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Un blog creato da Truman_2000 il 22/06/2008

The Truman Show

La mia vita è un "Truman Show", ma al rovescio: vivo in un mondo tutto mio, illudendomi di essere il protagonista della storia!

 
 

VORREI AVERLA DETTA IO

“Ogni stroncatura è

soltanto un atto d'amore

nei confronti del cinema!

- Alessio Guzzano -

 

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Barney ed io

Post n°195 pubblicato il 30 Maggio 2015 da Truman_2000
 

di Christian Rocca - pubblicato su Il Foglio, il 2 luglio 2005

Esattamente quattro anni fa è morto Mordecai Richler, l’autore della Versione di Barney. Era il 3 luglio del 2001. Non ho mai incontrato MR, eppure mi sembra di averci fatto il militare insieme. Non solo perché ho letto i suoi libri, i suoi articoli, i suoi saggi e quasi ogni cosa lo riguardasse. E nemmeno perché ho conosciuto sua moglie e i suoi figli, né perché sono andato a vedere dove è nato, dove è cresciuto e dove ha ambientato le sue storie. Mi sembra di conoscerlo bene anzi benissimo perché il suo Barney Panofsky è la creatura che meglio di ogni altra sintetizza l’essenza del Foglio che state leggendo: un giornale, per usare una famosa espressione barneyana, “totalmente non necessario” eppure, questo lo dico io, formidabile. 
Il merito, o la colpa, di questa passione per MR è di chi dirige questo giornale. Ricorderete che Il Foglio (nel 2001 si chiamava ancora così) fece un’inaudita e per certi versi scandalosa campagna a sostegno del libro di Richler. Ogni giorno, per alcuni mesi, pubblicammo recensioni, articoli, rubriche ed estratti di un romanzo che non si può dire non ci fosse piaciuto. Il libro era bello, davvero bello. Migliore di qualsiasi altra cosa avessimo letto negli ultimi anni, anche se su questo punto mi permisi di esprimere un dubbio che il caro direttore ancora mi rimprovera e su cui tornerò dopo. La Versione di Barney era ed è un libro divertente, appassionante, romantico, ruvido, malinconico, politicamente scorretto. E Barney è un personaggio che non ha remore a dire quello che pensa né alcun “timore terrazziale” di diventare una persona indesiderata e socialmente impresentabile. Barney ovviamente era il ritratto del suo autore, sebbene Mordecai Richler per vezzo sostenesse il contrario: “Ero Barney mentre lo scrivevo, ma non prima né dopo”. Eppure è evidente che sarà lui per sempre. Intanto è il suo ultimo romanzo, ed è quello che affronta i temi della malattia e della vecchiaia, quindi della morte. Poi perché è l’unico dei dieci romanzi che MR abbia scritto in prima persona. Tutti i luoghi, tutti gli episodi e tutti i personaggi, con l’eccezione della seconda signora Panofsky, sono ispirati a posti, fatti e gente reale. La prima signora Panofsky, a grandi linee, è Cathy Boudreau, una simpatica e stramba ragazza di Montreal che Richler sposò negli anni Cinquanta. MR non l’amava, almeno così diceva e scriveva. Erano amici, compagni e complici, anche se litigavano sempre. Il motivo era che lei voleva un figlio e lui no, almeno non con lei. Il matrimonio durò quattro anni, fino a quando MR si innamorò della loro amica Florence Wood, a sua volta sposata con Stanley Mann. MR conobbe Florence il giorno precedente il suo matrimonio con Cathy, mentre Barney incontra Miriam il giorno del matrimonio con la seconda signora Panofsky. 
MR e Florence avrebbero voluto sposarsi subito, ma dovevano aspettare la risoluzione dei rispettivi matrimoni. Il divorzio a quei tempi era proibito. L’unica possibilità di risoluzione del contratto era l’adulterio. Ma Florence non poteva farsi vedere con altri uomini, viceversa avrebbe perso l’affidamento del figlio Daniel. MR non aveva questo problema, così assunse una professionista, non una prostituta, ma una che faceva la “causa di divorzio” come mestiere. Presero una camera di albergo fuori Londra. Si spogliarono e si misero sotto le lenzuola. Pochi istanti dopo nella stanza fecero irruzione un detective e un fotografo che li colsero ignudi. La pantomima immortalata su pellicola arrivò in tribunale e Mordecai fu di nuovo libero. Per evitare imbarazzi ai conoscenti comuni, Mordecai e Florence lasciarono Londra e si rifugiarono in Italia, a Roma, in via Biferno 3. Quando giunsero le carte del divorzio di Florence, decisero di sposarsi ma non trovarono nessun rabbino disponibile perché Florence era incinta di nove mesi. La cerimonia fu celebrata in una chiesa presbiteriana di Montreal: “Senta, sono entrambi ebrei – disse il testimone di nozze di Mordecai al prete – Please don’t go into Jesus Christ”. Alla cena nuziale, Florence disse a suo marito: “Vado in ospedale. Finisci il tuo champagne e poi vieni in sala parto”. L’indomani nacque Noah. 
Anche la prima moglie Cathy in seguito si risposò, poi finì col diventare una suora buddista. Ora voi ve lo immaginate uno come MR accanto a una suora buddista?
In Italia La Versione di Barney fu pubblicata nell’autunno del 2000, ma non ebbe l’istantaneo successo che si meritò successivamente. Il Foglio ne scrisse subito molto bene, nella rubrica Libri, con una recensione di Mariarosa Mancuso. Altri ne scrissero meraviglie. Ma le vendite non superarono la buona routine di simili libri Adelphi. 
In quei giorni Mattia Feltri e io comprammo due copie della Versione alla libreria Mondadori che si trova sotto la redazione di Milano. Io la regalai subito a un amico che quella sera compiva gli anni. Mattia cominciò a leggerla la sera stessa, sul treno che lo portava a Bergamo. L’indomani era così entusiasta che mi costrinse a comprarne un’altra copia. Ovviamente lo disse anche al direttore, ma finì lì. Due mesi dopo, il direttore telefonò a Mattia: “Questo è un ordine: devi assolutamente leggere un libro eccezionale…”. Era la Versione di Barney. Da quel momento qualsiasi scritto di Richler o su Richler o di un parente di Richler è diventato notizia di prima pagina per il Foglio, più importante di qualsiasi altra cosa succedesse in Italia o nel mondo. Marco Ferrante ha seguito i coniugi Richler da Roma a Napoli. Sandro Fusina ha scelto ogni giorno alcune frasi del libro da ripubblicare sul giornale. Mariarosa Mancuso ha raccontato ogni aspetto del carattere delle donne di Barney. Andrea Marcenaro ha cominciato a parlare con accento canadese e da quel tunnel non è mai più uscito, come si intuisce dalla sua quotidiana Andrea’s Version. 
