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Confronto tra i giovani e la politica

TRIONFO E FESTA AL SENATO

 
 

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Allarme sicurezza: le ronde? Tutti le vogliono (ma non si può dire)

Post n°2569 pubblicato il 19 Febbraio 2009 da Antalb
 

Siccome le ronde sono considerate una cosa «di destra», mi permetto di dare alla destra un piccolo suggerimento: impari dalla sinistra, o meglio da uno di quei prodotti del progressismo internazionale che è il cosiddetto politically correct. Impari dunque dal politically correct, e faccia un’operazione molto semplice: cambi nome. Invece di chiamarle «ronde», le chiami in un altro modo. Con un termine più soft, più rassicurante.

Il termine «ronda», benché di destra, suona infatti un po’ sinistro. Lo Zingarelli così lo definisce: «Servizio armato svolto da più militari al comando di un graduato, a scopo di vigilanza mobile, spec. notturna». Il vocabolario on line di Sapere.it non dà una definizione molto diversa: «Servizio d’ispezione al quale sono comandati due soldati di truppa e un graduato, armati di pistola, per il controllo dei militari in libera uscita».

È vero che il vocabolo può essere utilizzato anche per altri significati. Sempre lo Zingarelli, infatti, considera pure la un po’ meno militaresca interpretazione di «fare la ronda a un luogo», che sta per «sorvegliarlo». E addirittura contempla questa possibilità d’uso: «Fare la ronda a una donna: corteggiarla». Però adesso stiamo parlando di ronde anti-criminalità, anti-spacciatori, anti-stupri, insomma un qualcosa che ha a che fare con l’ordine pubblico, ecco perché l’ipotesi di una ronda organizzata dai cittadini inquieta: si pensa subito a tabaccai, gioiellieri, inquilini di villette a schiera che girano «armati di pistola» come dice il vocabolario, e se poi il «graduato» ha la faccia di Calderoli, ecco che si grida subito al rischio-razzismo.

È curioso che in una società in cui si è ormai da tempo esorcizzato ogni male, ogni pericolo e in genere ogni cosa sgradevole con neologismi o addirittura con sigle che attenuano o nascondono il vero significato, non si sia ancora trovato un morbido sinonimo di «ronda». Sono anni che non muore più nessuno (ci si spegne; ci si congeda; si dà l’addio) e anche che nessuno soffre più di gravi handicap (succede invece di essere diversamente abili); sono scomparsi i moribondi, sostituiti dai «malati terminali», e perfino i ciccioni, ora «persone di taglia importante»; in guerra le vittime sono «effetti collaterali»; le aziende non licenziano più ma «mettono in mobilità», la galera è una «custodia cautelare», l’aborto una «ivg», la fecondazione artificiale una «fivet».

L’inglesorum tanto in voga presso noi italiani ha dato una mano considerevole: le angherie del capoufficio sono diventate «mobbing», i corteggiamenti ossessivi e molesti «stalking». C’è perfino il «bossing» (ammetto di averlo scoperto solo oggi): è una sorta di «mobbing strategico», lo attua il datore di lavoro per indurre un dipendente a dimettersi.

Eppure, in questa gattopardesca società che nel linguaggio ha cambiato tutto affinché tutto restasse come prima, non s’è ancora trovato un termine che riesca a far digerire le ronde. Credo che, una volta trovata la parola magica, anche la sinistra e gli intellettuali perbene non muoveranno più obiezioni. Ormai anche il mondo progressista ha capito che il problema della sicurezza non può essere non dico risolto, ma neppure affrontato senza la collaborazione dei cittadini. Lunedì, saputo dei vari progetti sulle ronde all’esame del governo, l’opposizione ha detto: basta con gli spot, ci vogliono più uomini e mezzi. Ma i politici sono sempre indietro di un giro. È chiaro a chiunque che il vero spot è quello con cui si invoca un aumento di uomini e mezzi per le forze dell’ordine. Primo perché le risorse sono quelle che sono. Secondo perché anche potendo spendere miliardi di euro, è impensabile che polizia e carabinieri possano presidiare notte e giorno strade e viuzze di città e di paesi.

I politici sono indietro di un giro, dicevo: lunedì perfino Michele Serra, su Repubblica, ha scritto che è ora di capire che una «partecipazione popolare» può e anzi deve essere determinante contro la criminalità. Molti Comuni anche di sinistra hanno addestrato e arruolato cittadini che non hanno alcun prurito alle mani, né aspirazioni da Rambo dei poveri: ma che, spesso da bravi volontari, presidiano le scuole o i giardinetti dove girano mamme con le carrozzine. È un esempio da seguire. Basta solo che il governo trovi un nome perbene, tipo «ausiliari dei diversamente regolari», e passeranno perfino le ronde anti-clandestini.

 
 
 

Anche le toghe usino il pugno di ferro

Post n°2568 pubblicato il 18 Febbraio 2009 da Antalb
 

È apprezzabile lo scatto di reni del governo che si è detto pronto a varare un decreto per escludere dalle alternative buoniste al carcere chi ha commesso il reato di stupro. Non essendo questo il momento da farsi venire pruriti politicamente corretti, buona anche l’idea, riproposta dalla Lega, della castrazione chimica riservata a quei soggetti. Encomiabile, poi, la volontà espressa sia dalla destra come dalla sinistra di affrontare di petto il problema della sicurezza (fino a ieri negato dai «sinceri democratici») e in particolare di mettere un termine alla catena di violenze sessuali. Un bel passo avanti considerando che nelle scorse settimane nugoli di progressisti e di esponenti della sedicente società civile ai quali si unì una processione di preti frignoni e belanti si strappavano i capelli alla sola ipotesi che un medico avesse il dovere di segnalare l’eventuale condizione di clandestinità (che è un reato) di un loro paziente. Perché, poverini, i clandestini già hanno lungamente sofferto la fame e la sete nelle quarantott’ore di navigazione dalle coste africane, già son stati tanto stretti a bordo delle imbarcazioni, già hanno avuto l’umiliazione di non essere accolti al suono della fanfara e ci manca altro che dopo essersi fatti ricucire gli sbreghi e medicare altri danni provocati da qualche rissa fra compari, il medico li segnali agli sbirri. Stando così le cose, sarebbe anche doveroso dar coralmente atto a Roberto Maroni d’aver prima d’ogni altro esposto la questione nei suoi giusti termini: è ora di finirla col buonismo. È ora di mostrarsi e di agire da cattivi e «affermare - sono le parole del ministro - il rigore della legge». Però il punto è lì, nella legge, o meglio in coloro che sono chiamati ad applicarla. «Fatta la legge, trovato l’inganno» è uno dei modi di dire più popolari, e non senza ragione. Se poi a dover trovare l’inganno è - per spirito umanitario, ben inteso, per solidarietà d’animo e di cuore, per fratellanza universale e tante altre belle cose ancora - un magistrato, ci si mette niente. Se a un clandestino recidivo e spacciatore di eroina come quella bestia di Jamel Moamid, un magistrato ha potuto concedere la libertà (di violentare una ragazzina a Bologna, a conti fatti) avendo escluso il pericolo che potesse tornare a delinquere, che potesse reiterare il reato e di clandestinità e di spaccio, si ha un bel voler riaffermare i rigori della legge. Perché un cavillo, una scappatoia o un inguacchio il buonista togato ci mette niente a trovarlo. Per dire come sia vasta la prateria dell’inganno, è sufficiente ricordare che da noi saltano i processi perché su qualche atto è stato apposto un timbro con tampone di gomma e non, come da norma, di ferro. Altro che vasta, sterminata. Vengano dunque le nuove e più intransigenti leggi, venga anche la castrazione chimica e perfino la palla assicurata con una catena alla caviglia, ma se non cambia l’aria che circola in certi tribunali e Procure, sarà tutto inutile. Perché è lì, nei tribunali, che si infligge la pena, che la si rende esecutiva. E se a bontà di una legge si infrange contro il muro delle toghe, i guai che ne derivano sono superiori ai benefici che avrebbe apportato se correttamente applicata. Il furore della madre della ragazza violentata nel parco romano della Caffarella, «Voglio subito giustizia se no me la faccio da sola» - e per quella donna giustizia significa una cosa sola: galera - è il furore di una maggioranza per ora ancora silenziosa, ma che se esasperata può farsi sentire in modo tumultuoso. Ed è bene tenerne conto.

 
 
 

I giudici liberano un clandestino e lui stupra una quindicenne: la chimera dell'espulsione

Post n°2567 pubblicato il 18 Febbraio 2009 da Antalb
 

Il tunisino che a Bologna è stato arrestato per lo stupro d’una ragazza quindicenne era arrivato in Italia, clandestinamente, nell’aprile dello scorso anno. In agosto era finito dentro (ma presto rimesso fuori) per violazione della legge sull’immigrazione, il 7 agosto era stato ricatturato per spaccio di droga, il 15 gennaio il Tribunale della libertà gli aveva ridato la medesima ritenendo che nel suo caso non ricorresse né l’eventualità del pericolo di fuga né quella di reiterazione del reato... A nessuna delle due scarcerazioni era seguita - come avrebbe dovuto essere, e come infinite volte è stato promesso agli italiani che sarebbe stato - l’espulsione. Ha continuato a circolare per le strade d’un Paese che - non lo ha detto Borghezio, lo ha detto un romeno residente in Italia - «è considerato all’estero un’isola felice per chiunque abbia voglia di delinquere».

Nel commentare questo episodio e la situazione che esso rivela, o piuttosto conferma, sarò forse ripetitivo. Ma voglio evitare la politica politicante. Esistono indubbiamente settori della magistratura che tengono la politica in gran conto e che, come scriveva Filippo Facci, creano corsie preferenziali per le assoluzioni di Antonio Di Pietro. Senonché il maggiore scandalo non sta tanto in quella sollecitudine sospetta quanto negli innumerevoli e non intenzionali casi di lentezza e inefficienza: addebitabili sì alla giustizia, ma anche all’amministrazione italiana nel suo complesso. Ritenuta fallimentare dall’uomo della strada e ritenuta fallimentare da organismi di controllo che mi pare predichino molto e controllino poco.

Abbiamo una moltitudine di leggi senza pari nel mondo: con il vizietto d’una inutilità da fare invidia alle gride manzoniane. Abbiamo pene severe, con il vizietto della non espiazione. Abbiamo misure di rigore contro i clandestini, con il vizietto della non applicazione. Quando poi i vizietti deflagrano, arrivano spiegazioni non convincenti, e promesse che lo sono ancora meno. I cittadini pongono interrogativi banali: e desidererebbero risposte magari altrettanto banali, ma davvero rassicuranti. Ecco l’interrogativo suscitato dal fattaccio di Bologna. Come si può ottenere, hic et nunc, non in una visione futuribile dello Stato e della società italiana, che un clandestino e spacciatore come Jamel Moamid sia restituito alla Tunisia prima d’aggiungere al suo palmarés criminale anche lo stupro?

 
 
 

Giustizia veloce solo per salvare Di Pietro: i privilegiati del Toga Express

Post n°2566 pubblicato il 15 Febbraio 2009 da Antalb
 


Non rompete, la Giustizia italiana funziona benissimo. Sono passati 13 giorni da quando Antonio Di Pietro è stato denunciato per offesa al Capo dello Stato: e venerdì è stato scagionato. Tredici giorni affinché il pm Giancarlo Amato compisse «una lettura attenta» e archiviasse con un fiume di motivazioni. Questo alla Procura di Roma, dipinta come ingolfatissima: solito vittimismo, propaganda. Raccontano che i processi, in Italia, durino più che in ogni altro Paese europeo: minimo cinque anni per un penale, da otto a trenta per una qualsiasi causa civile, sette anni e mezzo per un divorzio, quattro anni per un’esecuzione immobiliare. Dati chiaramente falsi.


