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Messaggi di Aprile 2020

 

Partigiani sovietici nella Resistenza italiana, ridare vita a una storia dimenticata

Post n°15702 pubblicato il 26 Aprile 2020 da Ladridicinema

Oltre ad aver sconfitto il nazifascismo i sovietici diedero un contributo diretto alla Resistenza italiana.

Sono circa cinque mila i partigiani sovietici che hanno combattuto fianco a fianco con i partigiani italiani, ma delle loro storie e delle loro imprese si conosce ben poco in Italia. Ricordarli oggi, scoprire le loro identità è fondamentale per ridare vita alla memoria e alla verità storica.

In Occidente, Italia compresa, si tende a sminuire il ruolo dell’Unione Sovietica nella vittoria contro la Germania hitleriana e a finire nel dimenticatoio è anche l’impresa dei partigiani sovietici che si sono uniti alla Resistenza italiana. Un capitolo della storia di cui in Italia non si parla.

“Dal recupero dei corpi al recupero della memoria” è il saggio di Anna Roberti, un libro ricostruzione dei nomi e delle storie dei partigiani sovietici caduti in Italia nella lotta al fianco della Resistenza. Ridare un nome e un volto a chi ha combattuto in quegli anni è il modo migliore per trasmettere oggi alle generazioni più giovani l’importanza del ruolo dell’Unione sovietica nella II Guerra mondiale e l’importanza della lotta contro il nazifascismo.

Saggio di Anna Roberti “Dal recupero dei corpi al recupero della memoria”
FORNITA DA ANNA ROBERTI
Saggio di Anna Roberti “Dal recupero dei corpi al recupero della memoria”

Nell’ambito del ciclo dedicato al 75-o anniversario della fine della II Guerra Mondiale Sputnik Italia ha raggiunto per un’intervista Anna Roberti, presidente onorario dell’Associazione RusskijMir, autrice del saggio “Dal recupero dei corpi al recupero della memoria”.

– Anna Roberti, di che cosa parla il suo libro?

– Il messaggio è quello di mantenere viva la memoria dei partigiani sovietici che hanno combattuto in Italia. Di questo argomento se ne sa pochissimo, la maggior parte della gente non ne sa niente. Da 15 anni mi occupo di questo argomento e mi fa sempre piacere parlarne il più possibile in modo che la gente lo sappia. Il libro è la ricostruzione della vita di una novantina di sovietici i cui nomi si trovano al Sacrario della Resistenza al Cimitero Monumentale di Torino. Ho ricostruito la loro storia e la storia di Nicola Grosa, un personaggio di cui si è persa la memoria.

– Chi era Nicola Grosa? Ci parli della sua impresa.

– Era un partigiano italiano che durante la Resistenza aveva già 40 anni e si sentiva un po’ il padre dei giovani partigiani con cui lui combatteva. Nel momento in cui è finita la guerra e tanti di questi giovani erano morti, lui ha deciso di andare in giro per il Piemonte a raccogliere i loro resti, perché tante volte erano stati sepolti sotto una betulla o un castagno. A mani nude ha raccolto circa 900 corpi.Ad un certo punto lui era stato visto come un folle, perché si era messo in testa di raccogliere tutti questi corpi a scopo gratuito. Lui era consigliere comunale a Torino ed era anche presidente dell’ANPI. Il comune di Torino gli dava una macchina e delle cassette, lui partiva e su indicazioni che raccoglieva dai compagni di brigata andava a cercare i resti.

 

Il suo lavoro è particolarmente importante per quanto riguarda i partigiani sovietici perché quando lui ha fatto questo lavoro per tutti gli anni ’50 e ’60, l’ha fatto in maniera molto seria, per cui abbiamo tutti i documenti dei posti dove si è recato. Laddove ci sono dei nomi dei sovietici i cui corpi sono stati raccolti da Grosa siamo sicuri che ci sono anche i loro resti. Dopo la sua morte negli anni ’80 è subentrato il Ministero della Difesa italiano che ha fatto un po’ di casino.

 

– Qual è stato il ruolo dei partigiani sovietici nella Resistenza?

– È stato fondamentale perché sono stati circa 4 mila in tutta Italia. Innanzitutto quando scappavano dai tedeschi scappavano con le armi, poi erano stati addestrati dall’Armata Rossa, quindi erano combattenti che sapevano cosa facevano. Tanti partigiani giovani italiani non se ne intendevano assolutamente. I sovietici sono rimasti fino alla fine con i nostri partigiani, gli altri stranieri invece quando era possibile tornare a casa se ne andavano. Molto preparati, molto coraggiosi, i partigiani sovietici infondevano molto coraggio ai nostri partigiani.

– Il suo libro dà un’identità ai partigiani sovietici in Italia, quale storia vorrebbe citare fra tutte? Che cosa l’ha emozionata di più?

– Sono tante le storie…Diciamo che la cosa più emozionante per me è che partendo da dei nomi segnati in maniera storpiata riesco a risalire all’identità. Unendo tutti i pezzetti, usando documenti russi e italiani, facendo un lavoro certosino sono riuscita a ricostruire la storia di quasi tutti. Alcuni sono ignoti e lì è difficile risalire al nome e alla loro storia.

Ultimamente mi hanno contattato dei nipoti dei partigiani sovietici; sono riusciti a venire in Italia e siamo andati insieme al Sacrario dove ho mostrato loro il posto dove è segnato il nome del nonno. Siamo anche andati in giro per le montagne a Torino dove hanno combattuto. Questa è una cosa che mi fa molto piacere. Si tratta già di 5-6 nipoti.

Vorrei citare il caso dell’unica donna partigiana sovietica il cui nome è indicato a Torino. Si tratta di Tamara Firsova, è morta nelle Marche. Si era sposata con un partigiano italiano ed è morta di setticemia mentre era incinta. Il suo nome era a Torino, ma io ci ho messo tantissimo tempo per capire chi fosse, non risultava che avesse combattuto in Piemonte. Tramite delle persone nelle Marche sono riuscita ad avere anche la sua fotografia. Quando dopo tanti mesi ti occupi di una persona la vedi in fotografia…è un’emozione molto forte. Ridai l’identità, ma anche il volto ad una persona.

Con l’associazione RusskijMir, di cui io sono presidente onoraria, ogni anno organizziamo un piccolo Reggimento Immortale a Torino. Abbiamo stampato le foto proprio di quei partigiani sovietici i cui nomi si trovano a Torino. È stata una grande emozione: vedere un volto, oltre che saperne la storia fa molto a livello emotivo.

– Quanto è importante oggi parlare dei partigiani sovietici della Resistenza?

– È molto importante perché si tende sempre a dimenticare soprattutto del ruolo del popolo russo-sovietico nella II Guerra Mondiale. Possiamo immaginare i motivi anche se sono assurdi. Alcuni storici l’hanno spiegato bene: dopo la fine della II Guerra mondiale il paradigma non è più l’antifascismo, ma l’anticomunismo in Italia. A quel punto si tende a sopravalutare l’aiuto degli alleati angloamericani e non parlare più del contributo sovietico. Questo si vede anche adesso.

 

L’anno scorso hanno coniato una medaglia commemorativa in America sulla vittoria e non hanno messo la bandiera dell’Unione Sovietica! Così come quando hanno commemorato lo sbarco in Normandia: c’era la signora Merkel, ma non c’era Putin. Qualcosa di senza senso.

 

Il contributo del popolo russo-sovietico è stato fondamentale, perché senza la vittoria della battaglia di Stalingrado e senza la resistenza a Leningrado, senza tutto quello che ha sopportato e fatto il popolo russo-sovietico l’Europa non avrebbe vinto contro Hitler. Questa cosa purtroppo non viene ricordata. Bisogna parlarne, sottolineare le verità storica. I 30 milioni di morti vogliono dire qualcosa.

 
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Olimpiadi di Tokyo rinviate all’estate 2021: è ufficiale! Accordo tra CIO e Governo giapponese

Post n°15701 pubblicato il 26 Aprile 2020 da Ladridicinema

da oasport

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Il coronavirus ha vinto ancora: anche le Olimpiadi di Tokyo 2020, l’evento sportivo planetario più atteso del quadriennio, sono state rinviate all’estate 2021 (le date esatte verranno comunicate in seguito). Decisiva si è rivelata una conference call tra il Presidente del CIO Thomas Bach ed il Premier giapponese Shinzo Abe.

Nel corso della conversazione il Primo Ministro del Sol Levante ha rivelato al n.1 del Comitato Olimpico Internazionale come abbia ricevuto decine di richieste da tutto il mondo che lo invitavano a rinviare i Giochi a causa del proliferare della pandemia del Covid-19. Anche ipotizzando un rinvio all’autunno 2020, le Olimpiadi non si sarebbero svolte nella totale completezza. Il Giappone desidera invece che ciò avvenga, anche come segnale di vittoria del mondo sulla grave tragedia che sta ormai divampando in tutti i Continenti. Per questo sarà necessario un anno di tempo in più.

