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No al revisionismo sulle foibe

Post n°2560 pubblicato il 11 Febbraio 2009 da Antalb
 


Se il «giorno del ricordo» - istituito per dare degno posto, nella storia e nella memoria degli italiani, alla spaventosa tragedia delle foibe - diventa un ennesimo giorno dell’antifascismo, non vale la pena di celebrarlo. Ho grandissimo rispetto per i valori dell’antifascismo: già esaltati giustamente e solennemente il 25 aprile, il primo maggio, nell’anniversario delle Fosse Ardeatine, nell’anniversario dell’assassinio di Giacomo Matteotti e altre volte ancora. Lapidi e commemorazioni costellano l’Italia. Benissimo.


Ma la memoria di cui ai discorsi di ieri deve essere un omaggio e in qualche modo un risarcimento morale, dopo decenni d’oblio e di noncuranza, a coloro che delle foibe furono vittime, e alle loro famiglie. Si eviti allora d’abbinare il ricordo dei morti all’immancabile e ormai un po’ stucchevole insistenza sulle colpe di Mussolini per avere precipitato dissennatamente l’Italia nella seconda guerra mondiale.
Fatta eccezione per gruppi di fanatici, quelle colpe sono ormai riconosciute. Non c’è più bisogno di sottolinearle: se ne occupano ogni giorno la stampa, la televisione, saggisti, politici. Nessun negazionismo - se non in tipi strani come il vescovo Williamson - per le efferatezze hitleriane e per le responsabilità mussoliniane. Il negazionismo c’è invece stato, e in parte rimane, per le stragi e le brutalità perpetrate contro i giuliani e i dalmati (e anche per l’esodo spaventoso delle popolazioni tedesche dai territori passati sotto dominio sovietico). «Il giorno del ricordo - ha detto il presidente Napolitano nel suo discorso, peraltro molto nobile - non ha nulla a che vedere col revisionismo storico, col revanscismo, col nazionalismo».


Mi permetto rispettosamente di obbiettare. Ha a che vedere col revisionismo perché la storia di quel periodo è stata a lungo improntata a un conformismo di sinistra, è stata modellata secondo i canoni d’un «politicamente corretto» che più o meno assimilava i profughi istriani a sgherri in orbace. Il Capo dello Stato sa sicuramente che ai poveri fuggiaschi ammassati in un treno venne negato in piena estate, dai ferrovieri comunisti d’una stazione emiliana, anche un po’ d’acqua. Di revisionismo c’era dunque bisogno, ed è buon segno che quasi tutti se ne siano fatta una ragione. Stabilito che le foibe furono un orrore, e il trattamento subito dai profughi una vergogna, non c’è bisogno a mio avviso d’affiancare a questo riconoscimento, per renderlo accettabile, il rituale anatema contro il Ventennio.


on sono tra coloro che indulgono alla retorica degli italiani buoni. Durante l’occupazione della ex Jugoslavia sono state ordinate ed eseguite dure rappresaglie. Quando è il caso, se ne deve seriamente discutere. Evitando tuttavia un ping pong polemico, alacremente praticato, secondo il quale ogni rievocazione di nefandezze comuniste deve avere un contrappeso in camicia nera. Una cosa per volta. Senza iattanze ma anche senza complessi d’inferiorità, e senza veli pietosi. Vogliamo o no rammentare che i boia delle foibe ebbero aiuto e incoraggiamento da elementi comunisti di Trieste che spasimavano per l’annessione della città e del suo territorio alla Jugoslavia di Tito, non ancora dissociatosi da Mosca? Se piacciono questi acri amarcord, pratichiamoli pure. Ma non si finirebbe più.



Se il «giorno del ricordo» - istituito per dare degno posto, nella storia e nella memoria degli italiani, alla spaventosa tragedia delle foibe - diventa un ennesimo giorno dell’antifascismo, non vale la pena di celebrarlo. Ho grandissimo rispetto per i valori dell’antifascismo: già esaltati giustamente e solennemente il 25 aprile, il primo maggio, nell’anniversario delle Fosse Ardeatine, nell’anniversario dell’assassinio di Giacomo Matteotti e altre volte ancora. Lapidi e commemorazioni costellano l’Italia. Benissimo.


Ma la memoria di cui ai discorsi di ieri deve essere un omaggio e in qualche modo un risarcimento morale, dopo decenni d’oblio e di noncuranza, a coloro che delle foibe furono vittime, e alle loro famiglie. Si eviti allora d’abbinare il ricordo dei morti all’immancabile e ormai un po’ stucchevole insistenza sulle colpe di Mussolini per avere precipitato dissennatamente l’Italia nella seconda guerra mondiale.
Fatta eccezione per gruppi di fanatici, quelle colpe sono ormai riconosciute. Non c’è più bisogno di sottolinearle: se ne occupano ogni giorno la stampa, la televisione, saggisti, politici. Nessun negazionismo - se non in tipi strani come il vescovo Williamson - per le efferatezze hitleriane e per le responsabilità mussoliniane. Il negazionismo c’è invece stato, e in parte rimane, per le stragi e le brutalità perpetrate contro i giuliani e i dalmati (e anche per l’esodo spaventoso delle popolazioni tedesche dai territori passati sotto dominio sovietico). «Il giorno del ricordo - ha detto il presidente Napolitano nel suo discorso, peraltro molto nobile - non ha nulla a che vedere col revisionismo storico, col revanscismo, col nazionalismo».


