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Uno stupido racconto (3)

Post n°136 pubblicato il 16 Aprile 2012 da lab79
 

Sentiva invece ora, all'improvviso, il bisogno di guardare fuori dalla finestra che si affacciava verso la strada principale. Sentiva il bisogno di ascoltare la gente, di sentire l'aria umida in faccia. Ma era notte, non c'era più nessuno, e bastò una lacrima - una sola, quando ormai non sembrava più possibile- a bagnargli il viso e farlo sentire infinitamente solo. Cercò di dormire, di fissare un punto cieco e di smettere di pensare. Cercò di dormire, e non ci riuscì. Ma aveva svuotato la sua disperazione, i suoi dolori più profondi. Ora i suoi ricordi scorrevano dolci e passati, senza più avere addosso il profumo dei sentimenti del presente. Si ricordò di quell'occasione in cui la portò al parco, a giocare con la luce primaverile che ormai illuminava il mondo. Mano nella mano, si divertivano a vedere gli occhi incantati del mondo che li osservava con curiosità e benevolenza. Non perchè fosse felice della loro felicità, ma perchè così, come padre e figlia, era quello che il mondo voleva vedere. Non gli amanti che in realtà erano, i solitari amanti senza speranza e forse persino senz'amore, che in realtà erano. Mano nella mano. C'erano degli istanti, scintille di tempo, in cui si sentiva stupido a fingersi ragazzino. Ma subito dopo si chiedeva se era lui che giocava a fare il ragazzino o lei che si fingeva donna. Forse entrambe le cose, o forse più semplicemente non fingevano affatto. Forse avevano finto per tutta la loro vita precedente, forse solo dopo il loro incontro fingevano la verità (Perchè si finge sempre, comunque). Ma un istante dopo, era già passato un giorno. E non aveva tempo di chiedersi della sua felicità. Gli sembrava di vedere il sole, quando lo raggiungevano quei ricordi. E non si sbagliava, perchè il sole del mattino, l'ennesimo, lo aveva  sorpreso ancora a scavare a mani nude nel sottosuolo della sua recente felicità. Ed era di nuovo giorno. Buongiorno, le diceva. La baciava e le accarezzava i capelli. E tutto quello che lei faceva era girarsi dall'altra parte, masticare cinque parole incomprensibili e riaddormentarsi. Era ora di fare il caffè. La cucina profumava di caffèlatte, da quando lei era in casa, e la colazione aveva finalmente perso il gusto amaro che aveva avuto durante tutta la sua vita. Certe volte, mentre la guardava - angelo dai capelli arruffati, gli occhi sonnolenti e il pessimo carattere di prima mattina - si chiedeva il perchè della sua presenza solo ora,  solo allora. L'accompagnava a scuola, ogni mattina, e ogni mattina si sorprendeva di quanto fosse identica e diversa, dalla madre. La ricordava ancora, quando aveva circa la stessa età. Lui poco più. Ed era stata una storia come tante, piena di piccole ordinarie banalità, come tutte quelle storie che ognuno di noi, con il passare del tempo, finisce per raccontare o ricordare come se fossero solo storie da niente, ma che in realtà sono i mattoni che chiudono il fondo dei nostri cuori. Sarebbe rimasta una storia tra le tante, se lei non se ne fosse andata abbandonandolo senza alcuna ragione apparente, si fosse sposata, e qualche mese dopo avesse dato alla luce quel giocattolo che ora appoggiava la sua testolina piena dell'interrogazione di matematica preparata insieme il pomeriggio prima, contro il finestrino della macchina. Lei dormiva. La fissava con la coda dell’occhio chiedendosi se avrebbe dovuto rispondere al buon senso, e recidere lì quel fiore del male che si ostinava a lasciar crescere nel giardino del suo cuore, e che gli piaceva chiamare amore.  Sorrise, ingranò la marcia e attese il semaforo verde. Non era poi così importante.

 
 
 
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