Bach ha accolto le richieste di Abe, ufficializzando di fatto il rinvio dei Giochi al 2021. Notevoli i problemi logistici da andare a risolvere, a partire dalle abitazioni del villaggio olimpico che, da novembre, sarebbero dovute venir messe a disposizione dei proprietari che le hanno acquistate. Che ne sarà poi dei biglietti già venduti, delle prenotazioni alberghiere e dei viaggi aerei? Il problema non riguarda solo gli spettatori, bensì ciascun Comitato Olimpico nazionale, che da tempo aveva pianificato ed investito milioni sull’edizione a cinque cerchi giapponese. Tokyo 2021 andrà inoltre a sovrapporsi con tanti eventi già pianificati per il prossimo anno, anche se la Federazione Mondiale di atletica ha già fatto sapere di essere disposta a spostare i Mondiali che dovrebbero svolgersi ad agosto in America, ad Eugene.

Il CIO dovrà fare chiarezza al più presto anche sulle qualificazioni olimpiche: chi ha già strappato il pass lo manterrà anche per il 2021 o tutto verrà rimesso in gioco? Andranno inoltre riscritte le regole per tutte quelle discipline che non avevano ancora completato l’iter di qualificazione ai Giochi. Insomma, un vero e proprio caos.

Lo spostamento delle Olimpiadi al 2021 va inoltre a penalizzare atleti già avanti negli anni. Solo per rimanere alla realtà italiana, pensiamo a Federica Pellegrini, Elisa Di Francisca, Tania Cagnotto, Vincenzo Nibali ed Aldo Montano. L’ultimo dei problemi, verrebbe da dire. Il mondo, ancora una volta, ha chinato il capo di fronte al coronavirus. Ma, c’è da scommetterci, il 2021 rappresenterà una vera e propria festa dello sport, un ritorno alla vita normale dopo aver debellato il male del secolo.

federico.militello@oasport.it

 
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Sinceri e senza doppi fini gli aiuti russi all'Italia per contrastare il coronavirus - Ambasciatore da sputnik

Post n°15700 pubblicato il 26 Aprile 2020 da Ladridicinema

Ad affermarlo è l'ambasciatore della Federazione Russa in Italia Sergey Razov, che in un'intervista esclusiva all'agenzia Agi ha proprio parlato dell'assistenza fornita da Mosca per fronteggiare e contenere la diffusione del Covid-19, che ha stravolto la vita di tutto il Paese e messo in seria difficoltà in particolare il Nord.

Nell'intervista esclusiva all'agenzia Agi il capo della missione diplomatica russa in Italia Sergey Razov ha precisato in cosa consiste l'assistenza russa all'Italia per fronteggiare l'emergenza di coronavirus.

"In concreto si tratta dell’arrivo in Italia di 122 medici militari, virologi ed epidemiologi, 8 equipe mediche composte da un terapeuta, epidemiologi, anestesista, infermiera e interprete; 30 unita' di mezzi speciali-unita' mobili (ciascuna composta da due veicoli) e moduli di elaborazione dati installati su veicoli 'Kamaz'. Inoltre, i velivoli russi hanno portato in Italia presidi di protezione, unita' mobili per la disinfezione dei mezzi di trasporto e del territorio, in grado di sanificare anche condutture idriche, attrezzature medicali tra cui alcune decine di ventilatori polmonari, macchine di analisi biologica e patogena, 100 mila sistemi di test, mascherine sanitarie di alta classe di protezione, guanti, mille completi di protezione, 700 completi medico-infettivologo e altre attrezzature varie".

"In particolare, e' arrivato in Italia un nuovissimo laboratorio, uno dei 15 di cui dispongono in totale le Forze di Difesa NBC. Tutto questo, attraverso il ministero della Difesa della Federazione russa a titolo gratuito", ha sottolineato l'ambasciatore.

Relativamente alle zone di attività del personale medico russo, l'ambasciatore Sergey Razov ha riferito che a seguito delle consultazioni svoltesi ieri a Roma è stato deciso di inviare gli specialisti russi "in una delle città del Nord maggiormente colpite, Bergamo," aggiungendo che il lavoro non consiste nelle consultazioni, ma nello "svolgere un lavoro pratico direttamente negli ospedali, fianco a fianco con i colleghi italiani" e per adempiere al meglio i tecnici russi saranno aiutati "da un gruppo di interpreti militari."

Per quanto riguarda la permanenza in Italia del personale russo, l'ambasciatore ha evidenziato che verrà deciso congiuntamente da entrambe le parti.

Sergey Razov ha poi escluso nella maniera più categorica che l'assistenza russa abbia fini propagandistico-politici, ricordando tra l'altro che in passato "la Russia ha già prestato più di una volta il proprio aiuto al popolo italiano. Nel 1908, durante il devastante terremoto di Messina, i marinai russi salvarono gli abitanti dalle macerie della città e sulle proprie navi li trasportarono negli ospedali."

"Posso solo dire che nel nostro Paese c'è un detto: ‘Non esiste il dolore degli altri’. La Russia non poteva rimanere indifferente davanti a una situazione così difficile per l’Italia... Ma di quale propaganda si può parlare? La Russia ha risposto alla richiesta dei vertici italiani ed è disponibile a fornire imponenti aiuti a titolo gratuito", ha detto aggiungendo che Mosca si astiene rigorosamente dal rilasciare giudizi e commentare le azioni dell'Europa con l'Italia, che fanno parte "esclusivamente nell'ambito delle relazioni dell’Italia con i suoi partner".

Infine l'ambasciatore ha chiarito il concetto di solidarietà.

"Alcuni in Europa concepiscono la solidarietà come adesione generale alle sanzioni e disciplina di blocco. A nostro avviso, la solidarietà dovrebbe essere altro. I popoli che hanno una plurisecolare storia di amicizia, in situazioni difficili dovrebbero tendersi la mano. Il presidente Putin ha ripetutamente parlato della necessità che i Paesi uniscano le loro forze per combattere nuove sfide e minacce globali. E cosa potrebbe esserci di più pericoloso della diffusione dell'epidemia a cui stiamo assistendo? Come ho già detto, per noi non esiste il  ‘dolore altrui’." 

 
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La task force della verità da intellettualedissidente

Post n°15699 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema
 

Buoni e competenti a caccia di menzogne che disorientino l’opinione pubblica o gettino discredito sulle istituzioni. Quello lo fanno già troppo bene da sole.
di Dario Macrì - 5 Aprile 2020 

Affinché la popolazione accetti senza troppe obiezioni le restrizioni della libertà disposte dal Governo per arginare la diffusione del Coronavirus occorre che le percepisca come necessarie. A tale scopo, sembra che in Italia sia scattata una specie di ossessione contro ogni dubbio o insinuazione che riguardi la narrazione omogenea di ciò che sta accadendo. E se “l’Unità di monitoraggio per il contrasto della diffusione di fake news relative al Covid-19 sul web e sui social network”, annunciata da Andrea Martella (Sottosegretario Presidenza del Consiglio dei Ministri con delega all’Informazione e all’Editoria), servisse proprio a blindare ancora di più questa narrazione? Il sospetto c’è, suffragato, da un lato, dalla “mission” della task force, dall’altro, dalla composizione stessa del gruppo di lavoro. Le fake news, sostiene il Sottosegretario, “sono pericolose in tempi normali, tanto più in una situazione di emergenza possono determinare disorientamento dell’opinione pubblica, discredito delle istituzioni e del sistema scientifico”. Perciò la task force “si occuperà di monitorare e classificare i contenuti falsi, di studiare e promuovere campagne istituzionali di comunicazione, di promuovere partnership con soggetti specializzati e con i principali motori di ricerca, di coinvolgere i cittadini e gli utenti”. Si tratterà di un organismo che servirà per ”smascherare queste notizie false che possono determinare un danno alla nostra società, alla coesione sociale e alla qualità stessa della nostra democrazia”.

Il rischio che si corre creando un organo di questo tipo è lapalissiano: se ogni notizia che provochi “disorientamento dell’opinione pubblica” o “discredito delle istituzioni” sarà classificata come fake news, e quindi bandita, c’è la possibilità che possa essere scalfita la libertà di espressione? Questa task force, di fatto, deciderà cosa è o non è fake news nell’ambito di tutto ciò che attiene l’emergenza sanitaria in atto e le misure che la caratterizzano. Per combattere “l’insidia della disinformazione che indebolisce lo sforzo di contenimento del contagio”. A deciderlo sarà un gruppo di persone (di cui singolarmente non è nostro compito stabilire valore e professionalità) che, presi nell’insieme, non possono che sollevare alcune perplessità. C’è il Sottosegretario Martella, che in tempi non sospetti era stato promotore della creazione di un gruppo di lavoro sul fenomeno dell’odio online. Poi Riccardo Luna (giornalista di Repubblica, da sempre nel mainstream), Francesco Piccinini (direttore di Fan Page), David Puente (che si definisce blogger e debunker ma, su Open, il suo fact checking è andato, a volte, ben oltre la definizione stessa), Ruben Razzante (Professore universitario di Diritto ed editorialista su Il Giorno), Luisa Verdoliva (docente di Telecomunicazioni), Roberta Villa (giornalista, laureata in medicina e chirurgia), Giovanni Zagni (direttore di Pagella Politica) e Fabiana Zollo (ricercatrice)Quest’ultima è stata responsabile scientifica del progetto di ricerca europeo QUEST (Quality and Effectiveness in Science and Technology communication). Pare che il suo gruppo di lavoro abbia (addirittura) elaborato un algoritmo che è in grado di prevedere con grande accuratezza (77%) quali temi, sui social network, nel giro di 24, ore possano divenire oggetto di fake news.

