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PRENDI TRE E NON PAGHI NULLA!

Post n°199 pubblicato il 10 Giugno 2007 da DolceA0
 

ZODIAC - tratto dai romanzi Zodiac e Zodiac Unmasked: The Identity of America's Most Elusive Serial Killer Revealed di Robert Graysmith,  il film è diretto da David Fincher, autore che deve aver una particolare attrazione per certe perversioni degli esseri umani quando hanno a che fare con il sangue altrui (è il regista di Seven e Fight Club).

Il film girato in digitale, anche se non sembra, ricorda molto da vicino i telefilm in onda su Fox Crime e per il tipo di risultato visivo potrebbe essere assimilato a Traffic di Steven Soderbergh del 2000, anche se lì l’operazione era pensata esattamente al contrario (ovvero girare in pellicola con l’esito del digitale).

Zodiac  considerata la sua non breve durata (156 minuti), soffre di una disomogeneità nei tempi della narrazione. Si divide in due parti nettamente diverse: l’azione del serial killer nei confronti delle vittime, con la conseguente caccia all’assassino, e quella della fascinazione subita dal protagonista che lo conduce a diventare un serial killer di se stesso e dei suoi affetti. Metamorfosi che ho trovato non approfondita sul piano narrativo e psicologico.

David Fincher, si muove con eleganza  e abilità all’interno delle immagini,  corroborato  sia dall’ottima fotografia di Harris Savides che dipinge sui corpi e sugli ambienti i lividi delle frustrazioni di ogni personaggio, sia da un cast di tutto rispetto (Jake Gyllenhaal, Robert Downey Jr. e Mark Ruffalo).

Aleggia il riferimento a un vecchio film del 1932: La pericolosa partita di Ernest Schoedsack e in tutto il film il mito di Callaghan e del suo caso Scorpio.

Voto 6 e mezzo

 

WHITE STRIPES – Conosciuti dai più qui in Italia per il motivetto da stadio Po-popoppo-popopo (dal riff di chitarra della canzone Seven Nation Army) il duo di ex coniugi ora sedicenti fratelli (non amano i gossip e non ci vogliono far capire che tipo di parentela hanno tra loro e se la hanno) sono arrivati al Tenda a Strisce di Roma la sera del 6 giugno scorso.

Impianto scenografico nullo. Un flusso di luce colore rosso o bianco inondava i due, vestiti, come da tradizione, con i colori rosso bianco e nero. Sullo schermo posto dietro il palco ogni tanto veniva proiettata una via lattea di stelle rosse. Niente altro. Loro due. Lei alla batteria, che picchiava con grazia accompagnando con la testa i movimenti, lui alla chitarra  (e all’occorrenza al piano). Nessun altro. Un continuo duetto tra i due. Lui Jack White, munito di tre diverse chitarre, ogni tanto si avvicinava a lei, Meg White,  immobilizzata dietro la batteria (tranne che per una canzone  quando si è diretta al centro del palco e ha cantato con voce soave) e sembrava implorarla mentre lei lo picchiava  metaforicamente  prendendosela con i piatti e tamburi.

Una rilettura di  folk, blues e garage-rock molto spoglio.  Risultato:  un’ora e mezza di musica carica di energia contaminante  e coinvolgente, priva di ogni ammiccamento seduttivo (non una parola, solo un saluto alla fine). A parlare sono le chitarre elettriche, talvolta distorte (Jimi Hendrix), talatra pulite (Led Zeppelin),  che Jack non abbandona nemmeno quando si mette al piano. 

Da diligente spettatrice, nei giorni precedenti, avevo ascoltato tutta la loro discografia (compresi i pezzi acustici, qui solo sfiorati con un paio di brani)  ed ero piuttosto scettica. In genere il mio gradimento va verso un genere musicale più morbido. Ma vi giuro che dal vivo ho subito la loro immensa carica schiva che mi ha trascinato fino alla termine del concerto. E allora ho preso parte con convinzione alla standing-ovation che alla fine non ha tardato a esplodere.  Bravi, bravi davvero!

P.S.  Nota da cinefile: Micheal Gondry ha diretto almeno quattro loro video


QUATTRO MESI, TRE SETTIMANE E DUE GIORNI – Evviva! Sono riuscita a vedere nella rassegna a Roma sui film passati a Cannes, almeno, per il momento, l’opera che ha vinto la Palma d’oro. E ne sono felicissima. Il film, diretto dal romeno Cristian Mungiu, alla seconda prova, è davvero molto interessante. Semplice il linguaggio, quasi tutto in piano americano, con pochi movimenti di macchina. Semplice il cast, una manciata di bravi attori, ben diretti. Semplice il set, spesso in interni, e con gli esterni, soprattutto quelli notturni, terribilmente inquietanti resi dal direttore della fotografia quasi astratti.

L’opera (il primo film di una serie intitolata "Racconti dell'Età dell'Oro" è dedicata agli anni di Ceausescu)  pregna di violenza manifesta e subdola, ti fa sprofondare in un’angoscia cosmica  e al tempo intimistica. Cosmica perché indaga sull’individuo e sul collettivo di quei tempi e di come il singolo abbia subito il sociale. Intimistica perché lo sguardo si sofferma sul  doloroso percorso femminile, sui dubbi e sulla solitudine delle donne davanti a un problema come quello qui presentato.

Azzardo la mia approvazione rispetto alla scelta della giuria di Cannes, anche se non ho ancora visto gli altri film in concorso. Ma questo piccolo gioiello andava davvero premiato, anche per dimostrare, alle altre/alte cinematografie, che se si hanno idee, se si ha sensibilità, non occorrono budget miliardari per arrivare al cuore e all’anima delle persone.

Voto 8 e mezzo.

 
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