Poco dopo, il 3 luglio 2001, MR morì. L’anno successivo andai a Montreal per raccontare la sua vita attraverso i suoi familiari e i luoghi dove erano cresciuti lui e Barney. Sul Foglio uscirono cinque pagine intitolate “Sulle strade di Barney”, pagine che riuscii a scrivere nell’intervallo tra una spiegazione e l’altra agli increduli canadesi che non si capacitavano del successo italiano di uno scrittore che considerano assolutamente canadese, anzi la quintessenza di Montreal. Eppure in Italia la Versione di Barney ha venduto quasi trecentomila copie. Qualche mese dopo il mio viaggio, lo scrittore russo-americano Gary Shteyngart, autore del libro “Il manuale del debuttante russo” (Mondadori), fece per la rivista Slate lo stesso identico viaggio alla scoperta dei luoghi di Barney. E ne scrisse anche lui cinque puntate. 
A Montreal la moglie di MR, Florence, mi chiese come fosse iniziata la campagna pro Barney del Foglio. Le raccontai l’episodio di me e Mattia e della successiva telefonata-ordine del direttore di un paio di mesi dopo. La cosa fece molto divertire la signora Richler, la quale mi disse che certamente sarebbe piaciuta anche a Mordecai. (I Richler erano ovviamente molto contenti della campagna del Foglio e anche di certi nostri maccheronici entusiasmi: quando nel 2001 vennero in Italia qualcuno gli sottopose una copia del Foglio di quel giorno che aveva i consueti sei sette articoli su Barney più due fotografie formato poster di Mordecai, una recente e una degli anni Cinquanta. Era il nostro benvenuto in Italia a MR. La prima foto lo ritraeva con gli occhiali da vista calati sul naso. La seconda era uno scatto degli anni Cinquanta. Quando Mordecai la vide ci disse: “Ehi, sappiate che questo non sono io”. Ci sbagliammo o sbagliò l’agenzia fotografica che sotto il suo nome aveva archiviato la foto di uno sconosciuto. Jake Richler, il figlio più giovane, l’anno successivo davanti a una bistecca in un pub di Toronto mi disse di non preoccuparmi perché in fondo “è successo anche al New York Times”. Il più grande giornale del mondo aveva infatti pubblicato una foto di Mordecai che non era Mordecai. Era il cantante Leonard Cohen. “Un altro fottuto ebreo di Montréal, avranno pensato in redazione”, scherzò Jake).
In occasione del primo anniversario della morte di Richler, nel 2002, a Montreal fu organizzato un grande evento in suo onore, poi trasmesso anche dalla televisione di Stato. Il giorno precedente ero al bar del Ritz, uno dei posti preferiti da MR, anche perché si trova esattamente di fronte al suo appartamento. Con la famiglia Richler quasi al completo c’era una loro cara amica, l’attrice israeliana Haya Clayton che fu la protagonista femminile di Ben Hur. C’era anche il direttore del Foglio. A un certo punto la signora Florence mi chiese di raccontare a tutti gli altri come fosse iniziata la campagna del Foglio, cioè la storia della segnalazione del libro al direttore e della sua entusiastica telefonata successiva. Io feci finta di non capire e provai a cambiare discorso. La signora Richler però insistette e alla fine spiegò lei stessa tutto quanto: disse cioè che l’ideatore della campagna all’inizio sembrò ignorare il consiglio dei due giovani di bottega. “E’ vero” – replicò il direttore riferendosi a me – “però lui”, cioè io, “pensa che Philip Roth sia più bravo”. Io mi sarei voluto sotterrare. Oddio. Che figura. Magari lo scrittore odiato da Barney, quel Terry McIver, era proprio Roth. Mi sono risollevato soltanto quando ho scoperto che Richler e Roth in realtà erano amici. E l’ho scoperto solo questa settimana, leggendo un bellissimo libro su MR appena uscito in Canada e scritto da Michael Posner. Si intitola “Mordecai Richler, The last honest man”. Richler e Roth erano compagnoni (un altro era Sean Connery, ex spasimante di Florence non ancora in Richler). Una sera, a Londra, Mordecai e Philip si sono sfidati a duello su chi avesse avuto il coraggio di dire più oscenità nel bel mezzo di una cena. Richler aveva già pubblicato Cocksure, una satira della Swinging London così scabrosa da costringere i suoi parenti a togliergli il saluto. Roth invece stava lavorando al Lamento di Portnoy. Al tavolo gli altri commensali non potevano credere alle loro orecchie. La padrona di casa era bianca per l’orrore che si stava consumando al suo tavolo, ma non poteva fare niente per fermarli. Nessuno aveva il coraggio di intervenire. I due sono andati avanti per un’ora, aumentando sempre di più il grado di sconcezze. Non vinse nessuno dei due. Finì in parità. Alla fine della cena, Roth disse a Richler: “Perché non vieni con me a New York ed entri nel business ebraico?”. 
Il libro di Posner è una miniera di notizie sul conto di MR. Sia pure nascosta, e mai detta esplicitamente, ce n’è una mica male che io avevo cercato e non ero riuscito a trovare. Avevo chiesto a tutti, amici e parenti e conoscenti, di svelarmi chi fosse questo Terry McIver. Nel romanzo era un vecchio amico di Barney diventato scrittore di successo e divorato dall’invidia. Barney lo detestava. Nessuno mi rispose. Nessuno mi volle dire niente. Capii che in qualche modo MR si fosse pentito delle cattiverie che gli aveva dedicato. Nel libro di Posner il nome non c’è, non si fa proprio cenno a McIver. Però compare spesso Brian Moore: negli anni Cinquanta e Sessanta era un grande amico di Mordecai, che allora tutti chiamavano “Mutti”. Moore era più vecchio di qualche anno e non sopportava il fatto che i suoi romanzi non riuscivano a trovare un editore, mentre il giovane Mutti ce l’aveva fatta. Moore infine pubblicò il suo primo romanzo solo grazie a una “raccomandazione” di MR alla propria casa editrice. Moore quindi era in debito con Richler. Così l’invidia diventò risentimento. I due si separarono, formalmente perché MR declinò l’invito di un giornale a recensire il libro dell’amico. Moore se la segnò e ruppe i rapporti, ma entrambi si controllavano a vicenda: quante copie vendo io, quante copie vende lui, quali premi ho vinto io e quali riconoscimenti ha avuto lui. 
Alla morte di Moore, nel 1999, Richler scrisse un commosso necrologio sul National Post tentando di recuperare il rapporto e svelando che l’anno precedente, quanto MR fu operato la prima volta di tumore, il ghiaccio fu rotto da una bella lettera del suo ex amico. “Quando la lessi mi sono scese le lacrime – scrisse Richler – a pensare alla nostra amicizia stupidamente troncata. Ma ora è troppo tardi”. Anche perché con La Versione di Barney, che è del 1997, aveva già cucinato a fuoco lento McIver-Moore. Ma evidentemente se ne pentì. Ecco perché tutti i suoi conoscenti non mi hanno voluto svelare l’identità dell’odiato Terry McIver.