La preoccupazione, che può pericolosamente sbandare nell’inquietudine, di stare assistendo alla nascita di una specie di censura preventiva, cessa di essere un’ipotesi così surreale dal momento che la stessa componente, Roberta Villa, si è espressa così sui social: “Da parte mia mi opporrò con forza (ed è principalmente per questo che sono contenta di essere seduta a questo tavolo virtuale) a ogni forma di censura o di etichettatura governativa di vero/falso”. Cè anche da tenere in considerazione il paradosso che proprio l’informazione governativa, dall’inizio dell’emergenza, è stata quanto mai lacunosa e contraddittoria: non solo sulla famigerata questione delle mascherine, prima inutili ora salvifiche, ma anche sull’interpretazione stessa delle misure di prevenzione alla diffusione del contagio. Per non parlare dell’approccio iniziale all’influenza, poi epidemia, poi pandemia. Inoltre, se persino ricercatori e virologi appaiono spesso in contrasto (sopratutto in televisione) nel merito dell’infezione, del contagio e delle misure preventive, come possono un gruppo di persone, la maggior parte senza competenze scientifiche, determinare cosa è vero e cosa no? In una fase storica in cui tante libertà costituzionali sono state sospese, era proprio necessario mettere in discussione anche l’art. 21? È vero, le fake news rappresentano un “cancro” nell’informazione del nostro tempo, ma è anche attraverso una coerente comunicazione istituzionale che vanno combattute, non a suon di tweet e dirette facebook.

 
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Era meglio un oceano di silenzio

Post n°15698 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema
 

Michela Murgia, insultando con senso di rozza superiorità i testi di Franco Battiato, ha mostrato, ancora una volta, la distanza che si è creata tra la cultura popolare e il classismo delle ”élite”.
di Andrea Scaraglino - 6 Aprile 2020 

Le colonne di questo giornale sono sempre state coraggiose, travalicando il culto del politicamente corretto sono riuscite a raccontare, con professionalità e onestà intellettuale, le mille storture del mondo globalizzato e dei suoi adepti. Ed è grazie a questo coraggio che, anche questa volta, siamo riusciti a non voltarci dall’altra parte e ad affondare le mani nel più cencioso e mefistofelico olezzo, quello dell’accademia fine a se stessa. Chi scrive, in spregio delle più naturali leggi di autoconservazione, si è sciroppato ben diciassette minuti di Michela Murgia a briglia sciolta, diciassette minuti di prosopopea autoreferenziale e distruttiva che, in questo periodo così particolare, assumono le sembianze plastiche del masochismo. In altre occasioni avremmo lasciato correre, avremmo lasciato fare al tempo e alla sua notte d’oblio ma, in questo caso, ravvisando una pericolosità intrinseca all’accaduto ben maggiore del fatto stesso, abbiamo deciso di rispondere. L’attacco della scrittrice sarda, gratuito e infondato, alla persona e ai testi di Franco Battiato, definiti quest’ultimi delle “minchiate assolute”, secondo noi nasconde un pericolosissimo significato latente di stampo classista, sottolineante la deriva umana che una certa classe ha intrapreso. Ovvero: solo l’accademia, con i suoi tecnicismi e le sue odierne chiavi interpretative, può essere cultura.

Un salto indietro di un secolo all’interno del dibattito culturale, un balzo negante la profondità della cultura popolare e del suo significato sociale. Un balzo che rimarca, ancora una volta, la distanza siderale che si è creata, soprattutto nell’ultimo decennio, tra il popolo e l’élite culturale di questa Nazione. Ora, accettando il fatto che la soggettività in questi specifici campi non può non essere presa in considerazione, è riprovevole il tentativo contrario. Oggettivare il pensiero personale dall’alto della propria cultura più “sviluppata”, deridere e squalificare quello dell’ “avversario” che, nel caso specifico, è giusto ricordarlo, non è nelle condizioni fisiche di rispondere, è da vili. Slegare i testi di Battiato dalla sua musica è impossibile, scimmiottare il “Cuccurucucu paloma”, analizzandolo come semplice locuzione, è stupido, oltre che inutile. Battiato e la sua arte parlano per immagini e rimandi storici, tramite sentimenti comuni declinabili diversamente da ognuno di noi. Ci dipingono un immaginario onirico che ha i contorni del nostro reale, una base comune per interpretare la quotidianità. Spiegano, rappresentandola al meglio, la nostra dimensione di animale sociale, dove pubblico e privato della nostra esistenza devono coincidere per permetterci di vivere appieno: “emanciparmi dall’incubo delle passioni, cercare l’Uno al di sopra del bene e del male, essere un’immagine divina di questa realtà”.

È in questi versi che sta la grandezza di Franco Battiato, e si capisce perchè il materialismo progressista, impersonificato dalla Murgia, cerchi di ridicolizzarla. Colpire scientemente chi ancora tenta di rendere l’uomo intero nel suo profondo e nella società, questo il deplorevole fine. Del resto, troppe volte deve aver provato un moto di fastidio, un certo tipo umano, ascoltando il proseguo di “E ti vengo a cercare”, troppo netto il contrasto con se stesso: “E ti vengo a cercare, con la scusa di doverti parlare, perché mi piace ciò che pensi e che dici, perché in te vedo le mie radici. Questo secolo oramai alla fine, saturo di parassiti senza dignità mi spinge solo ad essere migliore, con più volontà”. Chi scrive, con un padre nato a Tunisi e il cuore lasciato ad Ognina, non può far altro che aspettare il ritorno dell’ “era del cinghiale bianco”, sperando di aver azzittito, anche solo per un momento, “La voce del padrone”.

 
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Il libro dell’inquietudine ai tempi del coronavirus

Post n°15697 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema
 

In questo momento il nostro mondo, come quello del Bernardo Soares di Pessoa, sembra essersi ridotto ad una modesta finestra. Eppure, come Soares a suo tempo, ci stiamo rendendo conto di quanto coscienza e vita umana siano infinitamente più potenti di ogni futile sovrastruttura, spazzata via dal virus.
di Massimiliano Vino - 6 Aprile 2020 

Mai come in questo momento la vita e i sentimenti dell’uomo moderno sono stati messi così tanto alla prova. Un nuovo mondo si prospetta, alla fine della più grande emergenza dal secondo dopoguerra; e intanto pensieri ossessivi, malinconia mista ad angoscia e a paura, cominciano a ripercuotersi su una popolazione privata dei suoi abitudinari ritmi di lavoro, consumo e tempo libero. Una società come quella occidentale si ritrova oggi rivoltata nella sua più intima essenza: si ritrova cioè a dover fare i conti con sé stessa. Ognuno si ritrova da solo. Chi in famiglia, chi in qualche alloggio studentesco, chi bloccato fuori, chi completamente solo in qualche appartamento nelle vie, ormai sgombre e silenziose, di Roma o Milano. L’unica compagnia, che non siano la rete sociale, il cellulare, le voci – divenute tragicamente familiari – dei rapporti della protezione civile, della televisione, dei telegiornali, diviene per molti la finestra; quella finestra a cui, in fondo, raramente si faceva caso quando la vita era normale.

Raramente si guardava oltre. Raramente ci si perdeva, non tanto nel panorama, quanto nella propria coscienza tramite quella piccola apertura verso il mondo esterno. La casa stessa era un luogo di passaggio. Si potevano scorgere persone di cui non ci importava nulla passeggiare nel marciapiede sottostante, notare dei panni appesi, senza che nulla dei colori e del tessuto potesse colpirci; si poteva scorgere una televisione accesa, o udire le grida o le risate provenienti da qualche altra abitazione. Tutto si risolveva come parte millesimale del nostro tempo. Tempo perso, presumibilmente. Tempo che sarebbe stato meglio dedicare ad altro, a qualcosa di produttivo. Ma il produttivo in questo momento non esiste più per molti di noi. Certo, esistono gli impegni che pur ci auto infliggiamo, nella speranza di non dover fare i conti con quella marea di tempo libero di cui ora, improvvisamente, disponiamo e che dobbiamo pur tuttavia adattare ad uno spazio che è estremamente limitato. D’un tratto quella finestra è divenuta il confine visibile tra noi e quanto sta succedendo, nonché il teatro delle nostre emozioni e dei nostri pensieri.

 

Chissà cosa avrebbe pensato quel Bernardo Soares inventato da Fernando Pessoa, qualora una simile pandemia lo avesse costretto a rimanere in casa, solo con la propria coscienza? Quel Libro dell’inquietudine di Bernardo Soares, a cura di Antonio Tabucchi, rappresenta oggi un capolavoro letterario vivo e pulsante, un viaggio nell’interiorità dell’umano tremendo e sincero, il luogo in cui maggiormente si trovano dispiegate le paure e i pensieri di qualsiasi uomo sospeso oggi tra la propria realtà e quella esistente, tra la tragedia del mondo della frenesia e della produzione messo in ginocchio e la propria, effimera eppure mai così potente, capacità di immaginazione e di auto-introspezione. Ciò che prevale, nell’uomo in quarantena e in Soares, è certo inizialmente pura nostalgia:

Nostalgia! Ho nostalgia perfino di ciò che non è stato niente per me, per l’angoscia della fuga del tempo e la malattia del mistero della vita. Volti che vedevo abitualmente nelle mie strade abituali: se non li vedo più mi rattristo; eppure non mi sono stati niente, se non il simbolo di tutta la vita.

