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CaffèAvevo 12 anni. Camminavamo sulle strade sterrate con le spalle cariche di legna, le bracia graffiate, le mani sporche di terra. E l'intima soddisfazione di aver imparato un mestiere da uomini. Altri, a breve, ne avremmo imparati. Le piante di caffè attendevano di essere alleggerite dal gioioso peso dei propri semi. Ma bisognava pazientare ancora qualche giorno. Intanto, scaricata la legna, e legata in fascine di grandezza regolare, i ragazzi si sbrigavano ad accatastarla ordinata contro il muro, impazienti di ricevere in premio una bibita gassata: un piccolo lusso piuttosto infrequente. Le voci si rincorrevano per il cortile, infantili ma seriose, come solo quelle dei bambini sanno essere. Eravamo poco più di bambini, in fondo. Gli adulti ci spiavano con occhio discreto, e intervenivano solo per qualche ordine perentorio eppure comprensivo della nostra goffaggine, tanto per evitare di farci del male. Anni più tardi ognuno avrebbe ricordato con affetto i pomeriggi di sudore quasi gratuito spesi in quel cortile, piuttosto che esposti al male che percorreva quelle povere strade lastricate di polvere e fango, e che rispondeva al nome di fame. Pochi ci saremmo salvati da quella povertà, alla fine, ma almeno ci sarebbe stata regalata la parvenza di una speranza, e quel momento breve come un temporale tropicale ci sarebbe rimasto per sempre, con tutta la sua ruvida benevolenza infilata a schegge tozze sulla corteccia del cuore. Quel ricordo avrebbe reso migliori anche i peggiori di noi. Ma tutto quel futuro era ancora di là da venire. A quel tempo ci rotolavamo sul cassone sporco del camion avvinghiati in una lotta tesa uno contro uno, contro ogni amico che aveva condiviso la fatica del lavoro. E anche il dolore di un pugno incassato malamente ma ben dissimulato era un piccolo orgoglio di cui farci vanto. Sorridevamo pesti e sporchi, colmi di una stanchezza antica che i poveri conoscono da sempre, e che non li abbandona mai, ma impazienti guardavamo da lontano le piante di caffé, in attesa che i loro rami potessero finalmente accogliere i nostri corpi leggeri appesi a testa in giù, a scaricarle di tanta dolcezza e tanto profumo che aveva il sapore di una promessa. Ma una promessa di quelle che solo la terra, madre a cui solo la guerra sa essere pari, poteva mantenere. |
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