Non è vero che a Milano, come racconta Luigi Ferrarella nel suo «Fine pena mai» (il Saggiatore), un processo per usura vada in primo grado in sette anni. Di Pietro dimostrò che la Giustizia è celerrima già da Mani pulite, quando alcuni personaggi (solo alcuni, peccato) giunsero al terzo grado di giudizio in solo tre anni. E lo dimostrò quando cominciò a querelare: un’intervista contro di lui, uscita su Repubblica il 5 febbraio 1997, andò a giudizio in meno di due mesi, il 3 aprile successivo. E che la Giustizia non perda tempo lo dimostrò anche a Brescia, quando evitò ogni processo a suo danno (prestiti, Mercedes, case eccetera) incassando una serie di «non luoghi a procedere» che per qualsiasi altro cittadino, dissero i malevoli con le statistiche in mano, si sarebbero tradotti in automatici rinvii a giudizio. Lui se la cavò in sei ore.


Quindi dev’essere falso che a Strasburgo il nostro Paese batta chiunque per condanne legate alla durata dei processi: dieci volte più della Francia e cinquanta volte più della Gran Bretagna. In realtà è veloce e persino discreta, la nostra Giustizia: come quando a Napoli, per interrogare Di Pietro nel gennaio scorso, fecero allontanare giornalisti e fotografi grazie a una disposizione ad horas del procuratore generale. Intanto, ecco: nel Milanese un’ucraina di 23 anni è stata seviziata, semi-violentata e poi scaraventata dal sesto piano; ora lei vive sulla sedia a rotelle e il branco che l’ha resa invalida è stato riconosciuto e denunciato, perché sono connazionali che vivono ancora tutti lì vicino a lei, indisturbati. A sette mesi dal tentato omicidio, dicono, la Procura non ha ancora mosso un dito. Un misero volo dalla finestra può aspettare: era un’ucraina, mica un anarchico.


 
 
 

La Cgil va in piazza. Gli italiani lavorano.

Post n°2565 pubblicato il 15 Febbraio 2009 da Antalb
 


La manifestazione cigiellina di venerdì a piazza San Giovanni è stata una consistente sfilata antagonistica con i pensionati di sicura fede portati in pullman e in treno da tutta Italia, con gli studenti dell’Onda ripescati per l’occasione, con reduci  di Rifondazione, Pdci, Verdi, del dalemismo in salsa bersaniana che spintonano per farsi vedere alla ricerca di voti (congressuali nel caso del Pd). Il vecchio apparato di Fiom e Funzione pubblica-Cgil ha fatto il suo lavoro, non è ancora come quello veltroniano non più in grado di riempire una piazza per Oscar Luigi Scalfaro.


È netto però il fallimento sindacale: terribile quello nella pubblica amministrazione, sotto il 9 per cento, sotto i risultati pessimi del 12 dicembre. Forte lo smacco nelle fabbriche meccaniche. Quando la Fiom dice che a Mirafiori ha scioperato il 50 per cento (di solito non spara mai meno dell’80) le cose devono essere andate proprio male. D’altra parte i lavoratori dello Stato hanno firmato un buon accordo senza la Cgil, che non tenta neanche, di fatto, di metterlo in discussione. La Fiom si mobilita contro un accordo nazionale sulla contrattazione, firmato praticamente da tutti (compresa la Lega delle cooperative) tranne che dalla Cgil, senza alcuna proposta alternativa tranne farfugliamenti estremistici su un governo che abolisce democrazia e diritto di sciopero. Parole che possono trovare ascolto in qualche centro sociale non tra chi vive del proprio lavoro. Un certo spazio per proteste antagonistiche in una fase così acuta di crisi c’è e resterà, e va affrontato con il dialogo verso i settori sindacali e politici con senso di responsabilità.


Anche se non è facile interloquire con «democratici» che un giorno propongono di rimettere in discussione l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori e le pensioni delle lavoratrici, e il giorno dopo sfilano contro il governo della fame e della repressione. Walter Veltroni, che sorprende sempre per la vaghezza di fondo, si chiede perché non si possa fare scioperi generali all’altezza di quelli francesi. A Parigi ma anche in Germania, le manifestazioni più rilevanti hanno avuto come protagonisti i pubblici dipendenti, trascurati e in qualche modo male informati dai governi. In Italia la maggioranza di centrodestra ha iniziato sin dalla campagna elettorale a ragionare sulla gravità della crisi e con i pubblici dipendenti ha dialogato, nello stile franco di Renato Brunetta, chiedendo rigore ma garantendo il merito, e ha siglato un ottimo contratto, che risulta ancora migliore dopo il forte calo dell’inflazione. La forza del governo è stata la verità: la verità nel raccontare le difficoltà senza stupidate su tesoretti nascosti, la verità su un deficit dello Stato che non consente forzature pena il default dei titoli pubblici, la verità nel passo dopo passo nel metter insieme provvedimenti concreti (social card, ampliamento degli ammortizzatori, rete di sicurezza per le banche nettamente meno costosa di quelle approntate all’estero, aiuti non protezionistici ad auto ed elettrodomestici), la verità nell’avvertire di una crisi dalle caratteristiche non ancora definite che dunque va affrontata con pragmatismo.


Di fronte a questo atteggiamento, c’è lo sbandamento della Cgil che non sa letteralmente che cosa vuole (a parte fantasiosi piani di spesa da affrontare con più tasse) con un povero Guglielmo Epifani che piange sul Manifesto perché non potrò andare a Strasburgo (e sordianamente dice: a me m’ha rovinato la crisi).


 
 
 

La Costituzione non sono loro. Per fortuna: un fallimento da primato, anzi, da Oscar

Post n°2564 pubblicato il 13 Febbraio 2009 da Antalb
 

Dicono: «La Costituzione siamo noi». Se fosse vero, ecco un’ottima ragione per cambiarla. La nostra Costituzione, infatti, per quanto malmessa, non può ridursi al sermone di Oscar Luigi Scalfaro e a un numero di manifestanti da riunione condominiale. La Costituzione non può ridursi ai silenzi di Walter che riescono a essere persino meno intelligenti delle sue parole e a quello sparuto gruppo di colonnelli dipietristi, ieri senza Di Pietro e senza truppe, cioè senza capo né coda. La Costituzione non può ridursi a due bandiere di partito e al palco messo in mezzo alla piazzetta per mascherare i vuoti enormi come i pensieri di Veltroni. La Costituzione non può essere un girotondo attorno al moralista da 100 milioni al mese e arrivederci a domani, tutti a manifestare con la Cgil. E non preoccupatevi se non sapete perché.

Il torto più grande che si può fare alla Costituzione è proprio questo: appiccicarle un’etichetta di partito. Anzi, di più: un’etichettina di partitino. Il torto più grande che si può fare alla Costituzione l’hanno fatto loro, i sedicenti paladini della Costituzione: hanno usato la Carta solenne come se fosse il Mocio Vileda capace di assorbire gli spurghi del Pd. Hanno levato la bandiera della difesa delle istituzioni (ma difesa da che?) per avere un argomento, almeno uno, su cui trovarsi insieme senza mettersi le dita negli occhi. Patetico tentativo. Le divisioni restano, le idee latitano. E ai fallimenti di Veltroni, ora si deve aggiungere pure questo. Un fiasco da Oscar.

Lo spettacolo mostrato ieri, in effetti, è malinconico. Walter, un uomo solo e nemmeno al comando, porta a termine il rinnovamento del partito affidandosi a Scalfaro, 90 anni compiuti. L’ex presidente della Repubblica si presta a fare il pennacchio del rispetto delle istituzioni, lui che bistrattò le istituzioni più di ogni altro, Sismi compreso. E Di Pietro, che l’altro giorno in piazza aveva dato al capo dello Stato del «mafioso», ora vorrebbe tornare in piazza per difendere il capo dello Stato (da chi? da chi gli dà del «mafioso»?), ma perde l’aereo e ci lascia con Donadi (tanto, si sa, a caval Donadi non si guarda in bocca). Più che una manifestazione, sembrava «oggi le comiche». Dicono che Napolitano sia piuttosto irritato da questi difensori. Sicuramente sono irritati molti italiani: davvero abbiamo appaltato i simboli della nostra Repubblica a questi Santissimi Apostoli? «La Costituzione siamo noi», titolava ieri l’Unità. Ecco no, per fortuna no. Per fortuna la Costituzione non è ancora ridotta così.

 
 
 

Eluana: chi ha davvero "usato" il suo dramma

Post n°2563 pubblicato il 12 Febbraio 2009 da Antalb
 

Siamo sicuri che l’obiettivo di chi ha spalleggiato Beppino Englaro sia stato quello di «liberare Eluana»? Che sia stato un gesto di pietà?

Una risposta interessante viene da un libro appena uscito che s’intitola «Il caso Eluana Englaro» (editore Pendragon, 244 pagine, 13 euro), scritto da Maurizio Mori, professore di Bioetica all’Università di Torino e presidente della Consulta di bioetica onlus. Il libro ha la prefazione di Beppino Englaro, il quale scrive che proprio grazie a Mori lui e la moglie hanno potuto «trovare un senso agli eventi che si succedevano». Che non si tratti di un testo medico, lo dice lo stesso Englaro, il quale lo definisce ben due volte «una riflessione filosofica». E allora vediamo qual è la filosofia che ha ispirato il professor Mori.

Già il sottotitolo, in copertina, lascia capire dove si vuole andare a parare: il caso di Eluana Englaro è definito «la Porta Pia del vitalismo ippocratico», ovvero «perché è moralmente giusto sospendere ogni intervento».

Se dalla copertina passiamo all’interno, tutto viene immediatamente chiarito. L’alimentazione e l’idratazione vanno sospese per il bene di Eluana? Per far cessare un’atroce sofferenza? Sembra di no, visto che il professor Mori scrive: «Più che di per sé (di persone ne muoiono tante, anche in situazioni ben peggiori), il caso Eluana è importante per il suo significato simbolico. Da questo punto di vista è l’analogo del caso creatosi con la breccia di Porta Pia attraverso cui il 20 settembre 1870 i bersaglieri entrarono nella Roma papalina». L’obiettivo comincia a ben delinearsi, dunque. Continua Mori: «Come Porta Pia è importante non tanto come azione militare quanto come atto simbolico che ha posto fine al potere temporale dei papi e alla concezione sacrale del potere politico, così il caso Eluana apre una breccia che pone fine al potere (medico e religioso) sui corpi delle persone e (soprattutto) alla concezione sacrale della vita umana».

Prosegue Mori: «Sospendere l’alimentazione e l’idratazione artificiali implica abbattere una concezione dell’umanità e cambiare l’idea di vita e di morte ricevuta dalla tradizione millenaria che affonda le radici nell’ippocratismo e anche prima nella visione dell’homo religiosus, per affermarne una nuova da costruire».

E ancora: «Come Porta Pia segna la fine del papa re e di un paradigma del ruolo sacrale della religione in politica, gettando le basi di un’aurorale democrazia in Italia, così il caso Eluana segna la fine (sul piano teorico) del paternalismo in medicina e di un paradigma medico fondato sul vitalismo ippocratico, gettando le basi di un aurorale controllo della propria vita da parte delle persone».