Quanta nostalgia ci pervade in questo momento? La luce in fondo al tunnel sembra così lontana, così inavvicinabile. Dopo questa esperienza non saremo più gli stessi. Il nostro mondo non tornerà mai come prima. Questo è quanto ci dicono. Questo è quanto, masticando e rimasticando il concetto, non sappiamo se interpretare in senso positivo o negativo. Intanto i giorni scorrono. Il piccolo viaggio interiore di Soares procede di pari passo, disilluso e per nulla speranzoso:

Sperare? Cosa devo sperare? Il giorno non mi promette altro che il giorno e io so che esso ha un decorso e una fine. La luce mi anima ma non mi migliora, perché uscirò da qui come sono arrivato qui: più vecchio di ore, più allegro di una sensazione, più triste di un pensiero. In ciò che nasce possiamo sentire ciò che in esso nasce o pensare ciò che in esso dovrà morire. Ora, sotto la luce ampia e alta, il paesaggio della città è come quello di un campo di case: è naturale, è esteso, è strutturato. Ma anche nel vedere tutto ciò, potrò forse dimenticarmi che esisto? La mia consapevolezza della città è, dal di dentro, la consapevolezza di me stesso.

Come sottolineato da Tabucchi, l’esistenza stessa di Soares pare ricomporsi e liquefarsi continuamente. Un ciclo continuo in cui la coscienza, anziché negarsi continuamente per rinascere in forme nuove, si nega e basta, viaggiando ad un ritmo lento ed incalzante al tempo stesso fino ad avvicinarsi al suo completo annullamento. Soares è la negazione costante della massima di Cartesio: è il pensare che non presuppone l’esistenza. Perché esistere è ben altra cosa. Quanti non riescono oggi a dare un senso a quanto sta avvenendo? Oltre a ciò che faremo dopo questa esperienza, oltre le videochiamate, oltre ai sondaggi o alle celeberrime challenge sui Social Network, chi o che cosa siamo noi in questo momento? Esistiamo senza essere in funzione di qualcos’altro?

Mi perdo se mi incontro, dubito se trovo, non possiedo se ho ottenuto. Come se passeggiassi, dormo, ma sono sveglio. Come se dormissi, mi sveglio, e non mi appartengo. In fondo la vita è in se stessa una grande insonnia e c’è un lucido risveglio brusco in tutto quello che pensiamo e facciamo.

Ci sdoppiamo e ci triplichiamo, come Pessoa e come il suo Soares (che è già un doppio o un triplo del poeta portoghese). La nostra coscienza fa i conti con sé stessa per un tempo che sembra non dover avere mai fine. Fuori si studiano soluzioni per uscire da questo stallo, mentre l’attesa per la rinascita sembra non dover finire mai. Intanto, come piccoli sovrani, presidenti o ministri del regno della nostra coscienza, individualmente cerchiamo una soluzione alla nostra personale crisi economica, che è crisi di sicurezze, che è desiderio di ricostruirci:

Il governo del mondo comincia in noi stessi. Non sono le persone sincere che governano il mondo, ma neppure le persone insincere. Sono coloro che fabbricano in se stessi una sincerità reale con mezzi artificiali e automatici; quella sincerità costituisce la loro forza ed essa brilla nei confronti della sincerità meno falsa degli altri.

Da qui sorge la critica di Soares al desiderio di veder cambiare il mondo (che oggi è il desiderio di molti, specie di quanti hanno scorto da anni le storture del nostro attuale sistema economico e sociale), senza prima voler cambiare se stessi:

Rivoluzionario o riformatore: l’errore è lo stesso. Incapace di dominare e di modificare il suo atteggiamento verso la vita, che è tutto, o verso se stesso, che è quasi tutto, l’uomo fugge volendo modificare gli altri e il mondo esterno. Ogni rivoluzionario, ogni riformatore, sono degli evasi. Combattere è non essere capace di combattere se stesso. Riformare significa essere incapace di correggersi.

Il viaggio nella coscienza di Soares, nella coscienza di un recluso, sfiora dunque le possibilità di un riscatto. Un riscatto senza illusioni, giacché «quando si è giocato a domino, che si sia vinto o che si sia perso, dobbiamo capovolgere le pedine, e il gioco finito è nero», ma pur con un’idea di sopravvivenza nel pieno delle facoltà e delle possibilità umane, libere finalmente dalle catene dell’utile che ora sono venute meno. Ci si scopre in grado di sopperire a sé stessi, nell’isolamento. Ci si scopre in grado di non dover dipendere da nessuno:

La libertà è la possibilità dell’isolamento. Sei libero se puoi allontanarti dagli uomini senza che ti obblighi a cercarli il bisogno di denaro, o il bisogno gregario, o l’amore, o la gloria, o la curiosità, che non si addicono al silenzio e alla solitudine. Se è impossibile per te vivere da solo, sei nato schiavo. Puoi avere ogni grandezza, ogni nobiltà d’animo: sei uno schiavo nobile, o un servo intelligente. Non sei libero.

Fu previdente Pessoa – pardon, Soares – nell’immaginare le reazioni di chi, giustamente, avrebbe avuto da ridire sul suo modo di interpretare la vita umana, e sui suggerimenti impliciti per poter sopravvivere a se stessi. Non si illude, infatti, Soares, della condizione spesso privilegiata che accompagna i grandi sognatori e i grandi malinconici:

Le grandi malinconie, le tristezze piene di tedio non possono esistere se non in ambienti confortevoli e di sobrio lusso. Per questo Egeus di Edgar Allan Poe può restare ore ed ore in languida concentrazione in un antico castello avito ove, al di là della grande porta della sala in cui la vita languisce, invisibili maggiordomi amministrano la casa e il cibo. I grandi sogni necessitano di certe condizioni sociali.

Vorremmo aggiungere: necessitano della sicurezza di non ritrovarsi, improvvisamente, senza lavoro, in cassa integrazione, con appena 600 euro mensili con i quali sostenersi a livello di beni essenziali. Non c’è nulla di poetico, nulla di costruttivo o di desiderabile in una condizione del genere per chi, già in questo momento, sta provando sulla propria pelle il disastro economico che si accompagna alla pandemia, su chi è consapevole degli enormi sacrifici che dovrà sopportare per sé e per la propria famiglia. Infine, non vi è apparentemente nulla di poetico in chi è ora in trappola in un appartamento squallido e minuscolo. Ma nella povertà, pur qualcosa si muove. Soares non è certo Poe o un visconte, o un barone. La sua condizione è quella del piccolo impiegato (come Pessoa, ndr), che vive al quarto piano di un anonimo edificio in Rua dos Douradores a Lisbona:

Ma perfino da questo quarto piano sulla città si può pensare all’Infinito. Un infinito con magazzini sottostanti, è vero, ma con le stelle all’orizzonte… È quanto mi viene alla mente in questo pomeriggio ultimo, presso questa alta finestra, nell’insoddisfazione del borghese che non sono e nella tristezza del poeta che non potrò mai essere.

L’infinito che immaginiamo può essere anche un infinito in carne ed ossa. Mai le persone ci sono sembrate così vive come in questo momento. Spettri dinanzi alla nostra indifferenza quando le strade erano piene, la vita fremeva, il lavoro ci occupava il tempo e la mente, ora li riscopriamo in quanto anime, in quanto coscienze. Ognuna con i propri problemi e con le proprie sofferenze:

Il disprezzo che sembra esistere fra uomo e uomo, l’indifferenza che permette che si uccidano persone senza capire che si uccide, come fra gli assassini, o senza pensare che si sta uccidendo, come fra i soldati, sono dovuti al fatto che nessuno presta la dovuta attenzione alla circostanza, che sembra astrusa, che anche gli altri sono anime.

Il cammino di Pessoa/Soares attraverso la quarantena si potrebbe pertanto concludere qui. Tra le espressioni sempre più rade dei volti familiari che si vedono per strada o in diretta video, di cui si ascolta la voce, con i quali si comunica e si cerca il contatto entro i limiti concessi dalle attuali restrizioni, nella ricerca mai così spasmodica e sentita di una umanità che si riscopre per ciò che è, in tutta la sua mortale e condivisa fragilità. Il mondo che sta crollando è solo esteriore. Stanno venendo meno soltanto le sovrastrutture di un pensiero e di un modo di vivere che aveva poco a che fare con la condizione umana. Liberi per la prima volta di esistere, ci riscopriamo in grado di sopperire alle mancanze che la società e il mondo sembravano essere in grado di sostenere con la sola forza artificiale del tempo che ci sottraevano. Diamo ascolto a noi stessi, giacché solo su noi stessi e su una società che si sarà riscoperta più umana di quanto non sia mai stata, su una social catena di leopardiana memoria presto potremo fare affidamento. Rimaniamo solidi e vigili, e vivi come nelle parole- forse le più belle – di Bernardo Soares:

Anche se intorno a noi crollerà ciò che fingiamo di essere, perché coesistiamo, dobbiamo rimanere impavidi: non perché siamo retti, ma perché siamo noi; ed essere noi significa non avere niente a che vedere con le cose esterne che crollano, anche se crollano su ciò che noi siamo per essere.

