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Il peso di una libellula
Post n°2199 pubblicato il 31 Luglio 2014 da gratiasalavida
Di quanto avrebbe potuto dire, della sua vita, nulla disse. E nulla disse perché nessuno gliene aveva chiesto il racconto. A pensarci bene, l'essenza del suo viaggio in linea retta lungo il tempo era proprio la ricerca dell'istante. L'istante di grazia in cui trasgredire la legge implacabile della successione lineare dei secondi, dei minuti, delle ore, dei giorni, dei mesi, degli anni. Trasgredire ricorrendo alla memoria. La memoria, tuttavia, non è facile da rincorrere. La memoria va blandita, accarezzata, sollecitata come l'amante che voglia vezzosamente negarsi all'omaggio d'amore che pure, intensamente, desidera. La memoria non si offre facilmente, come il ricordo. Il ricordo, se lo chiami, viene. Si offre spudoratamente a chiunque voglia servirsene per rivisitare il passato e farne bilancio. Il ricordo è aperto, non alza barriere, non offre resistenze. Apre il proprio grembo con generosità. A chiunque. Il grembo del ricordo, tuttavia, è freddo. Chiunque se ne serva - e tutti se ne servono con disinvoltura e, talora, con l'urgenza di fare presto - ne riemerge col senso indefinito di una insoddisfazione fastidiosa, quasi dolorosa. Dal ricordo si riemerge con addosso il sapore un po' rancido del fallimento. La cifra del ricordo è il non compiuto. Il non compiuto declinato in tutte le forme possibili e non realizzabili del desiderio di rivivere gli istanti in cui siamo stati intensamente felici, o intensamente infelici. Comunque intensamente vivi. La memoria. L'irrompere della memoria è la realizzazione di uno stato di grazia. Uno stato di grazia che si realizza compiutamente, nell'arco brevissimo di un istante. Un solo istante regala il sapore e il senso di una intera esistenza nella forma piena della soddisfazione. ... Nessuno le aveva mai chiesto il racconto della sua vita. Se qualcuno lo avesse fatto, e non lo fece, lei avrebbe risposto che aveva speso la vita nella ricerca dell'istante. L'istante perfetto. L'istante perfetto in cui il tempo si apre e non mostra. Si apre e accoglie. Lo avrebbe detto, se qualcuno glielo avesse chiesto. Nessuno, tuttavia, si era fatto avanti. Capita. Capita, talora, che alcune esistenze siano, agli occhi degli altri, invisibili. O, più che altro, silenziose. Un'esistenza è silenziosa quando non suscita la voglia di chiedere. Un'esistenza è silenziosa quando passa inosservata. Quando "perché?", "per chi?", "quando?", "dove?", "come mai?" sono domande che mestamente implodono nella interiorità di quanti vengono a contatto con un'esistenza che non suscita alcun tipo di interrogativo, perché la si dimentica nell'istante stesso in cui la si perde di vista. Forse ancora prima di averla persa di vista. La si dimentica anche avendola sotto gli occhi tutti i giorni. Lei era così. Era nata. Era stata bambina, poi adolescente, poi giovane, poi adulta. Vecchia, infine. Consapevole. Sempre consapevole. Di aver attraversato le vite di molti con il passo discreto e silenzioso che si attribuisce ai fantasmi. I fantasmi, tuttavia, hanno una loro personalità, dovuta all'impronta loro conferita dal corso della vita vissuta. Lei no. Un fantasma labile e sbiadito che silenziosamente aveva atraversato la vita di molti, passando assolutamente inosservata. Tanti anni prima, quando era giovane e ancora piena di aspettative verso la vita, aveva osato una ribellione. Aveva osato l'azzardo di sembrare diversa da ciò che era. Aveva cercato di appesantire il passo. Aveva tentato, con tutte le proprie forze, di pestare i piedi sul pavimento liscio delle vite che si trovava ad attraversare, così da provocare il rumore necessario ad attrarre l'attenzione dei detentori di quelle vite. Quello che aveva scambiato per il fragore assordante di una bomba, alle orecchie dei tanti di cui voleva attrarre l'attenzione era parso il lieve fruscio di un battito di ali. Il battito delle ali di una libellula, quando lievemente si posa sulla superficie di una pozza di acqua ferma. Per un attimo si solleva il capo. Poi si guarda altrove. Con gli anni si era rassegnata a diventare quello che era. Una libellula. Non si era rassegnata, tuttavia, al fallimento nella ricerca dell'istante. L'istante prezioso in cui il tempo si apre e accoglie. E la memoria lo invade con la forza, propria della memoria, di riportare in vita il passato. E lei, che era scorsa attraverso la vita di molti come un fantasma, cercava, ostinatamente cercava e voleva, la realizzazione dell'istante compiuto, in cui il tempo si apre, la memoria si apre e rivela, in un battere di ciglia, il senso compiuto di una intera esistenza. Era vecchia ormai. Molto, molto vecchia. Era arrivato il momento di morire. Che bello, si disse, sapendo di essere giunta ormai alla fine. Che bello. Lo dicono tutti. Lo dicono tutti che prima di morire si ripercorre in un istante, in un istante solo, tutta l'esistenza, rivivendone la successione lineare in una sorta di sfera capace di compenetrare passato e presente. Che bello, si disse. Ora forse saprò perché sono vissuta, io che sono passata attraverso le vite degli altri senza farmene accorgere. Io che sono passata attraverso la mia vita senza accorgermi di esserci passata. Che bello, si disse, ora conoscerò il senso. Perché un senso c'è, si disse, ci deve essere. Si disse. E morì. Sola. Nel letto di un ospizio, ove la solitudine sempre confina la fase declinante di quegli esseri che in vita non hanno saputo o avuto la possibilità di stabilire una qualche forma di relazione con il prossimo. L'infermiere che sempre, al mattino, passava a misurare la temperatura dei ricoverati nell'ospizio, si accorse che era morta. Invano tentò di rammentarne il nome. Non ebbe bisogno di chiuderle gli occhi, perché se ne era andata nel sonno. Non poté fare a meno di notare che sulle labbra, incise dalle rughe degli anni, la morte aveva fissato un sorriso.
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sono esclusivo frutto della mia creatività. Cinzia M.
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