «teste di ponte» del grande esercito del metallic rock (Deep Purple, Humble Pie, Black Sabbath, Grand Funk Railroad), agli Zeppelin, vittime del rapidissimo successo e della fenomenale potenza sonora, si domandano impietosamente continue verifiche.
Molte critiche, viste col senno di poi, erano peraltro infondate; pur se profeti del «nuovo rumore», gli Zeppelin s’impegnano coscienziosamente in tutti i brani. Questo emerge chiaramente quando Plant comincia a scrivere i testi, affascinato soprattutto dal misticismo e dalla civiltà celtica; la nuova tendenza affiora in "Led Zeppelin III", concepito in un «piccolo, derelitto cottage della South Snowdonia», Bron-Y-Aur, ameno luogo d’impiccati e briganti.
Dalla fine deI 1971, la critica comincia a rivedere le proprie posizioni. Se gli Zeppelin fossero davvero il complesso di sprovveduti di cui si parla, ci si dovrebbe attendere una affrettata serie di dischi e concerti, per sfruttare la formula di successo sino alla saturazione. Invece, non accade nulla di tutto ciò e anzi gli Zeppelin s’impegnano puntigliosamente, una volta tornati al lavoro, per sfuggire all’attenzione del grosso pubblico. «Possiamo fare l’esempio di un autore» spiega Plant in un’intervista  «che scrive un libro di successo... Nessuno pensa di costringerlo a pubblicarne subito un altro perché così facendo diventerebbe schiavo di una situazione perversa... Lo si ripresenterà al pubblico quando sarà pronto, invece. Lo stesso vale per noi».
L’attesa del complesso viene ricompensata con il quarto album.
Se il secondo e il terzo album hanno avuto una gestazione difficile, il quarto batte ogni record. D’altronde, era nell’aria: gli Zeppelin cercano accanitamente il capolavoro, il loro "disco perfetto", e in quella spasmodica ricerca finiscono, ovviamente, per complicarsi la vita.

Ma lo trovano.