 
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Avati: "Dalla Rai ok al film su Dante" da cinecittà news

Post n°15696 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema
 
Tag: news

"Tre ore fa, dopo 18 anni - era il 2002 e ora siamo nel 2020 - attraverso una conference call con Paolo Del Brocco e tutto il board di Rai Cinema, hanno finalmente dato il via a questo film su Dante che stiamo preparando per i 700 anni dalla morte, che cadranno il 14 settembre del 2021. Non lo sa ancora nessuno". Lo rivela a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio 1, il regista Pupi Avati, intervenuto alla trasmissione condotta da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro. Ha già scritto il film? "L'ho già scritto e lo abbiamo anche già tradotto in inglese". Quando sarà pronto? "Il 13 settembre del 2021", ha scherzato Avati.

 
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L’IMPORTANZA DELLA TEORIA DELLO STATO LENINISTA ALL’EPOCA DELLA CRISI DEL COVID-19 da ordinenuovo

Post n°15695 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

L’IMPORTANZA DELLA TEORIA DELLO STATO LENINISTA ALL’EPOCA DELLA CRISI DEL COVID-19

 

Lenin teorico della politica marxista

Lenin è stato il più grande teorico marxista del XX secolo e la sua opera rappresenta un classico, essendo un punto di riferimento imprescindibile per la teoria e la politica rivoluzionaria del XXI secolo. Il contributo di Lenin parte direttamente dallo studio di Marx ed Engels, ma ha una sua originalità, perché la sua elaborazione è sempre creativa e capace di adattare e sviluppare i principi dei due fondatori del socialismo in base alle condizioni e al mutare della storia. La teoria leninista è la teoria della rivoluzione per come questa si prospettava tra la fine dell’XIX e l’inizio del XX secolo e rappresenta un corpus unitario, con le varie parti – lo studio delle condizioni economiche della Russia, la teoria dell’imperialismo, la teoria dello Stato e del partito – che si incastrano perfettamente, realizzando la visione d’insieme e intimamente coerente di un progetto rivoluzionario.

Tuttavia, se ci si permette una valutazione, la parte più originale e importante, da cui trarre indicazioni preziose per il presente, è quella della teoria politica. Infatti, Lenin ha il merito enorme di aver realizzato qualcosa che prima non esisteva se non in spunti sparsi: l’elaborazione e la sistematizzazione di una teoria marxista della politica.

Lenin è sia il leader pratico della Rivoluzione d’Ottobre sia il teorico principale della politica in senso marxista. Non che Marx e Engels non avessero una teoria politica, tutt’altro. Entrambi svolsero un decisivo ruolo politico pratico nella I internazionale, e in tutte le loro opere fanno riferimento a elementi di teoria politica, soprattutto allo Stato, da cui Lenin trae spunto e attinge a piene mani, ma nessuna delle loro opere tratta in modo sistematico ed esclusivo dell’argomento. Si può dire che la teoria politica marxista si è definita con Lenin quando si sono generate le condizioni storiche per la rivoluzione politica. Questo è vero, ma in realtà il problema della mancanza di una teoria politica marxista rappresenta un grave limite anche in periodi non rivoluzionari.

Fu proprio Lenin a denunciare come la mancanza di una teoria dello Stato fosse alla base della degenerazione opportunistica della II Internazionale e dell’allinearsi dei partiti socialisti, che ne facevano parte, ai rispettivi imperialismi al momento dello scoppio della I Guerra mondiale. Ma anche dopo l’Ottobre sovietico, quando si cercò di diffondere la rivoluzione in Europa occidentale, è sempre alla mancanza o ai limiti di comprensione della teoria politica marxista che da Lenin viene attribuita l’incapacità di una parte dei partiti comunisti occidentali di sviluppare una vera pratica politica di massa, liberandosi delle tendenze estremiste .

La Teoria politica di Lenin si compone essenzialmente di due parti: la teoria dello Stato e la teoria del partito, la quale contiene anche un’altra parte importante, la teoria della coscienza di classe. Sebbene usualmente abbia riscosso maggiore attenzione la teoria del partito, la parte più importante è costituita dalla teoria dello Stato, cui Lenin, subito prima della rivoluzione d’Ottobre dedica l’opera più importante: Stato e rivoluzione (pubblicato nel maggio 1918), le cui tematiche verranno riprese, in parte, da La Rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky (novembre 1918). Lenin, in Stato e rivoluzione, ci rivela come avesse dovuto svolgere un vero e proprio lavoro di scavo archeologico per riportare alla luce, dopo cinquanta anni, i principi di teoria dello Stato di Marx e Engels, tanto profondamente erano stati espunti dalla ideologia ufficiale dalla socialdemocrazia dell’epoca. Anche oggi si rende necessario un simile lavoro di scavo archeologico, solo che si dovrebbe andare ancora più nel profondo e confrontarsi con illusioni sulla democrazia e sullo Stato, che sono molto più radicate che all’epoca in cui Lenin scriveva.

La non neutralità di classe dello Stato

Proprio oggi, nell’epoca della crisi del covid-19, definire correttamente la natura dello Stato e il modo di rapportarsi ad esso è di importanza ancora maggiore, perché siamo in una fase in cui il ruolo dello Stato sembra riacquistare una nuova importanza. Per decenni, nel corso di quella che è stata definita globalizzazione, erano stati in molti a sostenere l’obsolescenza se non l’inutilità dello Stato. Oggi, a fronte della crisi più grave dal ’29 si assiste invece ad un revival dello Stato.

Il vecchio Stato nazionale dimostra di poter bloccare le frontiere a persone e merci, impone la segregazione in casa a miliardi persone, soprattutto, è chiamato a sostenere le imprese dinanzi al fallimento del principio che aveva guidato il mondo per quaranta anni, il mercato autoregolato. Lo Stato è persino sollecitato da antichi alfieri della disciplina di bilancio, come Draghi, a indebitarsi senza freni pur di salvare il sistema capitalistico dal suo disfacimento. Persino nella neoliberista Ue, attraverso la commissaria alla concorrenza Vestager, viene dato il via libera agli aiuti di stato alle imprese e alle nazionalizzazioni, per impedire che imprese strategiche vengano a cadere nelle mani di Stati stranieri. A muoversi in questo senso non sono solo l’Italia, dove lo Stato ha rafforzato la normativa sul golden power , e la Francia, ma anche la Germania.

Allo stesso tempo la globalizzazione subisce duri colpi dall’aumento delle misure protezionistiche implementate dai vari Stati, non solo gli Usa e la Cina, ma anche la Ue. Intanto le lunghe catene del valore, ossia l’articolatissima divisione internazionale della produzione delle merci, subiscono un accorciamento mediante la reinternalizzazioni di intere parti della produzione nei Paesi sedi delle imprese. Insomma, siamo di fronte all’emergere di un nuovo paradigma di accumulazione capitalistica, già emerso da qualche tempo ma accelerato dalla pandemia, al centro del quale si riposiziona lo Stato. Di conseguenza, si ripropone come centrale anche la questione della natura dello Stato, anche perché molti cadono nell’equivoco che questo nuovo interventismo dello Stato sia sempre positivo in sé stesso, accogliendo con sollievo quella che sembrerebbe essere la fine del libero mercato autoregolato. Anzi, per alcuni il nuovo ruolo dello Stato sarebbe quasi prodromico alla riproposizione del socialismo come opzione storica.

Questo modo di vedere presuppone un grave limite, ossia la concezione dello Stato come di una macchina essenzialmente neutrale sia dal punto di vista degli interessi di classe che rappresenta, sia dal punto di vista della sua forma e struttura di funzionamento interna. È precisamente questa concezione che viene criticata dalla teoria leninista dello Stato, secondo la quale lo Stato non è mai neutrale dal punto di vista di classe.

Lo Stato nasce dalla divisione in classi della società

La verità è che non è la prima volta che lo Stato interviene direttamente nel processo di accumulazione, anzi la storia del capitalismo è un continuo alternarsi di maggiore e minore presenza dello Stato a seconda delle condizioni che attraversa il modo di produzione capitalistico. Una di queste epoche è proprio quella in cui Lenin elabora la sua teoria dello Stato, quando si affermano il capitalismo monopolistico di Stato e l’imperialismo. Il primo punto da cui parte Lenin è l’origine dello Stato.

La nascita stessa nella storia dello Stato è legata alla divisione della società in classi sociali contrapposte“Lo Stato è il prodotto e la manifestazione degli antagonismi inconciliabili tra le classi. Lo Stato appare là, nel momento e in quanto, dove, quando e nella misura in cui gli antagonismi di classe non possono essere conciliati. E per converso l’esistenza dello Stato prova che gli antagonismi di classe sono inconciliabili. (…) Lo Stato è l’organo del dominio di classe, un organo di oppressione di una classe da parte di un’altra. È la creazione di un ordine che legalizza e consolida questa oppressione, moderando il conflitto fra le classi” .