Insomma Eluana usata per aprire una nuova breccia di Porta Pia. La vittoria pare certa: «Se vale l’analogia, allora si può anche azzardare una previsione: è facile che, prima o poi, anche sulla “breccia di Eluana” ci sarà la conciliazione», leggiamo nel libro. Si spiega che «i cattolici romani» dopo il periodo di scontro «verranno dapprima a più miti consigli e poi, forse, anche a riconoscere che l’autodeterminazione sulla vita è centrale per la realizzazione personale. Può darsi anche che in qualche modo riconosceranno di avere sbagliato». Insomma finirà con la Chiesa che alza bandiera bianca.

Sembrano frasi tanto imprudenti da essere inventate da qualche pamphlettista cattolico in cerca di prove su un complotto anticlericale. Invece sono reali, stampate nero su bianco in un libro che porta la prefazione del papà di Eluana.

Credo che nessuno possa sostenere che noi abbiamo mai mancato di rispetto e comprensione per Beppino Englaro e per il suo dramma. Non abbiamo condiviso il decreto che ha autorizzato la morte di Eluana, ma non abbiamo mai dato dell’assassino a nessuno, anzi abbiamo sempre riconosciuto che la vicenda era talmente oscura da rendere comprensibile ogni punto di vista. Beppino Englaro non ce la faceva più, forse non ce l’ha mai fatta, se è vero che già diciassette anni fa - come sostiene il medico rianimatore - chiese l’interruzione delle cure. Se pretendessimo di giudicare questo povero papà, mancheremmo del più elementare senso di misericordia.

Ma il punto non è Beppino Englaro. E neppure se è giusto o no quello che scrive il professor Mori: su questo, ognuno può pensarla come crede. Il punto è un altro. È che s’è detto che chi si è battuto contro la sospensione dell’alimentazione per Eluana si è comportato da «sciacallo»; che ha «usato» un dramma privato per finalità politiche o ideologiche. Viceversa, i fautori della presunta «dolce morte» di Eluana hanno sbandierato di non avere altro interesse al di fuori della pietà.

Ora, noi non usiamo la parola «sciacalli». Ma possiamo dire che forse i ruoli vanno invertiti? Che a fare del caso di Eluana una battaglia ideologica sono stati coloro che hanno manifestato amicizia e solidarietà a Beppino Englaro e che ora - stando a quanto leggiamo su Repubblica - stanno pure cercando di convincerlo a far causa ai giornali «nemici» per tirar su un po’ di soldi da utilizzare in una fondazione?

Signor Englaro: la nostra solidarietà e il nostro affetto per lei non sono parole di circostanza. Possiamo capire il suo aver voluto staccare la spina. Ma ci ha fatto male leggere, ieri, che lei «non perdona» le suore che «per diciassette anni hanno messo le mani addosso a Eluana». Erano mani che pulivano, pettinavano, nutrivano, prevenivano le piaghe, e a muoverle era l’amore. Le mani di chi scrive che Eluana era «un significato simbolico» sono mosse, invece, dall’ideologia. Forse non perdonerà neppure noi signor Englaro, ma crediamo che l’amore possa dare «un senso agli eventi» più di qualsiasi ideologia.

 
 
 

I laici dovrebbero amare di più l'uomo

Post n°2562 pubblicato il 12 Febbraio 2009 da Antalb
 

Articolo di Geronimo su il Giornale di giovedì 12 febbraio.


La morte di Eluana impone, in tempi più rapidi possibili, una disciplina legislativa che difende la vita dall’accanimento terapeutico ma anche da una concezione che avanza nella società di oggi e che passa per modernità, quella della buona morte quando la vita non risponde più ai canoni della tollerabilità. Abbiamo ascoltato in questi giorni cose terribili come ad esempio citare il diritto di morire. Pensateci bene e vedrete quale abisso si aprirebbe davanti a voi se quel diritto si convalidasse. Se davvero il valore della vita fosse legato intimamente al buon vivere, quante vite non sarebbero degne di essere vissute. Chi parla così sconsideratamente ha mai visto un ragazzino tetraspastico che ad ogni piccolo movimento è scosso da tremori squassanti o un ammalato di Alzheimer o altri affetti da malattie fortemente invalidanti? Se quel criterio del buon vivere dovesse, passo dopo passo, lentamente affermarsi come la fonte di un nuovo diritto, quello di morire, quanti ammalati dovremmo sopprimere? Non sembri un’iperbole. Quando si inizia a camminare su un sentiero scosceso come quello delle malattie gravemente invalidanti il passo falso è dietro l’angolo e facilmente si precipita in quel burrone dell’eugenetica ancora impressa nella memoria di milioni di cittadini europei. Sappiamo bene di essere senza risposta se ci si chiede perché qualcuno deve soffrire una vita intera, ma questo è il mistero del dolore dell’uomo, questione aperta anche nelle grandi religioni monoteiste e in particolare in quella cattolica il cui asse portante è l’amore. Il dolore è un compagno di viaggio dell’uomo sin dalla sua origine e se ci domandiamo il perché di questa condanna l’unica risposta che abbiamo noi credenti è la fede, quella fede che lenisce e sostiene il cuore di chi soffre e dispensa a ciascuno la buona speranza. E chi non crede, chi non ha la fede come risposta in quale maniera si deve comportare dinanzi a una vita squassata dalla malattia e resa drammaticamente difficile? Questa domanda, però, la vorremmo fare noi da cattolici ai non credenti per conoscere davvero se la loro risposta possa essere quella della cultura della morte. Fosse anche per esclusione per l’orrore di una morte procurata in serie, la vita conserva pur sempre un suo valore inestinguibile perché anche chi è gravemente invalido conosce il calore di una carezza, la tenerezza di un amore, l’emozione di una lettura o di un film, la speranza di un sogno. Anche quella è vita. L’affanno quotidiano che ci affligge e che ci fa bulimici di ogni cosa non ci fa spesso apprezzare il valore di un gesto o il lampo di uno sguardo. Raccontammo nel nostro ultimo libro un episodio che ci colpì e che ci fece vergognare del nostro dolore in attesa di un trapianto che sembrava non arrivasse mai. Quella vergogna la sentimmo quando in un telegiornale vedemmo un ragazzino di circa 10 anni sulla sedia a rotelle e collegato a bombole di ossigeno guardare, per la prima volta nella sua vita, il mare. Nel mirare quelle onde frangersi sugli scogli vedemmo passare in quegli occhi malinconici un lampo di gioia e un sorriso gioioso. E ci vergognammo del nostro dolore. Ecco cosa anche può essere la vita. Nessuno si adonti se diciamo che forse i laici dovrebbero amare di più l’uomo in tutte le sue espressioni e in tutti i suoi sentimenti perché il valore della vita prima di essere un valore religioso è un valore umano che va onorato e difeso in ogni momento. Questo è argomento di estrema delicatezza e se viene messo in mani sprovvedute o ciniche può legittimare comportamenti individuali o collettivi che la storia ha già abbondantemente condannato. E se, invece, la risposta umana, non religiosa, alle vite sofferenti e invalidanti fosse quella dell’amore e di quell’amore anche lo Stato, con la sua forza e i suoi strumenti, se ne facesse carico, non sarebbe questo un sentiero da percorrere tutti insieme? Pensiamoci tutti senza farci tentare dal demone della rissa e della contrapposizione pregiudiziale.

 
 
 

Dopo il caso Englaro: una legge per tutelarci dai giudici

Post n°2561 pubblicato il 11 Febbraio 2009 da Antalb
 

Racconta il medico che rianimò Eluana 17 anni fa, la notte del tragico schianto che la spedì negli insondabili abissi dello stato vegetativo: «Nei giorni successivi Beppino Englaro continuava a ripetere: “Lasciatela morire, lasciatela morire”. Gli dissi: “Io non posso, se la porti a casa e lo faccia lei”. Rispose: “No, tutto deve essere fatto alla luce del sole, secondo i termini di legge”».

Ecco, alla fine Beppino Englaro ha vinto la sua amarissima guerra. Eluana è stata «spenta» e tutto è stato fatto a «termini di legge». Anzi: in assenza di legge, «a termini di magistratura» che per molti (troppi) pare essere la stessa cosa. Così un pugno di giudici ha stabilito, in provetta per così dire, sulla base di una frase forse pronunciata 18 anni fa, che cosa Eluana avrebbe voluto fare di se stessa adesso: che avrebbe voluto morire e che avrebbe voluto morire così, privata di acqua e di cibo. Grazie a questa enormità giuridica, Beppino Englaro ha vinto e invece ha perso chi non vuole farsi dettare la vita da un tribunale.

Che cosa abbiamo perso? Una vita umana, prima di tutto. E poi, probabilmente, la possibilità di affermare ancora che lo Stato, il Giudice, la Legge non possono disciplinare ogni aspetto della nostra esistenza. Che c’è un prezioso angolo d’ombra che dovrebbe essere conservato e coltivato, protetto dalla Magistratura e dalla Politica: semplicemente, tanto privato da essere indicibile.

Invece, con Eluana tutto è stato detto. E fatto. «Alla luce del sole». E ora che lei non c’è più, ora che la battaglia intorno al suo corpo è terminata, ne comincia un’altra, altrettanto drammatica. La battaglia per limitare i danni che il modo in cui è stato gestito questo doloroso caso rischia di infliggere al nostro essere uomini, in Italia, nel ventunesimo secolo. Ed è una battaglia che, adesso sì, inevitabilmente passa per una legge. Quella legge sul testamento biologico la cui assenza è stata il pretesto per decidere al posto della ragazza di Lecco. Quella legge che ora il Parlamento deve (deve!) varare in tempi rapidissimi. Quella legge che impedirà che un’altra Eluana venga lasciata morire di fame e di sete. Perché è bene ripeterlo: nessuno dei progetti presentati, se approvato, avrebbe consentito e consentirebbe quanto è accaduto. Neppure chi ora esulta e festeggia per la «liberazione» di Eluana si è mai sognato di prevedere la possibilità di mettere a morte le persone in stato vegetativo in assenza di una loro volontà scritta e certificata.

È un paradosso, uno dei tanti di questa triste vicenda. Come lo è invocare una legge per tutelarci da certe «sentenze creative», pur sapendo che non potrà mai contenere tutti i casi che la vita ci metterà di fronte e che quindi ci ritroveremo ancora, un giorno, a lacerarci davanti a un altro corpo. Ma oggi è il minimo che dobbiamo a Eluana.

 
 
 

No al revisionismo sulle foibe

Post n°2560 pubblicato il 11 Febbraio 2009 da Antalb
 


Se il «giorno del ricordo» - istituito per dare degno posto, nella storia e nella memoria degli italiani, alla spaventosa tragedia delle foibe - diventa un ennesimo giorno dell’antifascismo, non vale la pena di celebrarlo. Ho grandissimo rispetto per i valori dell’antifascismo: già esaltati giustamente e solennemente il 25 aprile, il primo maggio, nell’anniversario delle Fosse Ardeatine, nell’anniversario dell’assassinio di Giacomo Matteotti e altre volte ancora. Lapidi e commemorazioni costellano l’Italia. Benissimo.


