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GOMORRA

Post n°326 pubblicato il 08 Giugno 2008 da DolceA0
 
Tag: Cinema

Amo Matteo Garrone. Sono rimasta estasiata con L'Imbalsamatore,  violentemente turbata dal successivo film Primo Amore. Lo amo perchè credo che sia uno dei pochi registi italiani, se non l'unico, a concentrarsi sulla visione, innanzi tutto. A provocare emozioni con il linguaggio cinematografico piuttosto che  con le ridondanze del materiale diegetico. Il pathos, in ogni sua opera, deriva dalle astrazioni dello strumento filmico e non dalla vicenda narrata. Un grande risultato per chi vuole fare cinema.

Quando ho saputo che stava girando un film dall'omonimo e ormai celeberrimo libro di Roberto Saviano, ho pensato che volesse abbandonare la sua cifra stilistica in favore di una narrazione più didascalica a sfondo sociale.  Ero molto curiosa di incontrare questa pellicola.

Garrone conferma una mano felicissima che dipinge la storia di Saviano come avrebbe potuto fare un esponente del movimento dei macchiaioli: "In particolare Saverio Altamura racconta del "Ton gris", cioè quel particolare modo di ritrarre, guardando attraverso il riflesso di uno specchio scuro che filtra nettamente i contrasti del chiaro scuro. L'arte dei Macchiaioli,  come la definì Adriano Cecioni teorico e critico del movimento, consiste "nel rendere le impressioni che ricevevano dal vero col mezzo di macchie di colori di chiari e di scuri". Per i pittori macchiaioli la forma non esiste ma è creata dalla luce e l'individuo vede tutto il mondo circostante attraverso forme non isolate dal contesto della natura, quindi come macchie di colore distinte o sovrammesse ad altre macchie di colore". 

Con la macchina a mano, come se fosse un pennello - una volta con la punta fine, un'altra come  una spatola - l'operatore, il regista stesso, disegna, con soggettive, con primissimi piani, con soffocanti riprese strette dall'alto, con piani sequenza distesi o sincopati, un mondo non giudicato ma osservato. I personaggi si attaccano, fastidiosamente,  allo spettatore ed emergono  come se immersi in una colata di petrolio, attraverso i bui , gli oscuri, il fango, la melma.  Grazie a questa operazione di descrizione ravvicinata dell'uomo, talvolta sembra di sentire persino l'odore di carne in putrefazione.  Marco Onorato il direttore della fotografia, svolge un ottimo lavoro.  Tira i neri, gonfia gli opachi, sbianca i chiari, con il risultato che niente è brillante e luminoso. Tutto è plumbeo e angosciante, così come la vicenda che viene raccontata.

La fabula si snoda attraverso un affresco corale e segue, senza simmetrie, i vari personaggi nelle loro facilità o difficoltà ad addomesticarsi a questa vita. Non c'è adesione sentimentale, o affezione a una o all'altra storia. Non c'è un Virgilio che conduce da una sponda all'altra di questo Inferno. Questo porta lo spettatore a non identificarsi ma a seguire il film in modo distaccato e critico, come in un réportage, d'autore, di guerra.

Incombenti e reiterate le vele di Scampia, microcosmo rappresentativo di un'identità nazionale. Purtroppo.

Il film vince il Gran Premio della giuria a Cannes. Voto 8

 
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Rispondi al commento:
a111andrea
a111andrea il 08/06/08 alle 12:31 via WEB
Il valore artistico del film è indiscutibile e in considerazione di ciò il tuo voto sembra fin troppo severo.
Ho dei dubbi sul fatto che le vele di Scampia possano rappresentare in qualche modo un'identità nazionale. In Italia esiste una qualsiasi forma d'identità nazionale?
Non concordo neanche sul purtroppo finale, esprime rassegnazione. Ciao, Andrea.
 
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