Gli apparati del dominio di classe dello Stato

Il secondo punto riguarda il modo in cui lo Stato esercita tale dominio di classe, cioè quale ne sia la funzione principale. Lo Stato è un apparato, una macchina che ha come caratteristica principale il monopolio dell’esercizio della forza o della violenza entro un certo territorio. Fin qui anche i teorici borghesi sarebbero d’accordo ed è esattamente questa la definizione che l’antimarxista Max Weber dà dello Stato Ma, per il marxismo, il punto è che questo monopolio dell’esercizio della forza viene esercitato dalla classe economicamente dominante contro la classe economicamente subalterna. La forza stessa non è esercitata dai cittadini come comunità in armi, come poteva accadere nelle comunità primitive. Al contrario, “la società civile è divisa in classi sociali ostili, inconciliabilmente ostili, il cui armamento <<autonomo>> determinerebbe una lotta armata fra di esse” Per questo si forma lo Stato e si creano distaccamenti speciali di uomini armati, separati dal resto della popolazione, di cui sono espressione la polizia e gli eserciti permanenti con le loro appendici materiali, carceri, tribunali e caserme. Infatti, quando una classe ne soppianta un’altra si sforza subito di ricostruire nuovi distaccamenti armati che la servano.

La natura di classe è propria di qualunque tipo di Stato, attraverso il quale la classe economicamente dominante diventa anche la classe politicamente dominante. Questo dato di fatto è riscontrabile anche nello Stato moderno, nella repubblica democratica. Anzi è proprio qui che lo Stato ricopre in modo più efficace la sua funzione.

Secondo Lenin, “L’onnipotenza della <<ricchezza>> è in una repubblica democratica tanto più sicura in quanto non dipende da un cattivo involucro politico del capitalismo; per questo il capitale dopo essersi impadronito di questo involucro – che è il migliore – fonda il suo potere in modo talmente saldo, talmente sicuro, che nessun cambiamento, né di persone, né di istituzioni, né di partiti nell’ambito della repubblica democratica borghese può scuoterlo.”  La repubblica democratica ha rafforzato il suo carattere di classe, oltre che grazie al potere di imporre imposte e al debito pubblico, soprattutto attraverso due istituzioni: la crescita di un enorme apparato burocratico, costituito da una classe di funzionari, “che appaiono come organi al di sopra della società” , e il militarismo, basato sull’esercito permanente. La critica di Lenin è estesa anche al parlamentarismo. Lenin non è contro le istituzioni rappresentative, ma contro il parlamentarismo, perché il Parlamento “mai nella democrazia borghese decide delle questioni più importanti: esse vengono decise dalla Borsa e dalle Banche.”

La necessità di spezzare la vecchia macchina dello Stato

Il terzo punto riguarda il rapporto tra la classe lavoratrice e lo Stato. La critica di Lenin è duplice. Da una parte è rivolta agli anarchici che si disinteressano dello Stato e la cui unica preoccupazione è abbatterlo, senza porsi il problema di con che cosa e come sostituirlo. Dall’altra parte, la critica è rivolta ai partiti socialdemocratici che ritengono la burocrazia ineliminabile e sempre necessaria. Come ben sintetizzato da Kautsky, il maggiore teorico della socialdemocrazia tedesca, “l’obiettivo della nostra lotta politica rimane la conquista del potere statale mediante il conseguimento della maggioranza in parlamento e della trasformazione del Parlamento in padrone del governo” . Inoltre, sempre per Kautsky, il compito della lotta dei lavoratori nel capitalismo “non può essere di distruggere il potere statale”, ma soltanto di “indurre il governo a fare delle concessioni o di sostituire un governo ostile al proletariato con un governo che gli vada incontro” mediante “un certo spostamento nel rapporto delle forze all’interno del potere statale” La teoria marxista dello Stato ritiene, invece, che il potere non può essere preso con il semplice suffragio universale e che la classe lavoratrice, una volta conquistato il potere, non può limitarsi a prendere la vecchia macchina dello Stato e a usarla a così com’è a proprio favore.

Così scrive Lenin: “La questione essenziale è di sapere se la vecchia macchina statale (legata con mille fili alla borghesia e impregnata di spirito burocratico e conservatore) sarà mantenuta oppure distrutta e sostituita con una nuova. La rivoluzione non deve consistere nel fatto che la nuova classe comandi o governi per mezzo della vecchia macchina statale, ma che, dopo averla spezzata, comandi attraverso una macchina nuova: è questa l’idea fondamentale del marxismo che Kautsky fa sparire o non ha assolutamente capito.”

Un nuovo tipo di Stato

Il quarto punto è inerente alle caratteristiche del nuovo Stato della classe lavoratrice, ossia la questione della democrazia e della dittatura del proletariato, definita da Marx come la forma dello Stato socialista. La parola dittatura già all’epoca di Lenin suscitava delle perplessità, ad esempio in Kautsky stesso. La risposta di Lenin è che ogni Stato è una dittatura esercitata dalla classe dominante sulla classe dominata. Ora, si da il caso che, una volta preso il potere dalla classe operaia, le classi non si eliminano immediatamente da sé stesse, ma che continuino a esistere per un certo lasso di tempo. Per queste ragioni, la dittatura del proletariato è esattamente la forma del dominio della classe lavoratrice sui residui delle classi superiori nel periodo di transizione (altrimenti definito socialismo) dal capitalismo al comunismo. Così scrive Lenin sulla questione: “Riguardo alla democrazia un marxista non dimenticherà mai di porre la domanda: <<per quale classe?>> (…) dittatura non significa obbligatoriamente la soppressione della democrazia per la classe che esercita questa dittatura contro le altre, ma significa obbligatoriamente soppressione o importantissima restrizione (restrizione che è essa pure un aspetto della soppressione) della democrazia per quella classe su cui o contro la dittatura è esercitata.”

Se il significato di democrazia è il dominio della maggioranza sulla minoranza, la democrazia si realizzerebbe nel modo più compiuto proprio nella dittatura del proletariato, che è appunto il dominio della maggioranza degli sfruttati sulla minoranza degli sfruttatori.

Un dominio che deve essere fondato, oltre che sul potere armato della classe lavoratrice, su organismi statuali che, come abbozzava Lenin a ridosso della conquista del potere in Russia, non possono che essere sempre meno burocratici, cioè sempre meno istituzioni separate dalla massa del popolo, e sempre più organismi di partecipazione e controllo delle masse sulla gestione della cosa pubblica.

 

La teoria leninista dello Stato e l’oggi

La teoria dello Stato leninista è molto più articolata e complessa di quanto in queste poche righe abbiamo cercato di abbozzare ed è stata ulteriormente sviluppata, in alcuni aspetti, dallo stesso Lenin durante il suo breve periodo di capo del governo sovietico, specialmente sul ruolo di mediazione dello Stato operaio tra le classi popolari e sugli strumenti di controllo della classe operaia sulla produzione e sullo Stato. Altri teorici hanno cercato di sviluppare ulteriormente la teoria politica, partendo da Lenin, come Gramsci e Poulantzas hanno fatto con esiti importanti.

Ma da ormai molto tempo c’è necessità di proseguire e aggiornare l’elaborazione della teoria politica marxista e in particolare quella dello Stato. Il compito è particolarmente necessario oggi non solo perché in Occidente lo Stato sta riprendendo una centralità, che solo in parte aveva lasciato, e in Europa l’euro e la Ue hanno modificato le modalità con cui il capitale ha esercitato il suo dominio sulla classe lavoratrice, ma anche perché abbiamo sotto gli occhi numerose esperienze di tentativi socialisti da cui trarre spunto, sia quelli storici dell’Urss, dei Paesi dell’Est e della Cina, sia quelli contemporanei degli Stati latino americani che hanno provato a costruire un loro percorso di socialismo del XXI secolo. Nonostante lo Stato abbia apparentemente perso potere, in realtà con la Ue e l’euro, se intendiamo – insieme con Lenin – con il termine di Stato l’apparato del dominio della classe capitalistica sulla classe lavoratrice, lo Stato si è molto rafforzato. Fra l’altro proprio per due fattori che Lenin descrive come tipici della saldezza del dominio di classe nella forma democratico-borghese. In primo luogo, la proliferazione di un apparato burocratico – nel nostro caso anche europeo – e la delega, attraverso di esso, di alcune importanti funzioni dello Stato, in particolare il controllo dei bilanci pubblici e della moneta.

La critica al parlamentarismo di Lenin trova nuove conferme nella sostanziale estromissione dei Parlamenti nazionali (e del Palamento europeo) dalle decisioni non solo da parte della burocrazia europea – a partire dalla Bce – ma anche dalla Borsa e dalle banche, ossia da parte dei mercati finanziari: uno spread che sale ha un potere di condizionamento delle scelte politiche molto maggiore di un qualsiasi parlamento nazionale, che molto spesso è confinato in discussioni su fenomeni di importanza secondaria. Ma anche all’interno dello Stato tradizionalmente inteso il dominio del capitale si è rafforzato insieme al rafforzamento del potere degli esecutivi sui parlamenti e al rafforzamento dei distaccamenti armati, compreso il passaggio di quasi tutti gli stati europei al modello di esercito professionale, sempre più impiegato all’estero in operazioni spesso di vera e propria guerra e all’interno in funzioni di ordine pubblico. Il ricorso, sempre più frequente, all’emergenza, sia essa economica, di finanza pubblica o sanitaria, rafforza la tendenza al dominio statuale e alla concentrazione del potere non certo quella alla democrazia.