Ma la memoria di cui ai discorsi di ieri deve essere un omaggio e in qualche modo un risarcimento morale, dopo decenni d’oblio e di noncuranza, a coloro che delle foibe furono vittime, e alle loro famiglie. Si eviti allora d’abbinare il ricordo dei morti all’immancabile e ormai un po’ stucchevole insistenza sulle colpe di Mussolini per avere precipitato dissennatamente l’Italia nella seconda guerra mondiale.
Fatta eccezione per gruppi di fanatici, quelle colpe sono ormai riconosciute. Non c’è più bisogno di sottolinearle: se ne occupano ogni giorno la stampa, la televisione, saggisti, politici. Nessun negazionismo - se non in tipi strani come il vescovo Williamson - per le efferatezze hitleriane e per le responsabilità mussoliniane. Il negazionismo c’è invece stato, e in parte rimane, per le stragi e le brutalità perpetrate contro i giuliani e i dalmati (e anche per l’esodo spaventoso delle popolazioni tedesche dai territori passati sotto dominio sovietico). «Il giorno del ricordo - ha detto il presidente Napolitano nel suo discorso, peraltro molto nobile - non ha nulla a che vedere col revisionismo storico, col revanscismo, col nazionalismo».


Mi permetto rispettosamente di obbiettare. Ha a che vedere col revisionismo perché la storia di quel periodo è stata a lungo improntata a un conformismo di sinistra, è stata modellata secondo i canoni d’un «politicamente corretto» che più o meno assimilava i profughi istriani a sgherri in orbace. Il Capo dello Stato sa sicuramente che ai poveri fuggiaschi ammassati in un treno venne negato in piena estate, dai ferrovieri comunisti d’una stazione emiliana, anche un po’ d’acqua. Di revisionismo c’era dunque bisogno, ed è buon segno che quasi tutti se ne siano fatta una ragione. Stabilito che le foibe furono un orrore, e il trattamento subito dai profughi una vergogna, non c’è bisogno a mio avviso d’affiancare a questo riconoscimento, per renderlo accettabile, il rituale anatema contro il Ventennio.


on sono tra coloro che indulgono alla retorica degli italiani buoni. Durante l’occupazione della ex Jugoslavia sono state ordinate ed eseguite dure rappresaglie. Quando è il caso, se ne deve seriamente discutere. Evitando tuttavia un ping pong polemico, alacremente praticato, secondo il quale ogni rievocazione di nefandezze comuniste deve avere un contrappeso in camicia nera. Una cosa per volta. Senza iattanze ma anche senza complessi d’inferiorità, e senza veli pietosi. Vogliamo o no rammentare che i boia delle foibe ebbero aiuto e incoraggiamento da elementi comunisti di Trieste che spasimavano per l’annessione della città e del suo territorio alla Jugoslavia di Tito, non ancora dissociatosi da Mosca? Se piacciono questi acri amarcord, pratichiamoli pure. Ma non si finirebbe più.



Se il «giorno del ricordo» - istituito per dare degno posto, nella storia e nella memoria degli italiani, alla spaventosa tragedia delle foibe - diventa un ennesimo giorno dell’antifascismo, non vale la pena di celebrarlo. Ho grandissimo rispetto per i valori dell’antifascismo: già esaltati giustamente e solennemente il 25 aprile, il primo maggio, nell’anniversario delle Fosse Ardeatine, nell’anniversario dell’assassinio di Giacomo Matteotti e altre volte ancora. Lapidi e commemorazioni costellano l’Italia. Benissimo.


Ma la memoria di cui ai discorsi di ieri deve essere un omaggio e in qualche modo un risarcimento morale, dopo decenni d’oblio e di noncuranza, a coloro che delle foibe furono vittime, e alle loro famiglie. Si eviti allora d’abbinare il ricordo dei morti all’immancabile e ormai un po’ stucchevole insistenza sulle colpe di Mussolini per avere precipitato dissennatamente l’Italia nella seconda guerra mondiale.
Fatta eccezione per gruppi di fanatici, quelle colpe sono ormai riconosciute. Non c’è più bisogno di sottolinearle: se ne occupano ogni giorno la stampa, la televisione, saggisti, politici. Nessun negazionismo - se non in tipi strani come il vescovo Williamson - per le efferatezze hitleriane e per le responsabilità mussoliniane. Il negazionismo c’è invece stato, e in parte rimane, per le stragi e le brutalità perpetrate contro i giuliani e i dalmati (e anche per l’esodo spaventoso delle popolazioni tedesche dai territori passati sotto dominio sovietico). «Il giorno del ricordo - ha detto il presidente Napolitano nel suo discorso, peraltro molto nobile - non ha nulla a che vedere col revisionismo storico, col revanscismo, col nazionalismo».


Mi permetto rispettosamente di obbiettare. Ha a che vedere col revisionismo perché la storia di quel periodo è stata a lungo improntata a un conformismo di sinistra, è stata modellata secondo i canoni d’un «politicamente corretto» che più o meno assimilava i profughi istriani a sgherri in orbace. Il Capo dello Stato sa sicuramente che ai poveri fuggiaschi ammassati in un treno venne negato in piena estate, dai ferrovieri comunisti d’una stazione emiliana, anche un po’ d’acqua. Di revisionismo c’era dunque bisogno, ed è buon segno che quasi tutti se ne siano fatta una ragione. Stabilito che le foibe furono un orrore, e il trattamento subito dai profughi una vergogna, non c’è bisogno a mio avviso d’affiancare a questo riconoscimento, per renderlo accettabile, il rituale anatema contro il Ventennio.


on sono tra coloro che indulgono alla retorica degli italiani buoni. Durante l’occupazione della ex Jugoslavia sono state ordinate ed eseguite dure rappresaglie. Quando è il caso, se ne deve seriamente discutere. Evitando tuttavia un ping pong polemico, alacremente praticato, secondo il quale ogni rievocazione di nefandezze comuniste deve avere un contrappeso in camicia nera. Una cosa per volta. Senza iattanze ma anche senza complessi d’inferiorità, e senza veli pietosi. Vogliamo o no rammentare che i boia delle foibe ebbero aiuto e incoraggiamento da elementi comunisti di Trieste che spasimavano per l’annessione della città e del suo territorio alla Jugoslavia di Tito, non ancora dissociatosi da Mosca? Se piacciono questi acri amarcord, pratichiamoli pure. Ma non si finirebbe più.



Se il «giorno del ricordo» - istituito per dare degno posto, nella storia e nella memoria degli italiani, alla spaventosa tragedia delle foibe - diventa un ennesimo giorno dell’antifascismo, non vale la pena di celebrarlo. Ho grandissimo rispetto per i valori dell’antifascismo: già esaltati giustamente e solennemente il 25 aprile, il primo maggio, nell’anniversario delle Fosse Ardeatine, nell’anniversario dell’assassinio di Giacomo Matteotti e altre volte ancora. Lapidi e commemorazioni costellano l’Italia. Benissimo.


Ma la memoria di cui ai discorsi di ieri deve essere un omaggio e in qualche modo un risarcimento morale, dopo decenni d’oblio e di noncuranza, a coloro che delle foibe furono vittime, e alle loro famiglie. Si eviti allora d’abbinare il ricordo dei morti all’immancabile e ormai un po’ stucchevole insistenza sulle colpe di Mussolini per avere precipitato dissennatamente l’Italia nella seconda guerra mondiale.
Fatta eccezione per gruppi di fanatici, quelle colpe sono ormai riconosciute. Non c’è più bisogno di sottolinearle: se ne occupano ogni giorno la stampa, la televisione, saggisti, politici. Nessun negazionismo - se non in tipi strani come il vescovo Williamson - per le efferatezze hitleriane e per le responsabilità mussoliniane. Il negazionismo c’è invece stato, e in parte rimane, per le stragi e le brutalità perpetrate contro i giuliani e i dalmati (e anche per l’esodo spaventoso delle popolazioni tedesche dai territori passati sotto dominio sovietico). «Il giorno del ricordo - ha detto il presidente Napolitano nel suo discorso, peraltro molto nobile - non ha nulla a che vedere col revisionismo storico, col revanscismo, col nazionalismo».


Mi permetto rispettosamente di obbiettare. Ha a che vedere col revisionismo perché la storia di quel periodo è stata a lungo improntata a un conformismo di sinistra, è stata modellata secondo i canoni d’un «politicamente corretto» che più o meno assimilava i profughi istriani a sgherri in orbace. Il Capo dello Stato sa sicuramente che ai poveri fuggiaschi ammassati in un treno venne negato in piena estate, dai ferrovieri comunisti d’una stazione emiliana, anche un po’ d’acqua. Di revisionismo c’era dunque bisogno, ed è buon segno che quasi tutti se ne siano fatta una ragione. Stabilito che le foibe furono un orrore, e il trattamento subito dai profughi una vergogna, non c’è bisogno a mio avviso d’affiancare a questo riconoscimento, per renderlo accettabile, il rituale anatema contro il Ventennio.


on sono tra coloro che indulgono alla retorica degli italiani buoni. Durante l’occupazione della ex Jugoslavia sono state ordinate ed eseguite dure rappresaglie. Quando è il caso, se ne deve seriamente discutere. Evitando tuttavia un ping pong polemico, alacremente praticato, secondo il quale ogni rievocazione di nefandezze comuniste deve avere un contrappeso in camicia nera. Una cosa per volta. Senza iattanze ma anche senza complessi d’inferiorità, e senza veli pietosi. Vogliamo o no rammentare che i boia delle foibe ebbero aiuto e incoraggiamento da elementi comunisti di Trieste che spasimavano per l’annessione della città e del suo territorio alla Jugoslavia di Tito, non ancora dissociatosi da Mosca? Se piacciono questi acri amarcord, pratichiamoli pure. Ma non si finirebbe più.




 
 
 

POTEVA FERMARLI: COMPLIMENTI NAPOLITANO

Post n°2559 pubblicato il 10 Febbraio 2009 da Antalb
 


È morta all’improvviso, è morta da sola. È morta mentre il Parlamento discuteva e i soliti noti, da Dario Fo a Umberto Eco, firmatari di ogni sciagurato appello di questo Paese, si apprestavano a scendere in piazza per un girotondo. È morta, e se non altro la sua vita non ha dovuto subire anche l’ultima offesa di Oscar Luigi Scalfaro sul palco mentre lei moriva. È morta e suo padre era lontano. È morta di fame e di sete, con il respiro ridotto a un rantolo e il corpo disidratato che cercava acqua dentro gli organi vitali.


È morta in fretta, troppo in fretta per non generare sospetti. E intanto suona tragicamente beffardo leggere adesso, a tarda sera, le parole del suo medico curante che di prima mattina assicurava: «Lo stato fisico è ottimo, Eluana è una donna sana, pochi rischi fino a giovedì». Evidentemente la conosceva poco. Troppo poco. E forse per questo ha potuto toglierle la vita. È arrivata la morte, e la morte non è presunta. La volontà di morire di Eluana sì, invece, quella era e resta presunta: l’ha decisa un tribunale, sulla base di una ricostruzione incerta e zoppicante, con una selezione innaturale di testimonianze. Tre amiche (solo tre, le altre no), la determinazione del padre, un po’ di azzeccagarbugli: tanto è bastato per decidere di ucciderla nel modo più atroce.