L’idea di caratterizzare il prodotto fuori dagli standard porta il gruppo a ideare la celebre copertina, priva di qualsiasi indicazione: invece delle classiche foto di gruppo, o di simboli forti come il Dirigibile dell’esordio, gli Zeppelin scelgono la vecchia foto di un contadino con una fascina di legna sulle spalle; sul retro la squallida istantanea di un suburbio metropolitano, metaforico contrasto fra "il circolo virtuoso della Natura" dei tempi andati e lo scempio distruttivo del presente.
Il nome "Led Zeppelin" non compare nemmeno all’interno della confezione, dove campeggia una riproduzione dell’Eremita dei Tarocchi; e sulla copertina interna, oltre la lista dei brani, la "firma" del complesso è rappresentata da quattro simboli misteriosi, a distinguere uno per uno i componenti. Qualcuno credette di leggere nella sequenza la parola "Zoso": quel termine, ancora oggi, è quello con cui i fans più incalliti chiamano il disco, che per la maggioranza invece è LED ZEPPELIN IV, secondo il sistema usato per distinguere i precedenti.
Per i discografici, il progetto significa un anno sulla graticola. L’idea che il nome del complesso non venga strillato né in copertina né sul dorso sembra un "suicidio commerciale"; uno choc superiore anche al celebre caso del “White Album” dei Beatles.
La storia li avrebbe smentiti.
Quell’album fuori da ogni regola non solo è una pietra miliare nella discografia rock, ma ha venduto quasi venti milioni di copie.
LED ZEPPELIN IV riprende e perfeziona il modello del disco precedente: rock incandescente, alternato a melodiche ballate di ampio respiro, dove emergono lo spirito folk della banda e il gusto di Page e Plant per una certa tradizione magico-esoterica.
La canzone "killer" dell’album è  "Stairway To Heaven", senza alcun dubbio: l’inizio cadenzato, con toni quasi da madrigale, un flauto da ballata medioevale, il cambio di passo imposto dall’ingresso della batteria e il finale con uno dei più visionari assoli di Page, su un tappeto srotolato dall’incontenibile "Bonzo". L’idea originaria di Page (una semplice progressione di chitarra) era stata sviluppata dai quattro, e Plant alla fine trova i giusti versi, ispirandosi ad un libro, "Magic Arts In Celtic Britain", di Lewis Spence. Il dolce arpeggio iniziale, così semplice eppure così magico, come proveniente dalle più nere e remote foreste dell'anima, ha la capacità di incantare chi lo ascolta, sia la prima o la millesima volta. Plant, tra il cantato e il recitato, svolge un'ermetica filastrocca che parla di misteriose signore, di pifferai incantati, di mutazioni alchemiche. Il gioco continua, anche quando entra prepotentemente la dodici corde di Page (destinata a diventare un autentico oggetto di culto durante i concerti della band o negli ascolti di chi ci ha speso dei pomeriggi di ascolto...) e successivamente la batteria di Bonham; finalmente si giunge all'ultimo movimento del brano, in cui Page, come disse un critico dell'epoca, "si permette di parlare e darsi del tu con Dio", e Plant, abbandonati i toni madrigalistici, diventa il furioso cerimoniere destinato a celebrare un sabba orgiastico in cui le chitarre sembrano mille voci supplicanti, la batteria il tuono scagliato da una divinità impietosa.
Gli Zeppelin la inseriscono da subito nella scaletta dei loro spettacoli, splendida occasione virtuosistica per Jimmy Page e la sua Gibson SG doppio manico; a partire dal 1975, il brano diventa il gran finale dello show. D’altro canto però, coerenti con le opinioni espresse fin dal primo album, i quattro rifiutano di pubblicare il pezzo su 45 giri, e questo nonostante le pressioni dei discografici. Ciò non ha impedito alla canzone di diventare nel tempo l’inno più amato e conosciuto della band. L’ombra lunga di "Stairway To Heaven" non toglie spazio alle altre grandi ballate del quarto disco.
"The Battle Of Evermore", esaltata dal suono del mandolino e dalla (splendida) voce di Sandy Denny, la cantante dei Fairport Convention ospite d’onore, ha un sapore folk che rimane dentro. Il testo si ispira a un libro sulle antiche guerre dei clan scozzesi, felice variazione ai temi storici e guerreschi cari agli Zeppelin di quel periodo. Di tutt’altro tenore "Going To California",  quasi un’appendice al terzo album. Suoni e colori in stile West Coast, una dama "con l’amore negli occhi e fiori tra i capelli", in cui qualcuno ha voluto riconoscere Joni Mitchell, oggetto di una infatuazione di Plant, che in un'intervista dell'epoca proclama album dell'anno "Ladies Of The Canyon".
Sul fronte dei pezzi più aspri e duri, nell'album i grandi classici sono "Black Dog" e "Rock & Roll": la prima è un rock saettante che arriva alla semplicità per vie tortuose (un arrangiamento complesso, quattro chitarre sovraincise nell’assolo); la seconda, come dice il titolo, è una compressa di storia musicale, vent’anni condensati in tre minuti e quaranta. Gli Zeppelin amano suonare in libertà con gli amici e così, da una jam notturna con Ian "Stu" Stewart (il "sesto"  degli Stones), nasce il brano. John Bonham imita Little Richard, John Paul Jones cita un vecchio disco di Muddy Waters in cui gli "piaceva il suono di quella chitarra accompagnata da un basso rotolante".Fra tanti pezzi forti, "Misty Mountain Hop" e "Four Sticks" rischiano di scomparire, sospesi come sono a metà tra rabbia e lirismo.
"Misty" sembra una coda del terzo album, con la sua aria felicemente informale, permeata da pianoforte elettrico e cori ubriachi; più sottile e complicata "Four Sticks", che prende il titolo dalle quattro bacchette impiegate da Bonham per venire a capo del pezzo. 
L' album si chiude sulle note di "When The Levee Breaks", uno dei tanti tributi al blues classico. Il pezzo, composto da Memphis Minnie ai tempi della Grande Depressione, diventa l'occasione per scatenarsi in originali variazioni sul tema, con una poderosa figura batteristica di Bonham che apre la strada ai ricami bottleneck di Page e alle linee d’armonica di Plant. "Volevamo certe incisioni di Elvis giovane" ha confessato Robert Plant, mentre in un’altra intervista John Paul Jones ha svelato il "trucco" capace di caratterizzare il brano: "Eravamo a Headley Grange e ci divertivamo a provare tutte le cose bislacche che in studio non puoi fare: tipo mettere gli amplificatori nei posti più strani. A un certo punto spostammo la batteria di ‘Bonzo’ nel grande ingresso della casa, vicino ad una scala che dava ai piani alti e provammo a mettere un piccolo microfono al primo piano e un altro più in là, al secondo. L’effetto fu straordinario. Andy Johns passò poi quei suoni in un compressore e aggiunse un effetto eco. Ancora una volta la nostra curiosità aveva dato i suoi frutti !"
Ed è con brani come questo che si puo' supportare l'idea che i Led siano stati la più potente sezione ritmica della storia del rock: ascoltare per credere. Oltre che una potenza di fuoco dal vivo: come disse Page in un'intervista «vedere un mare di gente e capire che son venuti per te è una cosa che stupisce e mette anche un po’ di paura. Ma in fondo credo che una delle ragioni per cui la gente continua a seguirci e sempre ci ha seguito è perché noi cerchiamo di sforzarci sempre di più. Non ci siamo mai tirati indietro, non abbiamo mai lesinato il nostro impegno, abbiamo sempre sputato sangue. Che poi la musica ti piaccia o no, è un altro discorso. Quando hai fatto tutto quello che ti è possibile, allora sei contento di quello che vien fuori e riesci a evitare ogni compromesso».
Al punto che nella trionfale tournèe americana del 1973, quella passata alla cronaca nera per il furto di 180mila dollari (di allora...) in albergo, Page non si è fermato nemmeno di fronte alla frattura di un dito della mano sinistra. Ha immediatamente cambiato sistema d’accordatura, usando tre dita anziché quattro, e ha tirato avanti così, senza batter ciglio.