Inoltre, nei cento anni da Stato e rivoluzione abbiamo visto riemergere a più riprese, anche recentemente, quelle stesse concezioni opportuniste che Lenin criticava in Kautsky come le illusioni sul “sostituire un governo ostile al proletariato con un governo che gli vada incontro” e sulla “conquista del potere statale mediante il conseguimento della maggioranza in Parlamento”. Quindi, l’aspetto più attuale della teoria dello Stato leninista sta nella conferma della centralità del concetto di non neutralità dello Stato e nella impossibilità di usare così com’è la macchina statale ereditata dalla borghesia.

Un intervento rinnovato dello Stato nell’economia avrà, come si sta già dimostrando, un segno di classe preciso, cioè a favore del capitale. La non neutralità dello Stato è, però, un concetto centrale anche nel caso di eventuale conquista del potere politico, come Lenin non si stancava di sottolineare. Hanno fatto esperienza concreta di questa verità molti stati latino americani, dove la conquista del governo da parte di forze di sinistra ha lasciato intatta la macchina dello Stato e i suoi legami con la classe dominante, a partire dagli apparati polizieschi, militari e giudiziari, che, infatti, non hanno mancato, come ad esempio nel passato in Cile e più recentemente in Brasile, di incidere sugli esiti successivi del processo politico a danno dei partiti dei lavoratori. Se il Venezuela ha potuto resistere, almeno fino ad ora, è stato proprio perché l’apparato militare è sempre stato legato al governo.

Sono passati più di cento anni da Stato e Rivoluzione e dal Rinnegato Kautsky, e vanno sempre evitate letture dogmatiche che applichino in modo troppo meccanico qualunque teoria, anche la migliore, ma credo che, letta criticamente, la teoria leninista dello Stato possa fornirci dei fondamentali da cui partire che sono ancora oggi pienamente validi. L’insegnamento principale è la centralità della lotta contro lo Stato, anche per la formazione della coscienza di classe. Infatti, come sostiene Lenin nel Che fare? “Il campo dal quale soltanto è possibile attingere questa coscienza di classe è il campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo” .

 _______________

 Lenin, L’estremismo malattia infantile del comunismo, Editori riuniti, Roma, 1974.

 Il golden power attribuisce al governo poteri di interdizione, indirizzo e orientamento nelle transazioni in settori e ambiti strategici (difesa, sicurezza nazionale, energia, trasporti, telecomunicazioni, ecc.)

 Lenin, Stato e rivoluzione, Editori riuniti, Roma 1981, pp.61-62.

 Max Weber, Economia e società, IV Sociologia politica, Edizioni di Comunità, Milano 1995, pp. 4-10.

 Lenin, Stato e rivoluzione, p.65.

 Ibidem, p.69.

 Engels, cit. in Ibidem, p.67.

 Lenin, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, Newton Compton Editori, Roma 1978, p.50.

 Kautsky, cit. in Lenin, Stato e rivoluzione, pp.199-200.

 Ibidem.

 Ibidem, p.196.

 Lenin, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, p. 35.

 Lenin, Che fare? In Trockij, Luxemburg, “Rivoluzione e polemica sul partito, Newton Compton editori, Roma, 1976, p.113.

 
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da The hobbit

Post n°15694 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema
 

Sul letto di morte, Thorin si riappacifica con Bilbo

«Thorin: Addio, buon ladro. Io vado ora nelle sale di attesa a sedermi accanto ai miei padri, finché il mondo non sia rinnovato. Poiché ora l'oro e l'argento abbandono, e mi reco là dove essi non hanno valore, desidero separarmi da te in amicizia, e ritrattare quello che ho detto e fatto alla Porta.
Bilbo: Addio, Re sotto la Montagna! Amara è stata la nostra avventura, se doveva finire così; e nemmeno una montagna d'oro può essere un adeguato compenso. Tuttavia sono felice di avere condiviso i tuoi pericoli: questo è stato più di quanto un Baggins possa meritare.
Thorin: No! In te c'è più di quanto tu non sappia, figlio dell'Occidente cortese. Coraggio e saggezza, in giusta misura mischiati. Se un maggior numero di noi stimasse cibo, allegria e canzoni al di sopra dei tesori d'oro, questo sarebbe un mondo più lieto. Ma triste o lieto, ora debbo lasciarlo. Addio!»

Lo Hobbit

 
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Il volo di Pjatakov. La collaborazione tattica tra Trotskij e i nazisti

Post n°15693 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema
 
Tag: libri, news

Proprio da inoppugnabili fonti e documenti di matrice antistalinista, a partire dagli archivi Trotskij di Harvard, sono emerse di recente una serie di clamorose rivelazioni che comprovano in modo sicuro la collaborazione diretta tra i nazisti al potere e Trotskij. In particolare, e contro le teorie ancora dominanti sull'assenza di mezzi e opportunità, risulta ormai certo che nel dicembre 1935 G. L. Pjatakov, allora vicecommissario per l'industria pesante sovietica, volò con l'aiuto dei fascisti tedeschi da Berlino in Norvegia per incontrarsi clandestinamente con Trotskij, con il quale ebbe un drammatico confronto proprio sulla questione dell'alleanza tattica con i nazisti. Andrebbero pertanto riscritti in buona parte i libri di storia sugli anni trenta e quaranta dello scorso secolo, con evidenti riflessi e ricadute anche sulla politica della sinistra contemporanea.

 

  • Copertina flessibile: 594 pagine
  • Editore: Pgreco (19 ottobre 2017)
  • Collana: Dossier
  • Lingua: Italiano
  • ISBN-10: 8868022095
  • ISBN-13: 978-8868022099
  • Peso di spedizione: 1,2 Kg
 
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da Il Signore degli Anelli: la traduzione di Vittoria Alliata

Post n°15692 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema
 

Gandalf rise sardonicamente. «Lo vedi? Si sta impadronendo di te, e anche tu, Frodo, già non riesci a sbarazzartene, e non hai più la volontà di distruggerlo. Ed io non ti potrei “costringere”, se non con la forza, cosa che sconvolgerebbe la tua mente. Ma quanto a rompere l’Anello, la forza è del tutto vana. Anche colpendolo con una mazza da fabbro, non lo scalfiresti nemmeno. Le tue mani e le mie mai lo potranno disgregare».
«Questo piccolo fuoco non fonderebbe certo nemmeno l’oro comune. L’Anello, nel bel mezzo di esso, non è stato minimamente danneggiato e non si è nemmeno riscaldato. Ma nessun fabbro e nessuna fucina in tutta la Contea sarebbero in grado di alterarlo. Nemmeno le fornaci e le incudini dei Nani vi riuscirebbero. È stato detto che il fuoco di drago può fondere e consumare gli Anelli del Potere, ma oggidì sulla terra non vi è un solo drago, il cui antico fuoco sia ancora vivo ed intenso a tal punto da riuscirvi; e comunque non è mai esistito un drago, nemmeno Ancalagon il Nero, che potesse danneggiare l’Unico Anello, l’Anello Dominante, poiché era stato forgiato da Sauron in persona».
«C’è una sola strada: trovare la Voragine del Fato, negli abissi dell’Orodruin, la Montagna di Fuoco, e lanciarvi l’Anello, se desideri effettivamente distruggerlo ed impedire per sempre al Nemico di impadronirsene».

[La Compagnia dell’Anello, “L’ombra del passato”
Immagine tratta dalla trilogia cinematografica di Peter Jackson]

Radagast

 
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Editoria: 70% editori verso la cassa integrazione, 21.000 in meno i titoli pubblicati

Post n°15691 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema
 

Il mondo dei libri e dell'editoria italiana ha subito notevoli perdite a causa della pandemia da Coronavirus. I dati, raccolti il 15 aprile, dimostrano come i 2/3 degli editori abbiano programmato la cassa integrazione per superare il periodo di difficoltà e si stimano oltre 21.000 titoli non pubblicati.

Secondo quanto riporta un comunicato stampa dell'AIE, Associazione Italiana Editori, la situazione dell'editoria durante il periodo di emergenza Coronavirus continua a peggiorare.

"Sempre più editori ricorrono alla cassa integrazione, le nuove uscite vengono riprogrammate e cresce il numero di chi si dice preoccupato dalla crisi: l’emergenza sanitaria travolge la filiera del libro secondo l’ultima rilevazione (la terza, riferita ai dati raccolti al 15 aprile) dell’Osservatorio dell’Associazione Italiana Editori (AIE) sull’impatto che il Covid-19 avrà quest’anno sull’intera editoria italiana" si legge nel comunicato stampa di AIE.

"In quindici giorni – dal 30 marzo al 15 aprile – si passa da un 31% che iniziava a farvi ricorso a un 52%. Nel complesso tra chi vi sta già facendo ricorso e chi «non ancora, ma ci sta pensando» (o magari sta espletando la documentazione) dal 64% di fine marzo si passa in quindici giorni al 70% delle imprese" spiega AIE nel comunicato riguardo alle percentuali di editori che fanno ricorso alla cassa integrazione per sopperire alla crisi.

"Per il periodo maggio-agosto la percentuale di chi decide di temporeggiare con le uscite rimandandole ulteriormente sale al 42% (era il 34% il 30 marzo). Si punta in modo particolare sull’ultima parte dell’anno: solo l’8% degli editori, in calo rispetto alle precedenti rilevazioni (era il 13% il 30 marzo), immagina di rinviare i titoli di settembre-dicembre, sperando in un recupero natalizio. Ad oggi, anche se si concretizzerà il recupero, questo si tradurrà in 21mila titoli pubblicati in meno nel corso dell’intero anno, 12.500 novità in uscita bloccate, 44,5 milioni di copie che non saranno stampate e 2.900 titoli in meno da tradurre", afferma AIE, aggiungendo che per ora solo gli ebook riescono a mantenersi attivi attraverso il mercato online.