Mi permetto rispettosamente di obbiettare. Ha a che vedere col revisionismo perché la storia di quel periodo è stata a lungo improntata a un conformismo di sinistra, è stata modellata secondo i canoni d’un «politicamente corretto» che più o meno assimilava i profughi istriani a sgherri in orbace. Il Capo dello Stato sa sicuramente che ai poveri fuggiaschi ammassati in un treno venne negato in piena estate, dai ferrovieri comunisti d’una stazione emiliana, anche un po’ d’acqua. Di revisionismo c’era dunque bisogno, ed è buon segno che quasi tutti se ne siano fatta una ragione. Stabilito che le foibe furono un orrore, e il trattamento subito dai profughi una vergogna, non c’è bisogno a mio avviso d’affiancare a questo riconoscimento, per renderlo accettabile, il rituale anatema contro il Ventennio.


on sono tra coloro che indulgono alla retorica degli italiani buoni. Durante l’occupazione della ex Jugoslavia sono state ordinate ed eseguite dure rappresaglie. Quando è il caso, se ne deve seriamente discutere. Evitando tuttavia un ping pong polemico, alacremente praticato, secondo il quale ogni rievocazione di nefandezze comuniste deve avere un contrappeso in camicia nera. Una cosa per volta. Senza iattanze ma anche senza complessi d’inferiorità, e senza veli pietosi. Vogliamo o no rammentare che i boia delle foibe ebbero aiuto e incoraggiamento da elementi comunisti di Trieste che spasimavano per l’annessione della città e del suo territorio alla Jugoslavia di Tito, non ancora dissociatosi da Mosca? Se piacciono questi acri amarcord, pratichiamoli pure. Ma non si finirebbe più.



Se il «giorno del ricordo» - istituito per dare degno posto, nella storia e nella memoria degli italiani, alla spaventosa tragedia delle foibe - diventa un ennesimo giorno dell’antifascismo, non vale la pena di celebrarlo. Ho grandissimo rispetto per i valori dell’antifascismo: già esaltati giustamente e solennemente il 25 aprile, il primo maggio, nell’anniversario delle Fosse Ardeatine, nell’anniversario dell’assassinio di Giacomo Matteotti e altre volte ancora. Lapidi e commemorazioni costellano l’Italia. Benissimo.


Ma la memoria di cui ai discorsi di ieri deve essere un omaggio e in qualche modo un risarcimento morale, dopo decenni d’oblio e di noncuranza, a coloro che delle foibe furono vittime, e alle loro famiglie. Si eviti allora d’abbinare il ricordo dei morti all’immancabile e ormai un po’ stucchevole insistenza sulle colpe di Mussolini per avere precipitato dissennatamente l’Italia nella seconda guerra mondiale.
Fatta eccezione per gruppi di fanatici, quelle colpe sono ormai riconosciute. Non c’è più bisogno di sottolinearle: se ne occupano ogni giorno la stampa, la televisione, saggisti, politici. Nessun negazionismo - se non in tipi strani come il vescovo Williamson - per le efferatezze hitleriane e per le responsabilità mussoliniane. Il negazionismo c’è invece stato, e in parte rimane, per le stragi e le brutalità perpetrate contro i giuliani e i dalmati (e anche per l’esodo spaventoso delle popolazioni tedesche dai territori passati sotto dominio sovietico). «Il giorno del ricordo - ha detto il presidente Napolitano nel suo discorso, peraltro molto nobile - non ha nulla a che vedere col revisionismo storico, col revanscismo, col nazionalismo».


Mi permetto rispettosamente di obbiettare. Ha a che vedere col revisionismo perché la storia di quel periodo è stata a lungo improntata a un conformismo di sinistra, è stata modellata secondo i canoni d’un «politicamente corretto» che più o meno assimilava i profughi istriani a sgherri in orbace. Il Capo dello Stato sa sicuramente che ai poveri fuggiaschi ammassati in un treno venne negato in piena estate, dai ferrovieri comunisti d’una stazione emiliana, anche un po’ d’acqua. Di revisionismo c’era dunque bisogno, ed è buon segno che quasi tutti se ne siano fatta una ragione. Stabilito che le foibe furono un orrore, e il trattamento subito dai profughi una vergogna, non c’è bisogno a mio avviso d’affiancare a questo riconoscimento, per renderlo accettabile, il rituale anatema contro il Ventennio.


on sono tra coloro che indulgono alla retorica degli italiani buoni. Durante l’occupazione della ex Jugoslavia sono state ordinate ed eseguite dure rappresaglie. Quando è il caso, se ne deve seriamente discutere. Evitando tuttavia un ping pong polemico, alacremente praticato, secondo il quale ogni rievocazione di nefandezze comuniste deve avere un contrappeso in camicia nera. Una cosa per volta. Senza iattanze ma anche senza complessi d’inferiorità, e senza veli pietosi. Vogliamo o no rammentare che i boia delle foibe ebbero aiuto e incoraggiamento da elementi comunisti di Trieste che spasimavano per l’annessione della città e del suo territorio alla Jugoslavia di Tito, non ancora dissociatosi da Mosca? Se piacciono questi acri amarcord, pratichiamoli pure. Ma non si finirebbe più.




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