Ricordiamolo: nessuna proposta di legge di quelle presentate in Parlamento, neppure quelle più favorevoli all’eutanasia, prevede la possibilità di una morte così. Eluana è stata la prima esecuzione di questo genere nella storia della Repubblica. E sarà l’ultima. Forse. Arriverà la legge, e non sarà presunta. Arriverà la legge e impedirà questo scempio. Ma oggi l’affannarsi di parlamentari alla Camera e al Senato, quel rincorrersi di cavilli e regolamenti, quelle riunioni di capigruppo, l’alternarsi di dichiarazioni e di emendamenti, appare soltanto quel che in realtà è: il nulla. Nulla di nulla. Un nulla che fa venire le lacrime agli occhi, però. La corsa contro il tempo, la convocazione notturna, i calcoli sui minuti: tutto inutile. Eluana è stata uccisa. Eluana era viva e adesso non c’è più. E allora, mentre molti chiedono il silenzio solo per nascondere le loro vergogne, non può non venire voglia di urlare le responsabilità che ricadranno su chi non ha fatto niente per impedire questo orrore.


In primo luogo i medici che non hanno accettato di ridare acqua e cibo a Eluana in attesa dell’approvazione della legge, nonostante i numerosi appelli. Poi Procura di Udine e Regione Friuli che hanno giocato per due giorni a scaricabarile.


E infine, sia consentito, anche il capo dello Stato che non ha firmato il decreto legge: in questa vicenda il Quirinale ha anteposto le ragioni di palazzo alla salvezza di una ragazza, ha preferito la cultura della morte al valore della vita. Siamo sicuri che se una responsabilità del genere se la fosse assunta il presidente del Consiglio, qualcuno della sinistra in questi minuti già chiederebbe le sue dimissioni. Ora, invece, vogliono che si taccia. D’accordo, ora taceremo. Non abbiamo nemmeno più voglia di parlare. Ma prima lasciateci dire un’ultima cosa. Prima lasciateci dire: complimenti, presidente Napolitano.


 
 
 

L'HANNO UCCISA

Post n°2558 pubblicato il 10 Febbraio 2009 da Antalb
 


Eluana Englaro è morta ieri sera poco dopo le otto. La morte ha un potere tremendo, che è anche quello di far apparire di colpo futili, ignobili, vane («vanità della vanità», dice la Bibbia) tante nostre passioni, litigi, divisioni. Ma ha anche il potere di essere terribilmente reale, vera, tangibile pur se si tratta di un vuoto: così che all’improvviso tutti i discorsi fatti prima appaiono per quello che erano: teoria, astrazione, a volte inganno. Per settimane abbiamo parlato tutti di un qualcosa di cui abbiamo preso coscienza soltanto quando è davvero accaduto.


Eluana Englaro è morta, e se non fosse una tragedia farebbe sorridere l’ipocrisia di una cronaca d’agenzia letta ieri sera subito dopo il fatto: «Eluana Englaro ha cessato definitivamente di vivere», come se si potesse cessare di vivere anche non definitivamente. Arzigogoli verbali per sostenere, ancora una volta, una tesi, e cioè quella secondo cui Eluana era già morta, almeno un po’, diciassette anni fa, e adesso è morta del tutto. Ma come dicevamo la morte ha il potere di farci sbattere il muso contro la realtà. Solo ieri sera abbiamo fatto i conti davvero con la fine di Eluana. Quanti discorsi si sono rivelati grotteschi. Quello ad esempio del «vegetale»: ieri sera è morta una persona, non una pianta. Una persona privata di quasi tutto: ma una persona il cui valore e la cui dignità non erano inferiori di un nulla rispetto al più forte e il più sano degli esseri umani. Il Vaticano ha invocato il perdono di Dio per coloro che hanno deciso di accelerare il corso della natura. Noi più modestamente speriamo che un Dio esista, e che Eluana ora sia fra le sue braccia, godendo finalmente di una felicità che qui sulla terra un destino malvagio le ha negato. Se così fosse, non c’è dubbio che Eluana sta meglio adesso.


Eppure noi ci siamo battuti contro questo epilogo, che riteniamo un grave errore. Non abbiamo certezze sulla vita e sulla morte. Ma proprio per questo abbiamo pensato che nessuno le possa avere: e nell’incertezza, nel dubbio, noi crediamo che non spetti all’uomo porre fine alla vita di un altro uomo. Non raccontiamoci bugie sul rispetto della volontà di Eluana: chiunque capisce che è impossibile ricostruire una volontà su testimonianze tanto farraginose, su mezze frasi (forse) pronunciate in un’età in cui tutto urla per la vita, e nulla induce a riflettere sulla morte. Che la morte procurata alla «Quiete» (un nome che d’ora in poi sarà imbarazzante esibire) sia stata voluta da Eluana, è una pietosa bugia per coprire la scelta di un uomo disperato che non ce la faceva più, e che aveva certamente mille motivi per non farcela più. Abbiamo anche pensato, e continuiamo a pensarlo, che troppi lati oscuri rendono inaccettabile una morte così. Le modalità, intanto: per fame e per sete, un’agonia atroce come quella di Terri Schiavo.


L’illegalità, perché bisogna avere gli occhi, anzi la ragione bendata per non riconoscere che i giudici della Corte d’appello di Milano hanno autorizzato qualcosa che non è previsto dalla legge, travalicando il loro potere costituzionale. La sorprendente iniziativa del presidente Napolitano, che oggi molti considerano vittima di un attacco istituzionale da parte del governo, e che invece si è reso lui protagonista di un atto senza precedenti, e cioè l’invio di una lettera di bocciatura preventiva a un decreto non ancora emesso. La strumentalizzazione politica da parte di molti, e per favore non diciamo che tra gli strumentalizzatori ci sono anche coloro che hanno preso decisioni disapprovate dalla stragrande maggioranza degli italiani. Può darsi che noi avessimo torto, e che gli altri avessero ragione. Però, siccome come dicevo la morte ha il tremendo potere di metterci di fronte alla realtà, ci chiediamo: se aveva ragione chi la pensava diversamente da noi, perché adesso non esulta? Se davvero impedire la morte era «una violenza inaudita», come abbiamo letto, perché ora nessuno gode della fine di questa violenza? E coloro che parlavano della «battaglia di Beppino Englaro», hanno ora il coraggio di dire e di scrivere «Beppino Englaro ha vinto la sua battaglia»? Dov’è la vittoria, nella morte? «Lasciatemi solo», ha detto ieri sera il povero papà di Eluana. Resterà solo, resterà.


Certo non troverà consolazione tra coloro che l’hanno utilizzato per sfondare una porta, per creare un precedente, per far sì che l’uomo sia sempre più padrone della vita propria (illusione: nessuno è padrone della propria vita) e di quella degli altri. Vedremo, fra qualche anno, se non sarà così. Se dai diciassette anni di coma non si passerà ai diciassette mesi o diciassette giorni; se non si dirà che in fondo anche l’Alzheimer è uno stato di totale incoscienza, e così via. È un film che abbiamo già visto con l’aborto. Si è partiti dai casi limite - le gravidanze per stupro, le gravissime malformazioni - e si è arrivati a totalizzare più di cinque milioni di aborti legali, solo in Italia, in trent’anni. Se davvero la battaglia di Beppino Englaro era per il suo bene, dov’è ora il suo sollievo? Dove la sua pacificazione? Non pretendiamo di entrare in quel che sta provando ora. Ma che sia sereno e sollevato, non ci crediamo neppure un po’. Fra i poteri tremendi della morte c’è anche quello di svelare, di colpo, un inganno. Lasciamolo solo come lui ci chiede, quest’uomo così sfortunato. Ne ha il diritto. Ma certamente un giorno, forse molto presto, la solitudine non gli basterà più, sarà lui a cercare qualcuno che lo possa capire, accogliere, amare. E guardate, magari ci sbaglieremo, ma secondo noi questa compagnia non la troverà fra coloro che lo hanno tanto spalleggiato in questi anni, assecondandolo e a volte usandolo. Più facile, molto più facile, che la troverà tra quelle suore misericordine che Eluana l’hanno accudita e amata per diciassette anni, senza chiedersi che cosa dice la Costituzione, senza chiedersi dove comincia e dove finisce una persona.


 
 
 

Ciao Elu, un pezzo d' Italia muore con te

Post n°2557 pubblicato il 10 Febbraio 2009 da Antalb
 

Diceva Jean Cocteau che il verbo amare è uno dei più difficili da coniugare: il suo passato non è semplice, il suo presente non è indicativo e il suo futuro non è che condizionale. Poche figlie sono state più amate di Eluana Englaro, nata a Lecco il 25 novembre 1970 e morta per fame e per sete a Udine il 9 febbraio 2009. L’ha amata disperatamente sua madre, al punto da voler scomparire con lei dalla scena pubblica ben prima che questa catastrofe collettiva avesse un prologo e un epilogo. L’ha amata suo padre, tanto da pretendere per lei la morte pur di sottrarla alla cosiddetta «non vita». L’hanno amata suor Albina e le suore misericordine di Lecco, che l’hanno accudita con eroica abnegazione per 17 anni e se la sono vista portar via con la forza, avendo solo il tempo d’inviarle un’ultima carezza via etere, dal Tg1: «Eluana, non avere paura di quello che ti succederà». L’hanno amata i medici, che si sono prodigati prima per restituirla alla sua gioventù, poi per alleviarne le sofferenze e infine per «liberarla» dal suo corpo trasformatosi in gabbia. L’hanno amata i magistrati, che hanno decretato che cosa fosse buono e giusto per lei. L’hanno amata gli amici, che si sono presentati puntualmente nelle corti di giustizia per parlare a suo nome, per testimoniare che Eluana aveva detto così, che Eluana avrebbe voluto cosà. L’ha amata il signor presidente della Repubblica, che con accenti dolentissimi s’è preoccupato acciocché la sostanza non avesse a prevalere sulla forma. L’hanno amata gli eletti dal popolo, anche se non fino al punto di rinunciare al loro week-end. L’hanno amata i giornali, che si sono industriati per spiegare ai lettori argomenti per lo più oscuri alla maggioranza di coloro che vi lavorano. L’abbiamo amata noi, gli italiani, equamente divisi fra quelli che fino all’ultimo non si sono rassegnati a vederla condannata al più atroce dei supplizi e quelli che hanno ostinatamente cercato in tutti i modi di farla ammazzare per il suo bene. Povera Eluana, uccisa dall’eccesso di amore! Accadde la stessa cosa ad Alessandro Magno, di cui i libri di storia ancor oggi narrano che morì grazie all’aiuto di troppi medici. Proprio come te. L’evidenza, sotto gli occhi di tutti, è che gli italiani non sanno più coniugare il verbo amare. Né al passato, né al presente, né al futuro. Dovrebbero andare a ripetizione. Già, ma da chi? Io un’idea, politicamente scorretta ai limiti dell’osceno, mi permetto di suggerirla: da Dio. Sì dall’Onnipotente, un tempo Onnipresente, che invece è divenuto il Grande Assente in questa nostra società, e non certo per Sua volontà. Ma poiché il signor Beppino Englaro ha spiegato che nessuno gli può imporre i valori della trascendenza, mi fermo sull’uscio del suo cuore, da ieri sera più vuoto che mai. Se solo questo padre sventurato ce l’avesse consentito, se solo avesse lasciato che sua figlia continuasse a sperimentare lo scandalo di mani pietose che per anni l’hanno lavata, pettinata, nutrita, vestita, girata nel letto, portata a spasso in giardino, oggi avrei provato a consolarlo, pur reputandolo il primo responsabile di questa tragedia, con le parole di don Primo Mazzolari, un parroco di campagna col quale si sarebbe inteso al primo sguardo: «Due mani che mi prendono quando più nessuna mano mi tiene: ecco Dio». Può non crederci, ma dalle 20.10 di ieri sera Eluana è in mani sicure. E anche con le parole di un Papa che passava per buono e che un giorno confortò così i malati radunati davanti al santuario della Madonna di Loreto: «La vita è un pellegrinaggio. Siamo fatti di cielo: ci soffermiamo un po’ su questa terra per poi riprendere il nostro cammino». Può non crederci, ma sua figlia era fatta più di cielo che di materia. Purtroppo gli uomini del terzo millennio ormai bastano a loro stessi. Hanno la Costituzione, il Parlamento, le Leggi, la Società Civile, la Laicità, le Opinioni, la Libertà di Coscienza e insomma un po’ tutto quel che gli serve per essere felici su questa Terra. Non hanno più bisogno di Dio. Per questo Dio è stato abrogato. Allora ascoltino almeno le parole di uno psicoanalista, Carl Gustav Jung. Così saggio da ricordare a se stesso e ai suoi pazienti che «il timor di Dio è l’inizio della sapienza». Così lungimirante da far scolpire sei parole nella pietra sulla porta della propria casa: «Vocatus atque non vocatus, Deus aderit». Invocato o non invocato, Dio verrà. Giorno d’ira, sarà quel giorno.