Nel frattempo, dal 14 aprile, numerose librerie, cartolibrerie e negozi di abbigliamento per bambini sono stati riaperti secondo il DPCM del 10 aprile con le dovute misure di sicurezza, anche se non su tutto il territorio italiano. La riapertura di queste attività è infatti proseguita in modo diverso in base alle varie regioni.

 
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La lista di libri raccomandati dal presidente cinese Xi Jinping diventa virale sui social da antidiplomatico

Post n°15690 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema
 

La lista di libri raccomandati dal presidente cinese Xi Jinping diventa virale sui social
 
 

Una lunga lista di libri raccomandati dal presidente cinese Xi Jinping è diventata virale sui social media cinesi giovedì, Giornata mondiale del libro. Molti netizen hanno gradito, condiviso e commentato l’elenco diffuso dal presidente cinese, affermando che Xi e i libri li hanno ispirati.

 

 

L'elenco di libri, pubblicato dal People's Daily sulla sua app mobile è il risultato di un riassunto di precedenti articoli comparsi su People's Daily, China Central Television e Xinhua News Agency, in cui Xi ha menzionato o citato i libri in relazioni pubbliche o in suoi discorsi passati. 

 

In cima alla lista ci sono opere classiche del marxismo-leninismo come il Manifesto del Partito Comunista e Imperialismo fase suprema del capitalismo di Lenin.  Xi ha affermato che il Manifesto è uno scrigno di ricche teorie ed è degno di ripetuti apprendimenti e approfonditi studi da cui attingere l'alimentazione ideologica.

 

In termini filosofici e di giurisprudenza, Xi ha commentato Origine e Senso della Storia, dicendo che il motivo per cui la nazione cinese ha goduto dello status significativo e dell'influenza dai tempi antichi a quelli moderni è dovuto al forte fascino della cultura cinese piuttosto che alla pratica di potenza militare ed espansione in terre straniere.

 

Stories to Enlighten the World, Stories to Caution the World e Stories to Awaken the World sono alcuni dei classici cinesi che Xi ha detto di aver letto ogni giorno per un certo periodo di tempo, nella misura in cui poteva recitare molti degli epigrammi in essi contenuti.

 

Xi è anche lettore delle opere della moderna letteratura cinese, come quelle di Jia Dashan. Xi ha reso noto di aver letto diversi romanzi di Jia, ed è rimasto spesso colpito dal suo linguaggio umoristico, dalle analisi filosofiche, dalle rappresentazioni belle e veritiere e dalle trame sottili e uniche.

 

Xi legge anche molti classici stranieri, tra cui i drammi di Shakespeare. Ha detto di essere attratto dagli alti e bassi delle trame, dai personaggi vividi e dalle emozioni toccanti rivelate nelle opere teatrali.

 

Xi ha affermato che quando era giovane e lavorava nella povera terra gialla del nord dello Shaanxi, continuava a pensare alla domanda "Essere o non essere" e alla fine decise di dedicarsi alla madrepatria e alla gente.

 

Molti altri libri di generi diversi, tra cui classici, opere moderne, cinesi e straniere, sono inclusi nell'elenco.

 

La lista di libri, pubblicata anche sull'account WeChat del People's Daily, ha ottenuto oltre 100.000 visualizzazioni.

 

"Al presidente Xi piace leggere e imparare. È una fonte d'ispirazione per noi!" si legge un commento tipico sotto l'elenco dei libri, apprezzato oltre 13.000 volte fino a questo momento.

 

"Non ne ho letti tanti, ma ne ho letti uno o due in ciascun genere”. "Ho aggiunto questo elenco di libri al mio preferito e inizierò a leggere dai classici cinesi”. "Spero che non sia troppo tardi per iniziare a leggere ora", hanno detto molti netizen.

 

Altri utenti hanno condiviso esperienze di lettura simili. 

 

Un'altra delle liste di libri di Xi riassunte giovedì da cpcnews.cn, il sito web di notizie del Partito Comunista Cinese, ha spiegato che Xi legge da quando era giovane, e ha sottolineato che i funzionari del governo devono leggere libri.

 

Il sito Web ha anche classificato i libri in base al paese di origine e ha dimostrato che Xi ha letto molti libri non solo dalla Cina, ma anche da Stati Uniti, Russia, Francia, Regno Unito, Germania, Italia, India e Grecia antica.


Fonte: Global Times
Notizia del: 23/04/2020
Notizia del: 23/04/2020

 
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Calamandrei e la resistenza

Post n°15689 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

"Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra costituzione." Piero Calamandrei

 
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Antonio Gramsci - Scrtti giovanili

Post n°15688 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

Antonio Gramsci - Indifferenti

“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.

L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?

Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.

Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.

11 febbraio 1917 (Scritti giovanili)

 
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Sandro Pertini 25 aprile 1945

Post n°15687 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

"Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l'occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire."

 
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I ribelli della montagna

Post n°15686 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

(Sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti. Antonio Gramsci, Scritti Giovanili.
Sono Pinotti Avio nome di battaglia ATOS)

Dalle belle città date al nemico
fuggiammo via su per le aride montagne
cercando libertà tra rupe a rupe
contro la schiavitù del suol tradito

lasciammo case, scuole ed officine
mutammo in caserme le vecchie cascine
armammo le mani di bombe e mitraglia
temprammo cuori e muscoli in battaglia

Siamo i ribelli della montagna
viviam di stenti e di patimenti
ma quella fede che ci accompagna
sarà la legge dell'avvenir

Siamo i ribelli della montagna
viviam di stenti e di patimenti
ma quella legge che ci accompagna
sarà la fede dell'avvenir

La giustizia è la nostra disciplina
libertà è l'idea che ci avvicina
rosso sangue è il color della bandiera
partigiani dalla folta ardente schiera

SUlle strade dal nemico assediate
lasciammo talvolta le carni straziate
sentimmo l'ardore per la grande riscossa
sentimmo l'amor per patria nostra

Siamo i ribelli della montagna
viviam di stenti e di patimenti
ma quella fede che ci accompagna
sarà la legge dell'avvenir

Siamo i ribelli della montagna
viviam di stenti e di patimenti
ma quella legge che ci accompagna
sarà la fede dell'avvenir

Siamo i ribelli della montagna
viviam di stenti e di patimenti
ma quella fede che ci accompagna
sarà la legge dell'avvenir

Siamo i ribelli della montagna
viviam di stenti e di patimenti
ma quella legge che ci accompagna
sarà la fede dell'avvenir

Siamo i ribelli della montagna
viviam di stenti e di patimenti
ma quella fede che ci accompagna
sarà la legge dell'avvenir

(Io raccomando a voi che siete studenti
quando raggiungete un posto di responsabilitànella società
fate in modo di lavorare per la pace)

 
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Bella ciao

Post n°15685 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

Una mattina mi sono alzato
o bella ciao bella ciao
bella ciao ciao ciao
una mattina mi sono alzato
e ci ho trovato l'invasor.

O partigiano, portami via
o bella ciao bella ciao
bella ciao ciao ciao
o partigiano, portami via
che mi sento di morir.

E se muoio da partigiano
o bella ciao bella ciao
bella ciao ciao ciao
e se muoio da partigiano
tu mi devi seppellir.

Seppellire lassù in montagna
o bella ciao bella ciao
bella ciao ciao ciao
seppellire lassù in montagna
sotto l"ombra di un bel fior.

E le genti che passeranno
o bella ciao bella ciao
bella ciao ciao ciao
e le genti che passeranno
e diranno: o che bel fior!.

E" questo il fiore del partigiano
o bella ciao bella ciao
bella ciao ciao ciao
è questo il fiore del partigiano
morto per la libertà

 
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Calvino e la resistenza

Post n°15684 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

Non sapeva cosa avrebbe voluto: capiva solo quant'era distante, lui come tutti, dal vivere come va vissuto quello che cercava di vivere.
ITALO CALVINO

 
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Paolo Secchia e la resistenza

Post n°15683 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

L'origine di classe del fascismo fu chiara dall'inizio. Le squadracce in camicia nera reagivano agli scioperi dei lavoratori con le armi e i manganelli, rispondevano con il terrore e le stragi alle lotte degli operai e dei contadini. Tra gli applausi dei capitalisti e della monarchia, il fascismo realizzò la sua ascesa con l'unica opposizione del movimento operaio e fu la dittatura feroce e reazionaria del grande capitale monopolistico.

Il fascismo vide fin da subito nella classe operaia il suo principale nemico e fu proprio grazie ad essa che fu sconfitto: dagli scioperi del marzo del 1943 che coinvolsero oltre 100.000 lavoratori nel Nord Italia, ai sabotaggi alla produzione bellica nazifascista, alle brigate partigiane in montagna e nelle città, la classe operaia si pose alla testa del movimento di liberazione, incarnando le aspirazioni più profonde di rinnovamento sociale del popolo italiano.

La Resistenza partigiana fu anche una lotta per costruire una società diversa e porre fine alla guerra e allo sfruttamento, che aveva visto nel fascismo il suo rappresentante più feroce.

 
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