Il libro di Michael Posner contiene una quantità industriale di episodi su MR. E’ una biografia orale, nel senso che la vita di Richler è raccontata in prima persona da un centinaio tra parenti, amici, colleghi e avversari di MR. Non è l’unico nuovo libro su Richler. Intanto il prossimo anno uscirà un “Atlante della letteratura canadese” compilato dal figlio Noah. L’anno scorso David McFarlane, un romanziere stimato da MR, ha scritto un monologo teatrale intitolato “Four Nights with Mordecai”, la storia di un attore che deve interpretare in scena MR. Di recente è uscito un altro saggio su Richler dal titolo “Mordecai & Me”, scritto da Joel Yanofsky, un giornalista-saggista ossessionato nel bene e nel male da MR. Un rapporto di amore e di odio che traspare riga dopo riga del libro, al punto che non sembra una biografia di Richler ma un’autobiografia. Un flusso di coscienza o un resoconto di una seduta psicanalitica. Yanofsky, con quel cognome già simile a Panofsky, è nato nella stessa strada di Mordecai Richler: Rue St.Urbain. Fin da piccolo MR era il suo eroe. Da grande voleva essere come lui. Quando Yanofsky ha cominciato a scrivere, la sua “ossessione” è diventata quella di diventare amico di MR, di farsi accettare, di essere considerato un suo pari. Ma gli incontri con Richler non sono mai andati oltre la stretta di mano. L’amore s’è trasformato in qualcos’altro, in una delusione innanzitutto. MR non amava l’aspetto mondano del suo successo, anzi lo detestava. Non era un chiacchierone. Era incapace di parlare del più o del meno con gli sconosciuti. Quando era costretto a frequentare i salotti, restava zitto come un pesce e ogni volta Florence lo supplicava di togliersi quella faccia da morto. Allora MR si stampava sul volto un sorriso a tutti-denti. “No, questo è troppo”, gli diceva sua moglie. MR si accendeva il sigaro e non si allontanava troppo dalla bottiglia di McCallan. Se parlava, erano guai. Gli uscivano battute e cattiverie a non finire. Florence intuiva quando stava per esplodere e spesso riusciva a evitare la deflagrazione. Ma non sempre. A un cameriere gay che gli si era avvicinato due o tre volte per fargli spegnere il sigaro, MR rispose: “Senta, mi lasci fumare. A me non interessa che cosa si mette in bocca lei”. Una volta fu cacciato da un evento organizzato in suo onore. La presidentessa del gruppo di donne che lo aveva invitato cominciò a parlare e a parlare e non la smise più. Dopo quasi un’ora di presentazione finalmente passò il microfono a MR. E lui: “Madame presidente, una lingua come la sua dovrebbe occuparsi di fellatio”. Intervistarlo era praticamente impossibile. Non rispondeva alle domande. Anche se era in diretta televisiva. Così, imbarazzato, il giornalista era costretto a chiedergli: “Ma allora di che cosa vuole parlare?”. “Parliamo di lei”, diceva lui. E quello: “Ok mi faccia una domanda”. E Richler: “Ma queste domande che legge su quel foglietto sono sue o qualcuno gliele ha scritte?”. 
A una presentazione di un suo libro, in California, un lettore gli disse: “I suoi romanzi mi piacciono, ma mi spieghi perché lei è così antisemita”. Richler non disse una parola. Silenzio assoluto. Colpi di tosse. Imbarazzo. Passarono due o tre minuti. Ancora silenzio. Il lettore allora gli chiese: “Perché non risponde?”. Richler ancora muto. Il console canadese e gli organizzatori della serata non sapevano che cosa fare. Un altro minuto di silenzio. Poi MR disse: “Sinceramente, non credo meriti una risposta”. Un’altra volta fu chiamato a tenere un corso di scrittura creativa all’Università. Entrò in aula e disse: “Dovreste abbandonare questo corso. Nessun corso ha mai aiutato uno scrittore a scrivere bene”. La lezione durò letteralmente cinque minuti, poi MR si mise a sedere, s’accese un sigaro e si bevve lo scotch. Richler non era un chiacchierone neanche in casa. Con Florence si capiva al volo. Quando suo figlio Daniel tentò di convincerlo della bontà del matrimonio gay, MR lo fece sfogare e poi con tono da patriarca gli disse: “Non mi convincerai mai”. 
Gli amici hanno passato la vita a spiegare a chi lo giudicava da questi atteggiamenti burberi che in realtà MR non era cattivo. Era solo timido, geloso della sua privacy e incapace di fingere di fronte all’ipocrisia e a quelle che lui chiamava “assurdità della vita”. Per esempio non sopportava l’intellettuale impegnato. Eppure ne era circondato: “Ma perché gli scrittori dovrebbero cambiare la società? Se uno vuole cambiare la società entra in politica, no? Provo compassione per quei romanzieri che pensano di poter realizzare dei cambiamenti politici. La verità è che le arti non sono così importanti”.
MR in sintesi era “l’ultimo uomo sincero” del titolo della biografia orale di Posner. Tutti fanno risalire il suo carattere difficile all’infanzia, al rapporto con i genitori e al loro prematuro divorzio. La mamma di Mordecai era la figlia di un intellettuale ebreo, un rabbino noto per i suoi importanti studi sulla Torah. Il padre invece aveva un’origine molto più modesta, ma infine benestante. I genitori non si sopportavano, erano troppo diversi. Quando si lasciarono, Mordecai rimase con la madre e il fratello Avrum. Ma col passare degli anni riconquistò il rapporto col padre, come si intuisce anche dalla Versione di Barney. E si scontrò ferocemente con la madre. La accusava apertamente di aver distrutto la vita di suo padre. Lei non voleva più sentir parlare di quel “bastardo”. Lui idem. Si scrissero letteracce. Lei aveva un carattere ancora più ostico del suo, al punto che Avrum la paragona alla terribile mamma del boss Tony nella serie televisiva dei Soprano. Non si sono più parlati per vent’anni, Mordecai e sua madre. Al funerale, Mordecai non ci andò. Anche col fratello i rapporti si sono interrotti. I due si sono rivisti solo poco prima che Mordecai morisse.
MR è morto martedì 3 luglio 2001 in una stanza del Montreal General Hospital. La causa del decesso è stata un’emorraggia interna successiva a un’operazione al fegato eseguita male. MR era da tempo ammalato di cancro, ma nessuno si aspettava che se ne andasse così presto. Pochi giorni prima aveva comprato un berretto per coprire gli effetti della chemio sui suoi capelli e in un negozio di Toronto aveva acquistato tutto il polveroso stock di nastri da macchina per scrivere, temeva che potessero finire. Rassicurata dai medici, quella notte Florence era tornata a casa. Così anche suo figlio Noah. Alle cinque del mattino di martedì 3 luglio gli infermieri lo hanno trovato steso per terra, davanti al letto, con i tubi staccati. Nessuno si era accorto che stava male. Nei giorni successivi si sparse la voce che Richler fosse morto per negligenza dei medici e del personale dell’ospedale. Florence incaricò Noah di indagare. Noah, come il figlio tassonomico di Barney, scrisse un lungo rapporto sulla morte di suo padre. Sì, c’era stata negligenza.