 
 
 

Ma intanto, per favore, datele da bere: lettera aperta al medico che può salvarla

Post n°2556 pubblicato il 09 Febbraio 2009 da Antalb
 

Editoriale di Mario Giordano su il Giornale di domenica 8 febbraio.

Caro professor De Monte,

mi scusi se mi rivolgo direttamente a lei, ma in questo momento la sorte di Eluana è nelle sue mani. È lei che guida lo staff medico, è lei che ha la parola ultima sulla vita e sulla morte della ragazza. Oggi tutti gli occhi sono puntati su Roma, sul palazzo. Tutti a discutere di scontro di poteri e assetti istituzionali, tutti a interrogarsi sui tempi parlamentari. Come al solito, in questo Paese, si diventa all’improvviso tutti ct della nazionale di calcio, tutti skipper di Luna Rossa, tutti esperti di curling. Oggi stiamo diventando tutti esperti di regolamenti della Camera e del Senato. Quanto ci vuole per la conferenza dei capigruppo? E la commissione in sede referente?

Mi scusi, ma io non ce la faccio ad appassionarmi al gioco. E nello stesso tempo non riesco a togliere gli occhi da lì, da quella stanzetta di Udine, da quel tappino giallo che dalle 6 di venerdì mattina impedisce a Eluana di nutrirsi. Secondo gli esperti dopo 48 ore (i più ottimisti dicono 72) i danni su un corpo così disabilitato diventano irreversibili. E dunque più guardo verso Udine più mi intristisce l’affanno di Roma: temo che il grande dibattito, fuori e dentro i palazzi, sia completamente inutile. Se tutto va bene, infatti, la legge arriverà mercoledì o forse più probabilmente venerdì. Venerdì, ha capito dottore? Venerdì ci sarà una legge che dice che Eluana non va uccisa. E nel frattempo, però, Eluana sarà uccisa. Primo e unico caso in Italia di un’eutanasia così atroce (morte per fame e per sete) su una volontà presunta e piuttosto traballante.

Più leggo il decreto (decreto, non sentenza: c’è una certa differenza come rispieghiamo oggi) della Corte d’Appello, infatti, più mi rendo conto di quanto sia zoppicante quella decisione. Davvero Eluana voleva morire? Ne siamo così sicuri? Continuo a sentire, come prova fondamentale, la testimonianza di una sua amica (una delle tre chiamate a deporre). Sostiene che di fronte a un loro coetaneo finito in coma Eluana accese un cero ed esclamò: «Prego perché muoia». Non è un po’ poco? Come prova, dico, non è un po’ debole? Che valore può avere la reazione emotiva di una diciottenne di fronte a una tragedia? Si può desumere da lì un testamento biologico? E perché altre amiche, che su Eluana avevano un’opinione diversa, non sono state ammesse come testimoni?

Le dico la verità, caro professore: io non voglio vivere in un Paese dove, se divento incapace di intendere e di volere, un tribunale decide di farmi morire di fame solo perché una volta, magari in un momento di sconforto, ho detto «no, non vorrei vivere così». Pretenderei di essere informato, prima di decidere sulla mia morte, vorrei rifletterci su, magari vorrei lasciare qualcosa di scritto. Insomma: non voglio che mi lascino morire per un’impressione. E credo che nessuno lo voglia. Tanto è vero che in nessuno dei disegni di legge presentati alle Camere, nemmeno in quello più favorevole all’eutanasia, esiste la possibilità di sospendere l’alimentazione sulla base di una volontà presunta. Per questo, in caso di approvazione della legge, Eluana sarebbe la prima a morire così. E l’ultima.

E allora le chiedo: non le sembra troppo da sopportare questo orrore che s’infila dentro un vuoto normativo? Non crede che il rimorso di quella vita che si spegne per fame e per sete a causa di un ritardo del Parlamento, di un decreto non firmato, di una discussione in aula, di un regolamento del Senato, sia troppo da reggere per lei? Quando è andato a prendere Eluana a Lecco, ricordo, rimase sconvolto. Si aspettava un pezzo di legno, probabilmente, un essere amorfo, come lo descrivono i cantori della morte. Invece s’è trovato di fronte a una ragazza viva: una ragazza che dorme, si sveglia, apre gli occhi, tossisce, ha il ciclo mestruale. Una ragazza che se le prendi il volto fra le mani, la accarezzi e le parli ha un fremito come quello dei neonati. E questo l’ha sconvolto, si capisce, caro professore: quella a cui lei sta togliendo cibo e acqua non è una statua, un’idea, un corpo inerte, una bandiera. È una persona.

Raccontano che ancora ieri lei fosse in lacrime. Un po’ la tensione, un po’ la pressione. Ecco, glielo voglio dire, io disprezzo coloro che la aggrediscono o le urlano assassino, così come disprezzo quelli che hanno scritto «Beppino boia» sui muri di Udine. Non si può difendere la vita perdendo la civiltà. Però proprio perché penso che lei non sia un assassino, ma una persona piena di dubbi come tutti noi, proprio perché mi hanno subito fatto simpatia quelle lacerazioni d’animo schietto che lei mostra tra i pantaloni rossi e l’orecchino, le chiedo: come fa? Come fa, lei che ha giurato fedeltà ad Ippocrate, lei che ha promesso di far di tutto per salvare una vita, come fa ad accettare l’orrore di questa morte?

Se la legge arriverà troppo tardi, quando ormai le condizioni di Eluana saranno compromesse, molti se ne assumeranno la responsabilità. Il presidente Napolitano innanzitutto, e poi i parlamentari dell’opposizione che hanno rifiutato una convocazione immediata delle Camere. Ma il peso più grande ricadrà su di lei. So cosa sta pensando: lei dà esecuzione a una sentenza, lei fa la volontà del malato. Ma, a parte i tanti e irrisolti dubbi sulla reale volontà di Eluana, di cui abbiamo già parlato, siamo sicuri che basti? Abbiamo troppo rispetto per la sua professione, caro professore, per pensare che il medico si possa ridurre a mero esecutore di volontà altrui, in burattino di decisioni prese altrove. Un medico ha sempre il dovere di decidere secondo la sua coscienza. Un medico ha sempre il dovere di difendere la vita fin che può. E allora interrompa la procedura, caro professore. Dia acqua e cibo a Eluana. Lo faccia ora, lo faccia subito. Domani potrebbe essere già troppo tardi.

 
 
 

Napolitano non firma, ed Eluana muore: week end più sacro della vita

Post n°2555 pubblicato il 09 Febbraio 2009 da Antalb
 

Editoriale di Michele Brambilla su il Giornale di sabato 7 febbraio-

Alla sacralità della vita ormai non crede più quasi nessuno, ma sulla sacralità del week end l’unanimità è bulgara: per cui, il mondo politico si ferma oggi e domani, e solo lunedì comincerà a lavorare per evitare la morte di Eluana. Con quali possibilità di riuscita, Dio solo lo sa; noi possiamo però intuire che saranno molto scarse. I tempi sembrano non esserci più.
Ad Eluana Englaro, tra l’altro, ieri hanno sospeso l’alimentazione, e secondo alcuni medici (alcuni, perché su questa vicenda la scienza è divisa, a quanto pare, su tutto, a cominciare dalla reale incoscienza della povera donna) secondo alcuni medici, dicevamo, entro 48 ore la situazione sarà talmente compromessa da rendere praticamente inevitabile la morte.
Se ciò avverrà, il presidente della Repubblica si dovrà assumere una grande parte di responsabilità. Non certo giuridica o istituzionale: ma per fortuna la vita e il mondo non sono fatti solo di leggi e di politica, ma anche di conti con la propria coscienza. Il governo aveva fatto un decreto per salvare Eluana, ma Napolitano non l’ha voluto firmare. Era un decreto ad hoc, e su quell’«ad hoc» si è molto discusso ed eccepito: ma «ad hoc» è stato anche il decreto della Corte d’appello di Milano che ha autorizzato Beppino Englaro a sospendere l’alimentazione a sua figlia, introducendo di fatto l’eutanasia in Italia benché nessuna legge la preveda. L’abbiamo già detto e lo ripetiamo: se ci mettiamo a discutere sulla forma e sul rispetto delle istituzioni, non è certamente il decreto del governo ad essere fuori posto. Fuori posto è il colpo di mano dei giudici di Milano, lo strano ruolo giocato dal curatore speciale (che avrebbe dovuto essere una «controparte» del tutore, cioè di Beppino Englaro, e invece l’ha assecondato in tutto e per tutto), il non intervento del giudice tutelare di Lecco, che pure avrebbe forse ancora un margine di manovra.
Il governo, dicevamo, aveva fatto un decreto per salvare Eluana. Dopo la bocciatura da parte del Colle, ha varato un disegno di legge, sperando come si diceva in un’approvazione a tempo di record. Comunque la si pensi, sono interventi di grande coraggio. Per una volta, si sono prese decisioni dettate da un’esclusiva ragione ideale, condivisibile o no che sia; si è sfidata l’impopolarità, non si è tenuto conto dei sondaggi, si è accettato il rischio di compromettere i rapporti con il Quirinale. Noi siamo convinti che lasciar morire così Eluana sia un errore, e crediamo che il governo abbia fatto e continui a fare benissimo a tentare l’impossibile.
Su Eluana si è giocata una battaglia più che politica: una battaglia ideologica. Il «caso Englaro» sarà un precedente sul quale costruire leggi più in sintonia con il mondo di oggi, che non riconosce più la vita come un dono (e chi di noi si è fatto da sé?) ma come un diritto di cui disporre; che non accetta più la possibilità della sofferenza e del limite; un mondo in cui l’uomo si sente al tempo stesso centro e padrone, al punto da poter stabilire che cosa è vita e che cosa non lo è, quando come e chi deve nascere e quando come e chi deve morire. Eluana Englaro, come tutti coloro che sono in condizioni simili alle sue, non è più considerata una persona perché il suo respiro, i suoi occhi che continuano ad aprirsi ogni mattina, il suo nutrirsi e digerire, il suo aver sorprendentemente ripreso perfino il ciclo mestruale, le sue indecifrabili reazioni agli stimoli non sono ritenuti sufficienti per conferirle la dignità di persona. «È un vegetale», dicono, ma non è vero, perché nel mondo di oggi per un albero da abbattere c’è più rispetto, e perché quando Eluana Englaro morirà si dirà che è morta una persona, non una pianta.
Ieri Comunione e Liberazione ha diffuso un comunicato in cui dice che «quando viene meno il riconoscimento del Mistero presente nella storia, risulta difficile riconoscere tutta la grandezza dell’uomo». Anche se a noi non competono considerazioni di fede, è innegabile che se tutto è considerato materia, la vita perde valore. Eppure, basterebbe uno sguardo per riconoscere che la «grandezza dell’uomo» prescinde dalla sua capacità di deambulare, di parlare, perfino di pensare.
Ieri sul Corriere della Sera c’era una magnifica intervista a Enzo Jannacci, cantante e medico. Ateo dichiarato, Jannacci ha detto: «Non staccherei mai una spina e mai sospenderei l’alimentazione a un paziente: interrompere una vita è allucinante e bestiale... Se si trattasse di mio figlio, basterebbe un solo battito di ciglia a farmelo sentire vivo».