 
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Post N° 34

Post n°34 pubblicato il 18 Novembre 2006 da rivedelfiume

Una città senza Donne

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Al sabato “Repubblica”, da diversi anni, impone un supplemento, “D – La Repubblica delle donne”, che per quanto mi riguarda è una antologia di foto pubblicitarie interrotte casualmente dalla presenza di rubriche degli apprezzatissimi Zucconi, De Gregorio, Coyaud, Galimberti, qualche reportage che anni fa sarebbe finito sul “Venerdi”, e poco altro.
Ovviamente, il clou, sottilmente celato, sono le rubriche di moda.
Ieri, mentre aspettavo pazientemente di essere sdoganato nell’ambulatorio della mia medico, mi è capitato tra le mani un vecchio numero, ed ho voluto un po’ divertirmi a capire “che donna ci aspetta per l’autunno inverno”.
Appurato che il sottoscritto è coniugato con una donna normale, mi vedro’ drammaticamente esiliato dalla Donna della Repubblica delle Donne.
Una D-donna che “per ottenere un nuovo look, per respirare il feeling on the air, non sbaglierà ad abbandonare lo stile casual per recuperare capi eleganti, via il bomber e su la longuette”.
Imparo con dovizia che “la donna metropolitana al lunch indosserà un maxidécolleté con top di paillettes da sera, di strass la blouse sul total nero, a sexissime squame il tubetto attillato, rosa pink e ultrashocking la camicia di raso lavorata gauffré”.
E poi “nell’ottobre romano (..) protagonista il blazer, l’intramontabile blazer che nelle ore del giorno si incontra in panno blu navy o verde army o in lana tweed effetto hand-made. E sotto il blazer, bermuda corti e boxer, ombelico ovviamente in vista”.
Apprendo con rammarico che sono out “i pull, tutti i tipi di pull, sia ben chiaro” (dopo la follia che ho speso l’anno scorso per il suo compleanno, acc…).
Segue lunga teoria di fotografie in bianco e nero di una ragazza che probabilmente sarebbe disposta a concedere persino favori sessuali per un buon panino, imbottito con speck e formaggio, da cui è evidente la lunga astinenza, magari con un buon rosso corposo a combatterne l’esanguità.
In contrasto, ogni dieci pagine, la foto di una modella salita alla ribalta per una questione di droga: alla notizia, Giovanardi, le mani giunte, si è rivolto alla Immacolata Concezione, e Fini si è persino scomposto la scriminatura nel capello virilmente ben curato.
Intanto, lo stilista riconosciuto come un guru, tra una piastrella ed un profumo, pontifica che “lo spolverino è extralong in cashmere nero, l’overjacket di suède con ampi revers e, why not?, il mariner di città in panno waterproof, la giacca con i taschini a patches per un look country, sui cavalry pants.” Alle lettrici propone un “meeting nel nuovo showroom per applaudire la collezione di pantaloni in chevron contrastato, i volanti e le rouches per la mezza sera,  e il regimental touch nella ragazza non necessariamente androgina, anzi, morbida nelle forme italian style.” Ovviamente è un alfiere “del buon nome dell’ Italia nel mondo”.