http://www.camilloblog.it/wp-content/uploads/archive/barneyeio.html

 
 
 

In morte di Erich Priebke, condannato dalla Storia!

Post n°194 pubblicato il 16 Ottobre 2013 da Truman_2000
 

E' morto Erich Priebke, il boia dell'eccidio delle Fosse Ardeatine. Fu tra coloro che, il 24 marzo del 1944, uccisero 335 persone, tra militari e civili italiani, come rappresaglia per la morte di 33 tedeschi, uccisi dai partigiani romani, in via Rasella.

E' morto a 100 anni, senza aver mai rinnegato il proprio immondo passato e, soprattutto, senza aver mai espresso una sola parola di cordoglio per le sue vittime e per i parenti di tutte le vittime della Shoa.

E' morto mentre stava scontando una condanna all'ergastolo, in regime di detenzione domiciliare, che gli era stata inflitta da un Tribunale militare italiano.

Peccato che, per arrivare a quella giusta sentenza di condanna, si sia dovuto assistere ad una pagina davvero triste e inaccettabile in uno Stato di diritto, con i giudici asserragliati in camera di consiglio per sfuggire alle rimostranze della folla inferocita e l'intervento dell'allora ministro della giustizia, Flick, per porre nel nulla la sentenza che dichiarava la prescrizione del reato ed ordinava la scarcerazione dell'imputato.

Adesso che Priebke è morto, è accaduto un altro brutto episodio, che non avremmo voluto vedere perchè è indegno di un paese civile: da una parte, manifestanti antifascisti che prendono a calci e pugni il feretro, sputando e inveendo nei confronti di un cadavere per impedire la celebrazione del rito funebre e, dall'altra, i soliti gruppi nostalgici di neonazisti che trasformano il funerale di un criminale di guerra nell'ennesima occasione per manifestare le loro folli idee negazioniste.

Personalmente, devo dire che ciò che ho visto non mi è piaciuto: in un paese civile, non si impedisce con la forza un funerale (anche se le autorità locali dovevano fare in modo che il rito funebre non si trasformasse in una immonda manifestazione neonaziosta).

Non si tratta ripartire ragioni e torti, né di riscrivere la Storia, che ha già condannato - senza appello - Priebke e chi coltiva ancora il sogno di uno Stato totalitario e assolutista.

