Napoli

Ricordo nitidamente, quando da bambino, complice il solito paio di scarpe da riparare, mi recavo all'angolo fra Via Nazionale e Via Ferrara dove, al posto dell'attuale edicola, vi era un locale all'interno del quale cinque persone lavoravano alacremente, riparando, ricucendo, risuolando, incollando centinaia di calzature di tutti i tipi. Questi erano letteralmente immersi in un mare di scarpe, di tutte le fogge, di tutti i colori, di tutte le forme: si andava dalla semplice scarpina per donna con tacco a spillo al mocassino da uomo, dallo stivale allo scarpone passando per la pantofola da camera.

Il classico solachianiello

L'odore di colla quando eri alla porta era talmente intenso che ne entravi subito in confidenza. Inutile dire che i lavoratori non adoperavano nessun tipo di precauzione all'epoca. Questo, non era da interpretarsi come una mancanza del datore di lavoro nei confronti dei suoi dipendenti: semplicemente, le precauzioni non esistevano, in quanto non si era a conoscenza dei danni che una attività troppo "disinvolta" a diretto contatto con materiali e sostanze aggressive, avrebbe potuto causare.

Eppure, a me piaceva. L'odore di quella colla era come quello della benzina: tutti sappiamo che fa male ma ci piace annusarla! Mi fermavo spesso a guardare quelle persone intente nella loro attività. Molti dei loro attrezzi li conoscevo già perché a casa, mio padre, fra la miriade di attività manuali che svolgeva, di tanto in tanto si dilettava a riparare le scarpe dei componenti della famiglia e, quando proprio non gli riusciva, le mandava da "don Aniello", il ciabattino di cui serbo questo fervido ricordo.

Una bottega di ciabattino

Mi colpiva la situazione di uguaglianza anzi, di egualitarismo, presente in quella bottega artigianale: tutti gli operai avevano il loro posto di lavoro, ogni posto uguale all'altro, con un banchetto, gli utensili più disparati, il vasetto della colla, le varie "cromatine", gli strofinacci per la lucidatura, le puntine di varie misure, i ritagli di cuoio, i tacchi già forgiati di tutte le risme, di tutti i tipi che andavano solo incollati o inchiodati per poi essere limati ai bordi. Il nero e il grigio erano i colori preminenti in tutto l'ambiente ma, nei mucchi di scarpe, facendo attenzione, scorgevi la tinta fantasia di qualche stoffa estiva, il marrone chiaro di qualche mocassino ancora utilizzabile, il rosso sfrontato di qualche scarpino da donna dal sinuoso tacco a spillo.

Ma l'egualitarismo di cui parlavo prima, non si riferiva solo ai lavoratori ma anche al datore di lavoro, don Aniello che, come i suoi dipendenti, si era ritagliato il suo spazio nel vano della bottega fra uno scaffale e l'altro dove il suo banchetto andava ad incastrarsi, uguale agli altri, con gli stessi utensili, gli stessi materiali da lavoro, la stessa forma.

Un antico solachianiello napoletano

Ricordo il consiglio che diede a mio padre per cercare di evitare di consumare i tacchi in maniera non unifome. Un giorno, infatti, mio padre, fra il serio e il faceto gli fece notare che appena qualche mese prima aveva cambiato i tacchi alle sue scarpe ma si ritrovava nelle stesse condizioni; al che, don Aniello gli rispose: - Don Carmine, vuie ita cammena' nu poco cchiu' dritto. Chell'ata vota, mentre ve ne iveve, ve tenevo mente e ve guardavo: vuie cammenate c''o pere a gghi' dinto e 'o tacco se cunsuma cchiu' assaje 'e lato -. A questo punto mio padre obiettò leggermente contrariato: - Ma comme? Je vott''e piede a gghi' dinto? E che tengo 'e piede stuorte onn'Anie'? - . E andarono avanti per altri dieci minuti buoni a discutere sul modo di camminare di mio padre che, da quel giorno, ogni volta che cominciava a camminare per strada, si guardava i piedi. Devo dire che don Aniello, un pochino aveva ragione.

Un ciabattino (non napoletano) all'opera

Con me, invece, usava un'altra tattica, quella dell'affermazione tout-court. Succedeva che io gli portavo le scarpe da riparare e lui, semplicemente osservando il tipo di danno arrecato alla calzatura mi sapeva dire cosa fosse successo. Un giorno, gli diedi le mie scarpe e lui, senza filtro, mi disse: - Guaglio', tu l'ja ferni' e juca' 'o pallone mmiz''a via, pecché 'a vi' chesta? Nun è cchiù 'na scarpa, 'nce sta nu cuofano 'e fatica vicino e vene a fa' nu sacco 'e sorde. E a pateto chi 'o sente?

La domenica, quando la bottega era chiusa, durante la mattinata, lui era lì con la saracinesca alzata a metà, seduto sul gradino dell'ingresso in attesa di un'altra tipologia di clienti: quelli che, il dì di festa, amavano le scarpe pulite e lucide. Infatti, don Aniello, tirava fuori dal suo negozio una specie di trono, con tanto di tenda parasole. Ti sedevi, e davanti a te avevi la possibilità di poggiare comodamente i piedi su due appositi rialzi. Lui, seduto su uno sgabellino, armato delle più svariate creme, lucidi e panni, ti lustrava le scarpe facendotele apparire come nuove nel giro di setto-otto minuti al massimo. Ovviamente, il cliente, nel mentre, veniva dotato di vari intrattenimenti, dal giornale al caffè caldo del bar di fronte, alla semplice chiacchierata. Era un momento dolce, in cui anche il meno abbiente degli uomini, seduto lassù diventava per dieci minuti un re. Tutto il servizio per pochi spiccioli.

Uomini come don Aniello, anche nella semplicità di una attività ormai quasi completamente scomparsa, erano capaci di regalarti delle emozioni, perché concedevano quello che oggi è sempre più difficile che qualcuno conceda: se stesso. Lo faceva con la giusta attenzione, con la simpatia, la solarità, la buona educazione ed un sorriso che rendeva più digeribile anche il momento in cui dovevi pagarlo. Sembrerà strano, era solo un ciabattino, un classico solachianiello, ma noi gli volevamo bene.