Ma non finisce qui il linguaggio della moda.

Ed il mio drammatico sentirmi out. Un servo della gleba nella Repubblica delle Donne.
Altri articoli ci convincono  -foto pubblicitarie confermano- che esiste un abbigliamento elegante “intercambiabile uomo-donna”, con modelli/e che sollevano dubbi su una loro esatta classificazione; scopro che l’underwear può essere “mozzafiato”, le lunghezze “coprenti”, il cappello “donante”, (si poserà infatti su una “testa postmoderna”), i gioielli “big”, il car-coat è “sceso a livello della jeanseria”, il sedere sarà “enfatizzante” ma “con spirito erotico”, il crew-neck è “d’ordinanza” ma solo se ha profili blu, il turtle-neck “rampante”, i bijoux “corsari o dissacranti”, mentre ritornano “l’astratto gioco di pattern geometrici anni Sessanta” oppure, poche pagine dopo “la ludica liberata follia anni Settanta”.

Ma “nu’gins e na’maglietta”, proprio no?

In attesa di vedere se anche la dottoressa (nel senso del medico) indosserà una “maglia artistica e trasgressiva con disegni optical”, mi chiedo come mai nell’immaginario collettivo i camici bianchi siano legati all’idea di una donna che il giornale definirebbe “non più solo sexy, ma sexissima”.
Ah, non ci fossero quegli orribili camici quasi sempre “oversize”…..

 
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Sabato pomeriggio

Post n°33 pubblicato il 13 Novembre 2006 da rivedelfiume

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“I musicanti accordano il violino…”

La testina appoggiata dolcemente sui solchi, il pensiero stupido che prima o poi devo insegnarlo ai miei figli, troppo abituati a poggiare un disco argentato su una lingua vorace.
Friggi friggi, mentre la puntina scivola sui solchi, ogni tanto un ciocco, una castagna scoppiata nel pomeriggio immobile, dentro casa una bella luce, sole traditore del freddo , chè fuori è proprio freddo. Dopo la nebbia del mattino che, oltre ai soliti tamponamenti a catena in menti più annebbiate del giorno stesso, lascia quel filo di aria umida che si impasta con il suono polveroso del vinile.

“…stasera suoneranno sulla luna…”

La finestra spalancata lascia entrare l’odore della terra, un antico De Gregori fruscia dolcemente sul piatto. Sul tavolo, fogli scarabocchiati da passare in una forma leggibile, una tazza di tea darjeeling, quei biscottini a forma di ciambelline che sono arrivati trionfalmente sulla scia di un cartello 3x2 e del sorriso della banconista quando, ingenuo, le chiesi se le tre confezioni potessi sceglierle anche assortite.
“Cioè…Diverse?”
“Si, assortite”
“Si, diverse”
E vabbè.
Sorrido.
Sorride.
Quel sorriso…..boh…
La luce cambia taglio, adesso. Apro un po’ la portafinestra, incurante del fresco, del leggero ed insolito vento che si insinua, a disperdere il fumo della ennesima Winston blue, blue come il fiume in cui faro’ navigare questa barchetta di carta.
Vibrano anche i fogli: potessi, alzerei il volume del Marantz. Ciambellina bagnata nel tea, anima intrisa della voglia di scrivere qualcosa di diverso da quella lingua così distante dalla mia, quella dei documenti ufficiali.

“…e non importa niente se le gente del caffè non capirà la loro anima…”

Piano piano l’ho sentita arrivare, la nostalgia.Battere prima discretamente, poi con insistenza.
Un novembre di ventisette anni fa, quando il telefono era ancora un disco in cui infilare il dito in uno dei dieci buchi, aspettare che la rotella finisse il giro.
Era una mattina: quei buffi gettoni che pesavano nelle tasche ed erano leggerissimi a volare via per tramutarsi in nuvole di parole. Fino a non saper dire l’unica che avrei dovuto dire, e ascoltare l’unica che non avrei mai voluto sentire.
Che la musica tenga alto il nostro spirito, riscaldato, adesso, da una tazza di tea e tre biscotti, mentre fuori fa freddo e la ragazza dell’iper mi ha lasciato addosso il suo sorriso più ingenuo.
Ah, si ecco chi mi ricordava, un po’.
Già.
Ma tanto, lo dice anche De Gregori che “…i musicanti non piangono mai”.