Si tratta di manifestare il proprio pensiero senza fare ricorso alla violenza, di non dare adito a confusioni di sorta, di non sporcare con gesti insulsi la nobilità delle proprie idee: invece delle grida sguaiate e degli scontri di piazza in cui si mescolano fino quasi a confondersi i buoni ed i cattivi, avrei trovato decisamente più alto e più nobile vedere quel carro funebre sfilare tra due ali composte di persone che, in un silenzio agghiacciante, contrapponendo all'odio e alla follia altrui tutta la propria dignità, mostrando ciascuna la fotografia di una delle tante, troppe vittime innocenti dell'odio nazista e reggendo insieme lunghi striscioni di protesta, avessero lanciato al mondo il loro messaggio, fermo ma civile: "Viva la Costituzione dello Stato Italiano!", "Noi non dimentichiamo", "Perchè ciò che è accaduto non avvenga mai più", "Ora e sempre, antifascisti!"

 

"Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra costituzione!"

Piero Calamandrei, Discorso sulla Costituzione

 
 
 

La sentenza di Berlusconi e la fine della seconda Repubblica

Post n°193 pubblicato il 04 Agosto 2013 da Truman_2000
 

Non capisco cos’abbia da festeggiare chi brinda alla condanna di Silvio B., il Caimano finalmente in trappola dopo un lungo e spettacolare inseguimento giudiziario; capisco ancora di meno l’esercito di Silvio che vorrebbe rovesciare tavolo e governo a dispetto di una condanna ormai definitiva ed esecutiva per frode fiscale e tirare per la giacca il presidente Napolitano, chiedendo sguaiatamente la grazia e l’impunità per il proprio capo. In uno stato di diritto le sentenze si possono criticare, ci si può lamentare per l’accanimento vero o supposto, ma si accettano sempre. Su questo punto non si può retrocedere né avrebbe senso mischiare i campi, far cadere un governo come rappresaglia per la condanna in tribunale.

Per chi è liberale da sempre e aveva vent’anni quando Silvio B. è sceso in campo, la sentenza di Cassazione di giovedì sera provoca amarezza e qualche breve ragionamento da condividere perché chiude un lungo ciclo politico delle occasioni perse. Il nostro primo, vero, ciclo politico.

Non c’è bisogno di essere berlusconiani (o esserlo stati) per riconoscere cosa si agitasse intorno al Cavaliere in quei mesi a cavallo del 1993-94: il programma economico di Antonio Martino, una ventata liberal-liberista in un Paese ingessato da caste, corporazioni, veti, inefficienze, corruttele e uno sterminato apparato pubblico; “l’impresa al centro” e la scoperta mediatica delle Pmi, per anni culturalmente neglette o riassunte esclusivamente nella grande impresa pubblica ammanicata con la politica o privata (spesso sussidiata); una grande infornata di esponenti della società civile che entrano in Parlamento e nei parlamentini di tutta Italia dopo la cesura di tangentopoli; la batteria dei Martino, Urbani, Rebuffa, Colletti e Melograni che decisero di appoggiarlo, professori così diversi dall’universo snob dell’accademia italiana; un linguaggio chiaro finalmente all’altezza della gente, capace di superare la lingua di legno e il dissimulare continuo della Prima repubblica; e lo straordinario consenso di una borghesia più minuta e sfrangiata, esplosa coi consumi degli anni Ottanta, di quella a cui erano abituati i vecchi partiti: partite iva, ceti produttivi e professionali, piccoli e medi imprenditori, artigiani che decidono di dargli fiducia. Il blocco di una Italia moderata che avrebbe dovuto, specularmente, dare una sferzata salutareall’intero sistema politico e a una sinistra ex Pci vecchia e bolsa, miracolata dalla storia terribile del Novecento. Una specie di effetto Thatcher, in attesa del riformismo di un nostro Tony Blair.

Questi in breve sono i tratti del ciclone Berlusconi che ricorda un ragazzo liberale di vent’anni, vent’anni fa. Eravamo una piccola minoranza, certo, dentro un Paese che si stava per spaccare intorno alla figura del presidente del Milan, ma le discussioni di allora con gli amici riconoscevano comunque questo tratto alla rivoluzione del Cavaliere, spesso senza approvarla o votarla (come nel caso del sottoscritto). Stavamo in mezzo, prendendo botte a destra e a sinistra: rifuggivamo la vulgata dominante a sinistra che la storia di Silvio potesse semplicemente liquidarsi nel romanzo criminale di un personaggio che entra in politica per sfangarla dalla giustizia comprando il consenso della gente attraverso l’imbonimento del piccolo schermo, e insieme rifuggivamo l’enorme conflitto di interessi che macchiava la sua avventura (inimmaginabile in un altro Paese Occidentale e colpevolmente rimosso a destra), il suo essere esageratemente tycoon con le mani in pasta. Anche se a quel tempo era così forte l’anomalia e l’emergenza italiana (Tangentopoli, la scomparsa delle famiglie politiche della Prima Repubblica tranne l’ex partito comunista) da concedergli i tempi supplementari per stemperarlo e risolverlo (cosa che per primo il centrosinistra al governo del Paese fece mai).

Cinque anni prima della discesa in campo del Cavaliere era caduto il muro di Berlino. Per la nostra generazione quello fu l’evento con cui ci socializzammo alla vita pubblica. C’è chi lo fece con il reducismo della Prima Guerra mondiale che portò al Fascismo, chi con la caduta del Duce e la nascita della Repubblica antifascista, chi negli anni Sessanta del boom, chi nei lividi anni Settanta delle P38. Alla nostra generazione capitò con il crollo del muro e dell’impero sovietico. Dal punto di vista dell’educazione sentimentale questo ha voluto dire, negli anni successivi, certi libri, certi dibattiti, certe riviste e discussioni per la prima volta ad uso di tutti, non più a circolazione ristretta per camarille e accademie, tra censure e dissimulazioni: non parlo dell’anti-comunismo lugubre e propagandistico alla Libro nero del Comunismo di cui Berlusconi regalerà migliaia di copie durante i suoi comizi elettorali, piuttosto di un intero universo liberale fino a quel momento ostracizzato in Italia dalla cultura dominante.

