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Uno stupido racconto (2)

Post n°135 pubblicato il 15 Aprile 2012 da lab79
 

Sentì un alito di vento accarezzarlo da dietro le spalle, e quel soffio si estese per tutto il salone, facendo volare dei fogli di carta appoggiati sul tavolino. Alcuni semplicemente bianchi, altri documenti. Il soffio di autunno, che si era divertito a fargli visita -doveva essere entrato da una qualche finestra dimenticata aperta in chissà quale stanza della casa- all'improvviso cessò. Sul tavolo rimasero dei  bigliettini colorati con infantile dedizione, e scritti con adorante passione. Frasi semplici, complici, piccoli segreti che allora lo facevano sorridere e impazzire di...gioia?...forse. Ora non più. Li guardò, ne lesse alcuni, altri erano capovolti, quindi riusciva solo ad intuire cosa c'era scritto. Lasciò perdere. Si chiese dove fosse ora, la sua bambina. Dopo tutti questi mesi, quel giorno era stato quello più  affollato di ricordi suoi. Di solito i ricordi venivano fuori uno per volta, nel giro di giorni, o persino settimane. Ma quel giorno, forse era solo un caso, gli era già capitato diverse volte, di pensare a lei. Lo interpretò come un presagio, quindi decise di attendere. Altro non poteva fare. Inizio a piovere, probabilmente. Fuori le auto, le poche che ancora circolavano, avevano rallentato la loro andatura. Sentiva il rumore delle ruote trascinarsi sull'asfalto bagnato e sporco. In quei momenti si divertiva ad immaginare uomini misteriosi che si riparavano dalla pioggia appoggiati malinconicamente al muro in attesa del complice, dell'informatore, dell'amante...C’era stato un tempo, ma sembrava tanto tempo fa, in cui inventava storie di poliziotti solitari e spie affascinanti, e le riempiva di fantasia, di episodi romanzati e romanzeschi, e le raccontava facendo la voce profonda, stanca,  come quella di chi ha davvero vissuto tutte quelle vicende. Lei rideva, appoggiata al suo petto e illuminata ora dalla luna, ora dalle stelle, ora dalla luce fiocca dell'abat-jour. Rideva del modo in cui quel uomo grande e grosso faceva il bambino con lei, come se avesse bisogno di una mamma. Lui che poteva essere suo padre. Chissà lei dov'era, in quel momento. Forse era scritto nella cartolina, forse gli scriveva per dirgli che si, nonostante tutto, stava bene. Forse dove lei si trovava ora c'era il sole, forse là non era autunno, forse là non era nemmeno ottobre. Era felice, a pensarla così. Qualcuno aveva spento il fuoco nel camino, molto tempo prima. Forse era stato lui stesso, l'ultimo inverno. Quello stesso inverno in cui l'aveva conosciuta, un giorno d'inverno che sembrava primavera. Più che il giorno stesso, lo era lei, primavera. Erano sedute su una panchina del parco, a ridere e a guardare il mondo, più che i libri aperti sulle gambe. Forse sedici, forse diciassette anni ognuna. Sotto quel sole insignificante nel cielo di ghiaccio il suo cuore non avrebbe mai saputo scegliere, non sarebbe riuscito a fermarsi per un attimo su nessuna di loro, forse alla fine sarebbe volato via a mani vuote. Infatti, forse per caso, più per pigrizia, lasciò che fosse lei a scegliere, lei a chiedere, lei a presentarsi. In realtà, lo fecero tutte e quattro, ma fu lei a tessergli una catena intorno al cuore, intorno all'anima. A volte, in mezzo alla notte, gli sembrava di sentirla ancora, quella catena. Non il suo peso, non la sua freddezza. La ascoltava scintillare nel buio, come se volesse ricordargli d'essere sempre lì, legata a lui. Non c’era alcun bisogno.

 
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