 
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Tabloid

Post n°32 pubblicato il 10 Novembre 2006 da rivedelfiume

“E' incredibile come, ogni giorno, le notizie accadano sempre esattamente per quanto basta a riempire un quotidiano.”
(Panfilo Maria Lippi, "TABLOID TABLOID"  ©"Mai Dire Gol)


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Non nascondo la mia ammirazione per Daniele Luttazzi, personaggio controverso, vittima dell' editto bulgaro, nonchè vincitore di ben due cause intentategli dalla potenza di fuoco di un imprenditore massone che si è salvato dal fallimento solo buttandosi in politica.
Anni fa, profeticamente, si era inventato, per la trasmissione "Mai dire goal", questa bizzarra figura di telegiornalista, Panfilo Maria Lippi.
A rileggerle oggi, certe battute, forse si ride di meno e ci si preoccupa di più per non aver saputo raccogliere i segnali.
O forse per nostalgia di una certa comicità intelligente?

Sondaggio: il 58% degli italiani non crede alla reincarnazione. Il 42% invece ha come l'impressione che questa domanda gliel'abbiano gia' fatta.


Ciclismo: Allarme doping nel ciclismo. Molti ciclisti adoperano sostanze proibite. Li riconosci perche' toccano i 100 Km/h. In salita.


New York: Il "New England Journal of Medicine'' rivela che la marijuana e' utilissima in alcune terapie, ad esempio per alleviare il dolore dei malati di cancro.  Santo cielo!  I miei compagni al liceo erano in fin di vita, e io non lo sapevo!


Emilio Fede: Cosa si puo' dire di Emilio Fede che gia' non sia stato detto della lebbra?
Comunque, facci caso: prima appare Emilio Fede, poi arrivano le cattive notizie.
Emilio Fede non e' un giornalista: e' un presagio.


Emilio Fede, un giornalista sensibile alle cause umanitarie. "Quando moriro', donero' i miei organi a Mediaset".
Non tutti, però: uno glielo ha già venduto.

Uscito in tutta Italia "Crash", il nuovo film di David Cronenberg: la storia di un uomo e di una donna alla ricerca di stimoli estremi per il proprio piacere sessuale, che arrivano a commettere atti impuri davanti ad una foto nuda di Enzo Biagi.  E senza vomitare! Io l'ho visto.  E posso dire che e' un film depravato, osceno,repellente, perverso, malsano, insostenibile, disgustoso e che ricava sentimenti morbosi dalle immagini squallide e disumane di scene crude che sovrabbondano di pornografia e violenza.
Mi e' piaciuto.

Madonna ha avuto una figlia.  L'ha chiamata Maria Lourdes. La placenta era firmata Dolce & Gabbana.


Il mercato della droga e' sempre piu' sofisticato.  L'altro giorno sono stato avvicinato da uno spacciatore, che mi ha teso una mano e mi ha detto: "Prendi: e' cocaina".  "Ma e' verde!".  "E' cocaina al pesto!".


Raptus: La Cassazione ha assolto un muratore di Palermo che in un raptus di gelosia aveva preso a sberle la moglie.  Un precedente gravissimo e preoccupante.  D'ora in poi, per picchiare una donna, bisognera' pure sposarla!


Darwin: Il Papa ha ammesso la validita' delle teorie evoluzionistiche di Darwin.  Anche Cristo deriva dalla scimmia, quindi.  Permangono invece le forti riserve all'idea che la Terra non sia piatta.

Olanda: Una ricerca compiuta su 10 milioni di olandesi rivela che chi e' single e' stressato, depresso, mangia male, beve troppo e fuma troppo.
E questi sono anche i motivi per cui e' single.

 
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Post n°31 pubblicato il 02 Novembre 2006 da rivedelfiume

Un dubbio: e se noi non fossimo null'altro che burattini delle nostre emozioni?

 
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