Vado a memoria citando l’avventura del mensile Liberal; i libri sulla scuola marginalista austriaca, Hayek & Mises, pubblicati dall’editore Rubbettino; i pamphlet della Biblioteca della Libertà di Nicola Matteucci; la traduzione dei classici di Karl Popper; i libri di battaglia liberale della casa editrice Ideazione o di Liberilibri di Macerata; il filone di denuncia degli ex comunisti spretati, da Furet a Kostler, da Silone ad Aron. E poi la nuova visione europeista aperta dai libri dei dissidenti dell’Est come il polacco Adam Michnik e il ceco Václav Havel o i reportage di Timothy Garton Ash che descrivevano per la prima volta la fine della cortina di ferro e il futuro allargamento come la più compiuta riunificazione europea, la vera chiusura del secolo breve: dopo la fine del nazifascismo nel 1945, finalmente quella del comunismo nel 1989. Dunque un europeismo non più impastato di funzionalismo burocratico e snobismo tecnocratico, capace di fare i conti con la grande tradizione della libertà alla anglosassone. Eravamo diventati d’un tratto “ragazzi dell’Europa”, come cantava Gianna Nannini.

Tutto questo piccolo mondo effervescente, inconsueto e ostracizzato a sinistra ma non solo, vide nella fregola berlusconiana di sfondamento dentro al paludato conformismo italiano dei primi anni Novanta una possibile testa di ariete, pur vedendone tutti i limiti e i provincialismi. Potevi essere o meno dalla parte del Cavaliere, ma è indubbio che in quegli anni si aprì una finestra. Invece...

…Invece vent’anni dopo la sentenza della Cassazione suggella simbolicamente tutta l’impotenza di una rivoluzione tradita e una lunga stagione di immobilismo e disastri. Silvio B. che non ha mai voluto né saputo risolvere il proprio gigantesco conflitto di interessi (la Cassazione lo ha confermato definitivamente); il centrosinistra che non si è mai davvero rinnovato e continua a trovare il suo collante esclusivo nell’ammucchiata anti Caimano, salvo poi piegarsi (pur di sbarrare la strada a Matteo Renzi) al governo riluttante con l’arcinemico; una magistratura che resta un colabrodo corporativo troppo spesso inefficiente; un Paese di nuovo sul baratro che ha fatto la cicala per 15 anni al posto delle riforme di struttura; uno stallo politico che dura da quasi due anni e ha obbligato un vecchio presidente agli straordinari del bis al Quirinale; e un Paese che non riesce mai a chiudere in modo ordinato e naturale le proprie stagioni politiche: quella liberale del primo Novecento sfociò nel fascismo, il fascismo in piazzale Loreto, la Prima Repubblica in Tangentopoli e nella fuga di Craxi, la Seconda nella condanna di Silvio B.

Per questo non riusciamo davvero a capire chi festeggia per il Cavaliere finito in trappola perché è un festeggiare sulle macerie, e non riusciamo a capire chi immagina un ritorno mitico a Forza Italia, l’ordalia elettorale che lava via condanne passate in giudicato con la spallata populista, roba da Paese sudamericano. L’Italia che sta in mezzo a queste beghe non capisce più da tempo, vorrebbe si parlasse d’altro: di tasse, di burocrazia, di debito pubblico, di impresa, di scuola e di cultura. Dei mille problemi che abbiamo e del Paese al futuro, tra 10 anni, uscendo dal bipolarismo infernale «impunità contro giustizialismo».

Sono da un paio di giorni in vacanza a Cefalù, in Sicilia, per molti anni un feudo berlusconiano. Qui ha la casa al mare Gianfranco Miccichè, viene a fare il bagno Renato Schifani e Simona Vicari è stata per due mandati sindaco. Riporto una piccola sensazione. Giovedì sera durante le ore concitate del post sentenza, non c’è stato alcun sussulto, alcun pezzetto di popolo “pronto a marciare dietro a Silvio contro la dittatura delle toghe rosse”, come si figurano certi falchi che svolazzano intorno al Cavaliere. La gente passeggiava in corso Ruggero, mangiava il gelato, si arrabattava per arrivare a fine mese. Tutto prosegue e continua a dispetto del palazzaccio e di palazzo Grazioli. Intendiamoci Cefalù è solo un minuscolo segnale debole, forse insignificante, ma l’impressione forte è che la gente abbia digerito e sputato il ventennio berlusconiano. Come i mercati e lo spread che stanno ignorando le bizze di Silvio (almeno finché non diventeranno pericolosi ribaltoni istituzionali e crisi di governo).

In fondo, nelle ultime elezioni, il Cavaliere ha perso milioni di voti e se resta ancora decisivo lo si deve all’insipienza di una sinistra impalpabile e litigiosa e all’immobilismo di una casta autoreferenziale che ha fatto nascere Grillo. Tri-polarizzando il voto degli italiani e regalandoci lo stallo del pareggione elettorale.

E questo rende ancor più surreale e pericolosa la vicenda di due fazioni di giapponesi – i falchi contro i manettari – che si scontrano sulla pelle di un Paese che è già terribilmente oltre, preso in mezzo a una crisi epocale, e continuano a sequestrarlo. Tenendoci tutti sospesi. È questa la sensazione che ci resta in bocca, vent’anni dopo la nostra educazione sentimentale. Dal primo al secondo video-messaggio di Silvio B. Dalla prima alla seconda Forza Italia. Dalla prima alla seconda scesa in campo dei tecnici per salvare il Paese. Dal primo all’ultimo centrosinistra così uguale a se stesso. È una sensazione di vuoto, di frastuono, di cose promesse e non mantenute. Un cambiamento che sarebbe potuto essere ma non è stato. Vent’anni di niente, parlando sempre ossessivamente di Silvio.

