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"..can I start this again?.."

Post n°148 pubblicato il 07 Giugno 2012 da lab79
 

Le 08.30 di mattina. La notte è stata lunga, ma è definitivamente finita. Io sono qui, le scarpe sul cemento, il sole sulla fronte e dentro gli occhi, tanto luminoso da oscurarmi la vista e illuminare gli angoli ciechi dei miei pensieri. Le mani sul pallone ruvido, e le dita ad accarezzarne le venature alla ricerca di un appiglio al quale ancorarsi e sul quale spingere, per dargli la giusta rotazione, e ad ogni rimbalzo, il riverbero argentino dell'aria che rimbomba tesa all'interno e non trova altro sfogo se non quello di scaricare l'energia cinetica contro le pareti interne, permettendogli un rimbalzo regolare e prevedibile. E' una bellissima giornata d'estate ed io, colmo di un sonno rutilante di sogni ancora da sognare, non posso che consumarla avidamente. Un rimbalzo, due. Al terzo faccio passare la palla tra le gambe, dalla mano destra a quella sinistra, segue un rimbalzo sul posto durante il quale il corpo gira su se stesso in senso antiorario in modo da ritrovarmi la palla sul lato destro, cambio passo, faccio dei rimbalzi più brevi e veloci piegando le ginocchia e spingendo il pallone più col polso che con la spalla, alternando angolazione di rimbalzo e cambio di mano il più velocemente possibile. Corro. Punto il tabellone e conto i passi: uno, due (e le mani si stringono entrambe sul pallone) e tre. Salto e sollevo il pallone sopra le spalle, cercando di accompagnarlo in quella che sarebbe la traiettoria ideale, lo trattengo dolcemente in attesa di rilasciarlo nel momento in cui le mie bracia sfioreranno il punto più alto della parabola al quale possono arrivare, ma il maledetto mi scappa dalle mani, ma che dico, dalle dita,  e se ne va beffardo a sbattere contro l'interno dell'anello per rimbalzare dietro alle mie spalle intanto che io atterro pesantemente sui miei talloni, alla fine di un volo che era di Icaro nelle intenzioni, ma di quaglia nei risultati.

 Una volta mi veniva meglio.

Lo penso un pò deluso del me stesso che ora suda tre camice a inseguire il pallone a passi lenti, mentre le restanti quatto le terrà per il prossimo tentativo. C'è stato un tempo in cui mi veniva meglio: Avevo il passo leggero e sbilenco dei dodicenni, ma le dita erano precise e veloci i polsi a cambiare ritmo di rimbalzo, compensando con la precisione del tiro da tre quello che mi mancava in altezza sotto canestro. Handicap che, ahimè, non ho mai risolto. Era diversa la luce del sole, la latitudine del mondo, il cemento compatto e fine del campo della scuola. Il tabellone di legno restituiva un suono pieno ad ogni rimbalzo, anche quando il tiro era sbagliato, mentre il canestro emetteva un gemito sordo, un fump! ogni volta che la parabola partita dalla linea dei tre punti compiva il suo destino perfetto finendo nella rete senza toccare i bordi dell'anello arancione.

Adesso non viene più così.

Certo, di allora ho perso l'impacciato senso di timidezza che mi portavo appresso, come un paio di pantaloni troppo lunghi per la mia altezza, che mi rendevano difficile persino camminare in mezzo alle persone. Per non dire quando c'erano le ragazze. Mi sono lasciato dietro l'ansia frustrante del dover chiedere permesso per ogni variazione dei miei impegni pomeridiani, così come gran parte dell'incertezza che mi impediva di scegliere con decisione quali dei miei capricci avrei allevato per farli diventare desideri. Ora immaginare me stesso non dico tra qualche settimana, ma persino tra qualche anno, non ha più quell'alone di improbabilità che faceva sembrare il futuro un'ingenua fantasia, come quelle che leggevo nei racconti di fantascienza che tenevo nascosti sotto il cuscino, per leggerli di notte. Ora le notti sono ore concrete dedicate al lavoro, e quando avanza tempo, alla concretizzazione dei miei progetti per il futuro, che sia tra qualche mese o tra qualche anno, non fa alcuna differenza.

Adesso è diverso.

Raggiungo il pallone che intanto, impietositosi, ha smesso di rimbalzare e rotola mollemente verso il bordocampo. Lo afferro con entrambe le mani, e lo premo con forza per assicurarmi che la pressione dell'aria sia corretta. Faccio un rimbalzo, poi due, con forza, per sentire le venature del pallone segnare i polpastrelli e ascoltare il campanellìo dell'aria all'interno che si comprime e si espande contro le pareti interne. Alzo lo sguardo verso il canestro, e con la mano libera mi asciugo il sudore dalla fronte. Non è un ricordo, non è un'illusione, nè tantomeno un sogno. E' solo un canestro arrugginito, ma è lì, che attende di risuonare di un suono diverso, ma nuovo, quando il pallone entrerà alla fine di una parabola la cui traiettoria perfetta parte da qui e da ora, se avrò il coraggio di provarci di nuovo, per finire chissà dove e chissà quando, un volo di Icaro, che però sappia d'infinito.

Posso provarci, ancora una volta?

 "Smokers outside the hospital door" The Editors

 
 
 
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