 
 
 

Oggi cominciano a uccidere Eluana: fermiamoli. "Inaccettabile" è farla morire di fame e di sete

Post n°2554 pubblicato il 06 Febbraio 2009 da Antalb
 

Editoriale del quotidiano il Giornale di martedì 6 febbraio.


Quando abbiamo saputo che il governo stava preparando un decreto per bloccare il percorso che porterà Eluana alla morte, noi del Giornale - che su questa vicenda diamo spazio a tutte le voci in campo, ma che teniamo ben chiara la nostra posizione, che è per il «no» alla sospensione dell’alimentazione - ci siamo chiesti se uno strumento del genere, il decreto appunto, fosse la via più opportuna da percorrere. Diciamo pure che siamo rimasti perplessi, temendo una sorta di autogol per la «squadra» contraria all’eutanasia, nella quale giochiamo.


Ma poi ci siamo convinti che, per quanto inusuale e impopolare possa essere, è meglio un decreto che una morte per fame e per sete. Ieri molti - Veltroni, ad esempio - hanno detto che un simile provvedimento sarebbe «inaccettabile». Altri hanno aggiunto che, così facendo, il governo giocherebbe sporco. Può essere. Ma, se proprio vogliamo metterla sul piano della pulizia della forma, non ci è sembrato lindo neppure il punto di partenza, cioè il decreto della Corte d’appello di Milano che autorizza Beppino Englaro a sospendere acqua e cibo a sua figlia. Le sentenze vanno rispettate, certo: ma possono anche essere criticate, senza che il presidente della Corte d’appello gridi allo scandalo come ha fatto.


Intanto perché è evidente a chiunque non abbia gli occhi bendati che a tale decisione si è arrivati con un escamotage quanto mai dubbio: le testimonianze di tre persone che sostengono di aver sentito dire da Eluana, venti e più anni fa, che avrebbe preferito morire piuttosto che restare in coma. Su quanto sia attendibile una siffatta ricostruzione della volontà di una persona, c’è come minimo da discutere. Ma, soprattutto, è evidente che i giudici sono andati oltre il loro mandato, sostituendosi al parlamento, e introducendo di fatto una legge che in Italia non c’è. Siano più obiettivi, quindi, coloro che parlano di «indebite ingerenze» del governo.


Il decreto non sarà formalmente impeccabile, ma oggi a una persona che non può esprimersi verrà staccato il sondino che la alimenta. Ben venga, quindi, qualunque atto - un decreto, un’ispezione, una nuova inchiesta della Procura - che fermi la mano di chi ha deciso che un altro deve morire.

 
 
 

Ma ora non si può chiedere il silenzio

Post n°2553 pubblicato il 06 Febbraio 2009 da Antalb
 

Editoriale di Mario Giordano su il Giornale di giovedì 5 febbraio.


E adesso chiedono il silenzio. Ma certo: che resta ancora da dire? Eluana va a morire e la morte si deve tacere. Non si deve raccontare. La morte non è chic, stona un po’ con l’eleganza dei pensieri vip. Una morte di fame e sete, poi. C’è qualcosa di più terribile, c’è qualcosa di più straziante? C’è qualcosa che stride di più con la cipria del conformismo? E allora avanti: tutti a chiedere di calare il sipario, di stendere un velo, di rispettare il riserbo. In fondo la battaglia è vinta, no? Il principio è stabilito: ora in Italia si può morire per legge. L’eutanasia è arrivata per via giudiziaria. Che altro si deve aggiungere? Niente. C’è una ragazza che muore, c’è una ragazza che viene uccisa, ma questo è un particolare. Non si deve dire. Non si deve far sapere. Non più. Avanti con il prossimo caso. E intanto ricordatevi: tutti al Cafonal del sabato sera. Magari in viola, ma solo perché fa trendy. Guai a chi parla ancora di Eluana e di morte, però.


Il Tg de La7 annuncia di aver staccato «la spina dell’informazione». L’Unità pubblica a tutta pagina il titolo rosso «Silenzio» (e la foto illustra il gesto eloquente di chi chiede di tacere). «Silenzio per Eluana», dice l’editoriale Europa. «Silenzio per Eluana» chiedono le parlamentari del Pd Livia Turco e Barbara Pollastrini. «Cresce il partito del silenzio», strilla il Corriere. «Adesso silenzio», concorda il Riformista. «È il momento del rispetto», fa eco da destra il Secolo d’Italia. E forse sarò il solito controcorrente, ma in mezzo a tutti questi che invocano il silenzio, a me, oggi, è venuta una grande voglia di urlare.


Ma sì, non si può tacere di fronte a quello che sta accadendo a Udine. Non si può. Non più. Scusatemi, ma l’hanno voluto loro. Hanno fatto di Eluana un caso, hanno fatto di Eluana un emblema. Sono andati a prenderla nella sua stanza di Lecco, dove da anni le suore la curavano amorevolmente, in silenzio (loro sì), nel riserbo (loro sì), con rispetto (loro sì). L’hanno portata in giro come una bandiera, l’hanno esposta come un labaro o uno stendardo. Hanno sbattuto la sua vita in pasto ai tribunali, hanno messo la sua esistenza nelle mani dei giornali. Hanno fatto di una sofferenza privata un caso pubblico, di un dramma personale una questione nazionale. E adesso, dopo anni di riflettori accesi, e interviste a settimanali e tv, dopo anni di talk, dibattiti, forum, libri, ospitate, Bruno Vespa, Fabio Fazio, Maurizio Costanzo Show, adesso ci chiedono il silenzio? Con che coraggio?


Ancora ieri il papà di Eluana era in tv, intervistato a Porta a Porta. E ancora ieri era intervistato sui quotidiani. A Repubblica ha detto che sua figlia è un «simbolo». Ecco: se ha accettato che sua figlia diventasse un simbolo, se ha fatto di tutto perché sua figlia diventasse un simbolo, ora non può chiedere il silenzio. Non può chiedere il riserbo. Non si può essere simboli nel silenzio e nel riserbo. E forse è vero, come diceva ieri alla Stampa, il medico Mario Riccio, quello di Welby, che nei reparti di rianimazione degli ospedali, senza che nessuno se ne accorga, «si stacca la spina 18mila volte l’anno». Forse è vero. Anzi, sicuramente è vero. È la coscienza dei medici, l’intesa coi parenti, spesso un tacito consenso, un gesto pietoso e condiviso.


Ma Eluana non fa parte di quei 18mila. Eluana non muore per un tacito consenso o per un gesto pietoso. Muore per una sentenza che, di fatto, sostituisce una legge. E questo perché, da un certo punto in avanti, è stato deciso (mica da noi, mica dai giornali brutti e cattivi, mica dall’informazione dei soliti sciacalli) che lei diventasse un simbolo. Un caso. È stato deciso che la sua tragedia privata diventasse vicenda pubblica. Hanno voluto spremere il suo corpo inerte, hanno voluto ricavarne un distillato universale, un principio valido per tutti, un diritto scolpito dalla giustizia dentro la nostra storia e dentro le nostre coscienze. Non per esaudire la sua volontà, come è stato detto. Piuttosto, per forzare la nostra. Per costringerci, attraverso la pietà umana, ad aprire le porte a provvedimenti che sono e resteranno disumani.


Per questo non si può tacere di Eluana. Non più. È troppo tardi, è troppo ipocrita ora. L’abbiamo seguita fra i decreti e le corti, fra i palcoscenici dei tribunali e quelli della Tv: ora bisogna seguirla nell’ultimo tratto, bisogna raccontare minuto per minuto quello che accade dentro quella stanzetta, bisogna salire passo dopo passo il suo calvario che diventa il nostro calvario. Bisogna guardare in faccia Eluana fino all'ultimo. Anche se sarà duro. Anche se sarà meno chic di un articolo di Adriano Sofri, che in questo caso non vuole parlare di omicidio, lui che se ne intende. Anche se saremo sconvolti come il medico che l’ha accompagnata da Lecco a Udine in ambulanza e ora dice: «Non sarò mai più lo stesso». Bisogna parlarne ancora, bisogna dire tutto, perché Eluana è diventata un simbolo, come dice suo papà. E in quanto simbolo, inevitabilmente, vive sotto gli occhi di tutti e muore sotto gli occhi di tutti. Ma forse è proprio questo che fa paura, forse è proprio per questo che si chiede il silenzio: perché un conto è sopprimere un simbolo (morto un simbolo se ne fa un altro), un conto è sopprimere una vita. E accompagnando Eluana sino all’ultimo istante, raccontando i suoi giorni di agonia, c’è il rischio di rendersi conto che lei è molto più di una battaglia, molto più di una bandiera, molto più persino di una storica sentenza. Lei è semplicemente una persona.

 
 
 

La débacle di Barack, il re dei lobbysti

Post n°2552 pubblicato il 06 Febbraio 2009 da Antalb
 
Tag: Obama

Luna di miele è diventata da tempo un’espressione stantia, presidenti e primi ministri di tutto il mondo si trovano realtà faticose da affrontare subito, e il consenso si erode facilmente. Ma quella di Barack Obama, presidente tanto pompato da essere icona pop e micidiale veicolo di marketing, si può definire una autentica débâcle. Non fosse per l’ipocrisia che ne ha circondato l’irresistibile ascesa, gli untuosi media europei lo darebbero già per arrogante presidente in crisi dopo quindici giorni di Casa Bianca. Sarà stata la maledizione del giuramento sbagliato, e ripetuto senza telecamere e in gran segreto, sarà perché a fare troppe promesse, e a inneggiare all’era nuova, si rischia grosso in quella democrazia compiuta che sono gli Stati Uniti d’America, ma Barack Obama è stato costretto mercoledì a dire «Yes, I screwed up», sì, ho fatto una cazzata; poiché l’argomento era la rinuncia del suo mentore e amico, Tom Daschle, difeso a spada tratta come ministro ideale della Sanità, e poi obbligato al ritiro per una questione di tasse non pagate, la figuraccia è seria, altro che dream team e nuova era di responsabilità.

