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Uno stupido racconto (4)

Post n°137 pubblicato il 17 Aprile 2012 da lab79
 

Poi? Poi niente, quel ricordo si fermava lì. Sentì il rumore metallico del tram che correva sui binari. La fermata era poco dopo casa sua, erano forse le sei, forse le sette. I bambini cominciavano a uscire di casa per andare a scuola, e chissà se anche la sua piccola si stava svegliando per fare colazione, ripassare un'ultima volta la lezione e andare a scuola. Si sentiva imputridire dentro, a pensarla così. Un mondo intero si svegliava, ma non aveva la forza di farlo alzare dalla sua poltrona. Ma quel giorno non si svegliò blu come primavera, bensì grigio come polvere da sparo. Fuori le voci sonnolente suonavano un po’ più vecchie, un po’ più vissute. Un po’ più tristi. E ripetute. Si fermò gran parte della mattina a ricordare gli anni della sua - neanche tanto lontana! - gioventù. Quella ragazzina meravigliosa che lo aveva fatto sperare di trovare, un giorno, un po’ di felicità anche per se. Non fu così, non fu almeno lei. Ma il destino, o forse più la segreta volontà di quella ragazzina diventata ormai donna, gli consegnò anni dopo ancora quella felicità, forse nel modo più crudele. Aveva smesso di piovere, dalla porta entrava un leggero profumo di fango e fiori marciti. L'aria umida e fredda gli avrebbe fatto venire i brividi, in altri tempi, pensò. In quel momento la fede che aveva al dito scivolò e cadde per terra. La sentì sfuggire dalla sua mano e, un'eternità dopo, scintillare di oro nel silenzio umido di casa. Una lacrima sola gli strinse il petto, e scese fino al cuore nel vano tentativo di farlo affogare. Eppure era solo un anello. Il giorno che lo vide in una vetrina bianca lungo la strada che portava a casa -pioveva anche quel giorno- rimase a contemplarlo per molti minuti. E si chiese se una tale catena avrebbe potuto intimorire quel piccolo essere bianco e oro che lo aspettava a casa. Era Lunedì. E lei non ebbe paura. Forse non si rese mai davvero conto di quanto lui le avesse regalato. Sorrise, col sorriso sonnolento e infantile degli ammalati. Aveva la febbre, ma era quasi un gioco, per loro due. Lui uscì per comperare le medicine, e lungo la strada di ritorno le aveva comperato una scatola di cioccolatini e quella fede, e molto spesso gli capitava di pensare che per lei fossero state la stessa cosa. Ora quell’anello era fuggito via dalle sue dita, che immaginava curve, e magre. Troppo magre per trattenerlo ancora. Non c'era altra spiegazione. S'immaginò col viso scavato, gli occhi infossati e più pallido di quanto non fosse abituato a vedersi allo specchio. Sicuramente era così. Ora la mattina era diventata silenziosa. Era giovedì. La posta arrivava sempre mercoledì, solo mercoledì, non ne aveva ancora capito il perchè. E poi pioveva. D'autunno, piove sempre di giovedì. Non riuscì a percepire il passaggio dalla mattina al pomeriggio, quindi continuò ad annaspare dentro la memoria dei suoi anni più giovanili, perchè erano quelli che amava ricordare quando era mattina. Dopo alcune ore di silenzio si chiese se per quel giorno dovesse ancora succedere qualcosa. Quando pioveva, e l'aria diventava così grigia, di solito non succedeva più nulla. Chiudeva le sue ossa in casa, e abbracciava la sua bambina che il più delle volte si era già addormentata sui libri di scuola. Lei si scomponeva appena. Appoggiava la testa alle sue gambe e s'impossessava di una delle sue mani, il tutto senza aprire gli occhi, forse senza nemmeno svegliarsi, mentre lui fissava i dipinti della campagna siberiana appesi al muri, pieni di colori bianchi, azzurri e fango, oppure la luce color avorio che filtrava tra tende della finestra e che finiva per cadere addormentandosi sui mobili di rovere. Era quasi tutto immutato come allora, mancava soltanto lei.

 
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