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O forse quello contro le poesie è solo risentimento. Troppa l'adolescenza buttata a cercare nei loro meandri se non l'uscita dai miei tormenti, almeno un nascondiglio abbastanza intricato per poterli abbandonare. Non trovai né l'una, né l'altro. Cercai poi nella scrittura una via di comunicazione più ampia, benchè simbolica, di quanto avevo dentro. Ma poi quel ponte, troppo carico di aspettative, crollò miseramente, e si portò con sè una speranza che alla luce degli anni si rivelò solo un cappriccio. Indulgente con quel sogno da niente, ma che almeno un sogno era stato, nascosi quello scritto in un cassetto con la promessa di non rileggerlo mai più. Ma le poesie no. Non potevo perdonare loro troppe cose: il loro svelare il mio dolore a maschere, simboli archetipi dei miei mostri, e il loro rimanere mute davanti a coloro che cercavo di sedurre attraverso esse. Restarono acquattate nel buio per anni, e un giorno (anzi, una notte) all'alba di un trasloco che sapevo definitivo, le buttai via. E mentre le gettavo via, le contavo. E mentre le contavo, ricordavo le notti passate a cercare parole che si incastrassero tra loro e tutte insieme nella memoria, e magari persino nel cuore. Le buttai via tutte, una ad una. Migliaia, letteralmente (ma quanto tempo libero avevo?) e le buttai via con un sorriso, perchè ad una ad una alleggerivano il mio cuore dei tormenti dell'adolescente che ero stato e che, da quella notte, finalmente, non ero più.

Poesie che pensavo artigli, ed invece erano soltanto spine di rovi.

Infatti anche quelle poesie morte ebbero figlie: dolceamare come le more dei rovi, frutti maturi per mammiferi notturni, come guarda caso, alla fine sono diventato.

Adesso non ho più bisogno di poesie: ho ali senza piume, ali di pipistrello, per tornare a casa.

Gabrielle Aplin - Home