Twitter: @AlfieriMarco

***

Sono abbastanza d'accordo con l'analisi di Marco Alfieri, su http://m.linkiesta.it/berlusconi-italia

Mi permetto, tuttavia, di muovere solo due obiezioni/precisazioni al suo ragionamento:

la prima, la "rivoluzione liberale" non è finita (se è mai davvero cominciata) perchè Berlusconi non ha saputo risolvere il suo straordinario conflitto di interessi, ma semplicemente perchè Berlusconi, sempre che volesse realizzarla davvero (ed io sono tra quelli che credono che, almeno all'inizio, lui la volesse...), si rese ben presto conto che a non volerla -  a dispetto dei pubblici proclami - era, in realtà, lo stessa parte di paese che lo aveva votato: dopo i primi anni, il cav si accorse che, per fare le riforme liberali di cui questo paese aveva (ed ha tuttora) un urgente bisogno, avrebbe dovuto incidere profondamente su quegli stessi italiani che lo votavano, prima disincantati e poi sempre più entuasiasti, alienandosene i consensi. E' l'anima profondamente democristiana e gattopardesca di questo paese ad aver impedito la rivoluzione liberale, che avrebbe significato la fine dei privilegi e delle piccole rendite di posizione a cui tutti, bene o male, non vogliamo rinunciare, e la scommessa sul merito che non è egalitario e, proprio per questo, genera invidie. E' questo il motivo per cui il grande "partito liberale di massa" - da sogno collettivo, mai compreso veramente (non a caso, i liberali autentici, in questo paese, sono sempre stati una sparuta minoranza) - è diventato, dopo i primi anni, la "nuova democrazia cristiana", erede di don Sturzo, con la rincorsa al voto cattolico e la rinuncia ad ogni velleità liberale e libertaria (che ha toccato il suo fondo con il caso Englaro, punto più basso - almeno sino ad ora - dell'eversione berlusconista). E' questo il motivo per cui il cambio di rotta che Berlusconi impose al partito vide i vari Martino, Urbani, Biondi, Rebuffa, Colletti allontanarsi progressivamente, per far posto ai Bondi e alle Santanché;

la seconda, la sentenza della Cassazione di giovedi - a me che sono liberale da sempre e di anni, quando Silvio scese in campo, ne avevo poco meno di venti (ma stiamo lì...) - non ha provocato amarezza, ma speranza. Il berlusconismo è finito nel novembre del 2011, quando gran parte di italiani di centrodestra - avvertendo i morsi della crisi economica e guardandosi le "tasche vuote" - hanno archiviato l'esperienza politica di un signore che, ormai alle soglie degli ottanta anni, indecorosamente, si è dimostrato più interessato a correre dietro alle sottane di qualche minorenne che a lasciare un "segno" nella storia di questo paese; la sentenza della Cassazione del 1° agosto 2013 ha scritto la parola fine sull'uomo-Berlusconi, condannandolo ad una pensione forzata ai domiciliari, al di fuori del parlamento. E la speranza è che, superata questa prima fase di rigetto, la politica - a destra, come a sinistra - riesca a fare i conti con l'uscita di scena di Berlusconi che, in questi ultimi vent'anni, ha saputo polarizzare attorno alla sua persona e ai suoi interessi personali ed economici l'attenzione generale. E' verissimo: gli elettori hanno già digerito e sputato il berlusconismo. Adesso, tocca ai vari Renzi e Civati - che, spero, da una parte e dall'altra, ci sono e dovranno emergere - farsi spazio e dettare la linea per portare il paese fuori dal pantano in cui si trova. In fondo, aveva ragione Montanelli, quando diceva che "questa destra" intanto poteva reggersi, in quanto aveva una sinistra altrettanto improponibile.


 
 
 

In morte di Giulio Andreotti

Post n°192 pubblicato il 06 Maggio 2013 da Truman_2000
 

Giulio Andreotti non è stato (solo) un uomo politico della prima Repubblica: Giulio Andreotti è stato la prima Repubblica!
Nel bene e nel male, ciò che l'Italia è stata negli ultimi cinquant'anni del '900 e, sotto certi aspetti, è ancora adesso, lo si deve a lui che, dal '48 in poi, è stato 7 volte Presidente del Consiglio e ininterrottamente ministro, di qualunque cosa.
Le sue responsabilità politiche sono incommensurabilmente maggiori di quelle che potevano avere rilevanza penale; e il vero scandalo, a mio avviso, è che non sia mai stato chiamato a rendere conto - innanzi al paese - delle prime, ma solo delle seconde.
Come uomo, si è contraddistinto per ironia, intelligenza, abilità politica, capacità di mediazione, ma anche per l'arte di riciclarsi e di tirare a campare. Lo hanno accusato di essere al centro di tutte le peggiori nefandezze della storia italiana dal dopoguerra ad oggi, ma non ha mai querelato nessuno e non è mai stato accusato di essersi arricchito facendo politica; e, nel momento della caduta della prima Repubblica, non è stato in alcun modo coinvolto nello scandalo di Tangentopoli.
Come uomo politico, ha rappresentato al massimo livello i vizi e le virtù del popolo italico che, per cinquant'anni, lo ha votato con convinzione, ma dicendo di farlo "turandosi il naso". Sicuramente è stato uno statista: un gigante, paragonato ai leader politici di oggi.
La sua parabola politica non può ridursi a quella giudiziaria, che in ogni caso lo ha visto difendersi nei processi e non dai processi. Per colpa o per sfortuna, la magistratura è arrivata tardi: il giudizio su di lui lo darà la storia e, per chi ci crede, il Padreterno!

 
 
 

Riforme costituzionali: il tempo mi ha dato ragione!