Le scelte sospette erano cominciate con Bill Richardson, governatore del New Mexico scelto per il Commercio, costretto ad abbandonare ancora prima dell’insediamento del presidente a causa del suo coinvolgimento in un’inchiesta aperta da un grand jury federale su alcuni episodi di corruzione. Martedì Nancy Killefer, responsabile della verifica sul budget federale, aveva ammesso di aver evaso le tasse per una collaboratrice domestica nel 2005, e aveva lasciato il posto, costringendo così alla resa anche di Daschle, accusato di non aver dichiarato centoventimila dollari durante la sua attività di lobbysta per Alston&Bird, uno dei primi cinquanta studi legali degli Stati Uniti, e per UnitedHealth Group, un gruppo assicurativo molto attivo proprio nel settore della Sanità. Proprio della Sanità avrebbe dovuto diventare Segretario Daschle, secondo i desideri di Obama. Il presidente ce l’ha fatto invece a far confermare Timothy F. Geithner, ex governatore della Federal Reserve di New York, al Tesoro, nonostante le prove di un’evasione fiscale poi sanata, ma è un incarico già macchiato e compromesso.

Il fatto è che Barack Obama dell’outsider ha solo la retorica, aiutata dal colore della pelle, ma è un vero insider, anzi è il principe dei lobbysti, nel senso di uomo dei poteri e degli interessi più forti. Dodici segretari e sottosegretari sono della stesa pasta, primo William Lynn, esponente dell’industria delle armi, nominato numero due del Pentagono con l’incarico di presiedere il comitato per l’acquisto delle armi. Capito il conflitto di interessi? Ma Obama non ha rinunciato a Lynn e agli altri.

Il ministro del Tesoro, il criticatissimo Geithner, e il superconsigliere Lawrence Summers, sono legati a Citigroup, e alle banche di Wall Street responsabili in grande parte dell’attuale tremenda crisi economica. Tra le promesse elettorali già abbandonate naturalmente spiccano le iniziative cosiddette pacifiste e di distensione. Basta avere l’attenzione di separare la propaganda delle dichiarazioni dalla realtà delle decisioni e la parola terribile, continuità, spunta. Obama aveva promesso il richiamo delle truppe in Irak «entro un anno», ora parla di «ritiro sostanziale» di un numero non precisato di soldati, mentre gli strateghi del Pentagono spiegano che una parte delle truppe Usa rimarrà almeno fino al 2011.

Aveva enfaticamente annunciato la fine delle operazioni di «rendition», i rapimenti segreti all’estero di presunti terroristi e il loro trasferimento in altri Paesi, dove verrebbero torturati, ma nel decreto presidenziale, si limita ad auspicare la fine di queste pratiche. In Afghanistan non si capisce ancora se la grande operazione annunciata per sconfiggere i talebani avrà o no un seguito.

Infine, certo di aver dimenticato numerosi altri bluff e «cazzate» varie, come quella tanto strombazzata sull’aborto, che è un mero ripristino, come ai tempi di Bill Clinton, del finanziamento alle organizzazioni favorevoli alla pratica, vi invito a seguire la stampa americana. È già pronta ad azzannare il dream president, per fortuna.

 
 
 

Di Pietro accusa Napolitano per divorare il Pd

Post n°2551 pubblicato il 06 Febbraio 2009 da Antalb
 

Di Pietro è tornato alla carica contro il Quirinale. Dopo l’incidente di Piazza Farnese (ricordate le frasi sul «silenzio mafioso» di Napolitano con l’accusa di non essere più arbitro super partes?), il capo dell’Italia dei Valori è passato all’intimidazione diretta. È partito mercoledì l’ultimatum: la legge che regolerà le intercettazioni telefoniche non deve essere controfirmata dal presidente. Molti pensano che l’ex pm non abbia senso dello Stato, alcuni si convinceranno che Di Pietro è uscito di senno con questo continuo e offensivo tirare il presidente per la giacchetta. Ma forse c’è di più. Il «di più» ci aiuta a capire meglio la strategia e la tattica del capo dei manettari italiani.


Tatticamente Di Pietro deve registrare un sostanziale isolamento, malgrado le timidezze di Veltroni, nel panorama politico italiano. Se si guarda con attenzione al vecchio e tradizionale mondo giustizialista ci si accorge che sono venuti meno molti appoggi. Di Pietro ormai fa sponda con poco più di cinque o sei procure in Italia, con consulenti alla Genchi e con giornalisti che faticano a stare sulla cresta dell'onda. Le vecchia guardia giustizialista e molte procure lo hanno mollato. Sintomatica la dichiarazione di tre giorni fa di Francesco Saverio Borrelli, storico capo del pool di Milano, che ha criticato l’eccessivo uso delle intercettazioni che fanno oggi le Procure della Repubblica.


La solitudine porta Di Pietro a difendere rabbiosamente i suoi alleati e le sue postazioni. Da qui la necessità di tenere «caldo» il tema «giustizia». Di qui l’offensiva. La certezza che al Quirinale siede uno dei più tenaci avversari del giustizialismo lo fa infuriare e lo spinge all’attacco preventivo per creare le condizioni di un rilancio del movimento che fa capo al suo partito, a Micromega, al gruppo di intellettuali che hanno lasciato l’area del Pd, come il sen. Passigli e il prof. Arlacchi, oltre che uomini di lettere come Tabucchi e Camilleri. Di Pietro non può star fermo. Il Quirinale gli sembra un bel bersaglio per combinare assieme difesa e attacco.


Ci sono altre due ragioni per cercare di dare un senso all’intimidazione continua verso il Quirinale. In un Parlamento semplificato, Di Pietro vuole vestire i panni della forza politica anti-istituzionale. Il suo obiettivo, dichiarato martedì nel corso della trasmissione di Enrico Mentana su Canale 5, è quel dieci per cento elettorale alle europee che gli consentirebbe di entrare nel novero dei partiti stabili. Questa cifra di voti Di Pietro pensa di raggiungerla raggrumando tutto il mondo che tradizionalmente si colloca all’opposizione e che oggi vive la crisi drammatica delle formazioni della sinistra radicale. Che cosa c’è di più anti-istituzionale dell’attacco alla più rappresentativa delle istituzioni? Di qui il fucile puntato sul Quirinale.


Di Pietro ha, inoltre, sempre nella sua corsa verso il dieci per cento elettorale, un altro obiettivo: il Pd di Veltroni. Dopo aver costretto l’ex sindaco di Roma ad un patto leonino (la storia ci dirà quali sono le vere ragioni che hanno spinto Walter a stipulare questa alleanza), Di Pietro vuole prosciugare la periferia dei democrats. L’attacco a Napolitano si riverbera immediatamente sul Pd. Napolitano, infatti, è la personalità più rilevante dello schieramento di centrosinistra. Mettere in discussione il Quirinale, e rappresentarlo come il luogo dello scambio occulto con Berlusconi, significa raccontare agli elettori scontenti che nessun uomo del Pd, anche quelli che ricoprono cariche rilevanti, è al di sopra di ogni sospetto. Due piccioni con una fava. L’attacco al Quirinale, nei progetti dell’ex pm, dovrebbe esaltare il gauchismo più esasperato e convincere elettori del Pd che non c’è più nulla da fare e che conviene affidarsi alla cura Di Pietro.


Nel ragionamento non bisogna trascurare anche ragioni di più bassa lega. Di Pietro vive anche lui, poveraccio!, l’assedio della magistratura attorno alla sua famiglia e ad alcuni suoi uomini. Quasi tutti nel suo partito lo seguono, molti non lo amano più. L’attacco a Napolitano serve a distrarre l’attenzione. E a riprendere il centro della scena. Ma al centro della scena c’è ormai un partito che confina con l’eversione quando difende magistrati deviati, spioni incalliti e si impadronisce di spezzoni della Rai.

 
 
 

Uccidono Eluana nel modo più atroce: il miracolo in cui speriamo

Post n°2550 pubblicato il 05 Febbraio 2009 da Antalb
 

Scusate ma c’è una cosa che non capiamo. Se Eluana Englaro «non soffrirà perché è già morta 17 anni fa», come ha detto martedì il primario di anestesia di Udine Amato De Monte, se insomma non avverte nulla perché ormai è «un vegetale», come ha detto sempre lo stesso prof, qual è il beneficio che avrà nel passare dalla clinica di Lecco dov’era curata dalle suore alla tomba? Se davvero non sente né dolori né piaceri, se insomma non soffre perché non ha più alcuna coscienza, dov’è l’atto di pietà nel farla morire? Dov’è l’atto d’amore?

Perché questo dicono coloro che vogliono staccarle il sondino che la alimenta: dicono che è un atto di amore per lei. Ci viene il sospetto che, come in tanti casi di eutanasia, sia chi resta - e non chi se ne va - a cercare nella fine un conforto.

Ma anche qui. Siamo sicuri che Beppino Englaro troverà pace quando finalmente avrà vinto la sua battaglia? Quando sua figlia sarà morta davvero?

Siamo sicuri che non proverà rimorso? Che non sentirà ancor più vuote le sue giornate, finora occupate dalle carte bollate, dai ricorsi, dalle interviste, dall’affannosa ricerca di una clinica che accogliesse la sua richiesta?

Siamo sicuri che non avvertirà un drammatico scarto tra la speranza a lungo coltivata e la realtà che si troverà ad affrontare ogni mattina? Ha detto, Beppino Englaro: «Mia figlia è stata ridotta così dalla medicina e la medicina dovrà porre fine a questo incubo». Siamo sicuri che non si troverà a vivere un incubo ancora peggiore? Che non si sentirà vittima di un grande inganno?

Tra pochi giorni Eluana comincerà la sua terribile agonia. Perché non c’è nessuna spina da staccare, non ci sono cure farmacologiche da sospendere: c’è solo un’alimentazione da interrompere, un’acqua e un cibo da non dare più. L’anestesista dice appunto che «non soffrirà»: a noi vengono in mente le terribili immagini di Terry Schiavo. Perché è così che Eluana morirà.

Inconsapevole strumento di una battaglia che ha ben altri fini rispetto a quelli di «non farla soffrire più», Eluana Englaro resterà nella memoria non come una persona ma come un precedente, un simbolo, una bandiera da sventolare per chi avrà introdotto un principio: quello che permetterà a qualcuno di stabilire che un altro è un «vegetale» e non ha più diritto - naturalmente per il suo bene - di mangiare e di bere.

Morta Eluana, chi potrà decidere quando è lecito staccare il sondino che alimenta e quando no? Quanti pazienti in coma saranno considerati casi del tutto assimilabili a quello di Eluana? E un anziano malato di Alzheimer, non è anch’egli incosciente? Anch’egli incapace di alimentarsi da solo? Anch’egli nutrito da qualche suora? La morte per fame e per sete di Eluana Englaro sarà la prima di tante altre, e ogni volta, caso per caso, gli scrupoli saranno sempre meno rigorosi, le resistenze sempre più fragili.

Noi non abbiamo certezze sul labile confine tra il dovere delle cure e l’accanimento terapeutico. Però avvertiamo - chissà, forse più con il cuore che con la ragione - un brivido sinistro nel seguire questo viaggio da Lecco a Udine, un viaggio che ci appare così lugubre e macabro da non farci capire come possano, in tanti, salutarlo come una «conquista di civiltà»; come possano, in tanti, dire e scrivere che è «un viaggio verso la libertà».

Ecco perché speriamo in un miracolo. Che non è la guarigione di Eluana (magari, accadesse) ma una specie di ripensamento, di un flash che faccia perlomeno sospettare a Beppino Englaro che c’è un qualcosa di invisibile, ma di reale, che fa della stanza delle Misericordine di Lecco un luogo ben più luminoso rispetto alla stanza della «Quiete» di Udine. Un qualcosa che assomiglia molto alla differenza tra l’amore e il nulla.

 
 
 
 
 

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