Post n°191 pubblicato il 01 Maggio 2013 da Truman_2000
 

Questo scrivevo nel giugno del 2006, in occasione del referendum di approvazione delle modifiche alla Carta Costituzionale votate a maggioranza dal centrodestra:


"Se il referendum costituzionale approverà la riforma della seconda parte della Costituzione, il testo costituzionale che ne risulterà - a mio avviso - sarà migliore di quello attualmente in vigore; non avremo la Costituzione "breve" che io avrei auspicato, quella che resta scritta nei cuori e nelle menti dei cittadini, ma avremo senz'altro istituzioni più moderne e più funzionali di quelle che abbiamo oggi.

Peccato che la riforma non tocchi in alcun modo nè l'istituto del referendum abrogativo, nè la magistratura (a proposito della quale avrei apprezzato moltissimo, ad esempio, la costituzionalizzazione della separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e inquirenti, con l'istituzione di due distinti consigli superiori della magistratura).

I motivi per cui voterò SI, se a qualcuno interessa, sono i seguenti:

a) sono favorevole alla fine del bicameralismo perfetto (trovo positivo, in particolare, che il senato diventi la "camera delle regioni" e che i senatori vengano eletti in occasione del rinnovo dei consigli regionali);

b) approvo la riduzione del numero di parlamentari dagli attuali 945 (630 deputati + 315 senatori) ai previsti 760 (518 deputati + 252 senatori): forse si poteva fare di più, ma è un buon inizio (in proporzione, approvo la riduzione del numero dei parlamentari a vita, che passano da 5 a 3);

c) approvo l'abbassamento dell'età richiesta per essere parlamentare (21 anni, invece di 25, per i deputati; 25, invece di 40, per i senatori);

d) giudico positivamente la previsione in costituzione che il regolamento della Camera dei deputati debba garantire le prerogative del Governo e della maggioranza, ma anche i diritti delle opposizioni e che vengano espressamente riservate ai deputati dell'opposizione la Presidenza delle commissioni cui sono attribuiti compiti ispettivi, di controllo o di garanzia;

e) non mi sembra affatto sconveniente che il Governo possa chiedere ed ottenere che determinati provvedimenti siano "iscritti all’ordine del giorno delle Camere e votati entro tempi certi, secondo le norme dei rispettivi regolamenti": l'azione di governo, talvolta, richiede che il parlamento si pronunci, e che lo faccia in tempi certi;

f) non mi dispiace che il quorum richiesto per l'elezione del Presidente della Repubblica, dopo il terzo scrutinio, sia elevato ai tre quinti dei componenti (avrei evitato, semmai, di aggiungere che "dopo il quinto scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta dei componenti");

g) trovo positivo l'abbassamento dell'età richiesta per ricoprire l'incarico di Capo dello Stato (da 50 a 40 anni);

h) non mi sembra affatto eversivo che il Presidente della Repubblica perda il potere di autorizzare la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo (atteso che egli conserva certamente il potere di non promulgare una legge e di restituirla alle Camere con messaggio motivato, onde chiederne una nuova deliberazione: l'art. 74 Cost., in ciò, non viene affatto modificato ed è noto che il vero controllo del Capo dello Stato sulle leggi deve essere successivo, e non preventivo);

i) giudico estremamente positivo che il potere di scioglimento della camera dei deputati (l'unica che deve esprimere la fiducia al governo) sia strettamente legato alla vita del governo; allo stesso modo, valuto assai positivamente che - in caso di crisi di governo - il Presidente della Repubblica non debba sciogliere la Camera dei deputati, se questa è in grado di esprimere un nuovo Primo ministro nel rispetto della maggioranza decretata dagli elettori: è la conseguenza del sistema bipolare con premio di maggioranza che impedisce i "ribaltoni" (costituzionalizzati , invece, dalla "fiducia costruttiva" di derivazione tedesca);

l) approvo la costituzionalizzazione del fatto che il Primo ministro non venga scelto discrezionalmente dal Capo dello Stato, ma debba essere collegato "con i candidati ovvero con una o più liste di candidati all’elezione della Camera dei deputati, secondo modalità stabilite dalla legge"; nonchè del fatto che la legge debba disciplinare l’elezione dei deputati "in modo da favorire la formazione di una maggioranza, collegata al candidato alla carica di Primo ministro";

m) non trovo affatto scandaloso che il Primo ministro abbia il potere di scegliersi i propri ministri e possa, all'occorrenza, sostituirli; allo stesso modo, non mi sconvolge affatto che il governo, per entrare nell'esercizio delle sue funzioni, non debba ricevere alcun voto di fiducia dalla Camera dei deputati (la fiducia per iniziare il proprio lavoro, infatti, l'ha già avuta dagli elettori ed è più che sufficiente che "in qualsiasi momento la Camera dei deputati può obbligare il Primo ministro alle dimissioni, con l’approvazione di una mozione di sfiducia", cui conseguono le dimissioni del Primo ministro e - salvo casi particolari - lo scioglimento anticipato della Camera dei deputati e le nuove elezioni);

n) estremamente positivo mi sembra la costituzionalizzazione del principio "anti ribaltoni", in base al quale "il Primo ministro si dimette altresì qualora la mozione di sfiducia sia stata respinta con il voto determinante di deputati non appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni";

o) ad occhio e croce, la nuova devolution non mi pare molto diversa da quella approvata dal centrosinistra e, sia pure in parte, mi sembra che la ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni sia stata migliorata con la riserva - in favore del primo - di alcune materie (tra cui la sicurezza del lavoro, le grandi reti strategiche di trasporto e di navigazione di interesse nazionale e relative norme di sicurezza, la produzione strategica, il trasporto e distribuzione nazionali dell’energia);

p) quanto alla corte costituzionale, invece, non approvo che sia stato aumentato il numero dei giudici di nomina parlamentare (non se ne sentiva affatto il bisogno), ma non griderei allo scandalo, perchè i rapporti di forza restano grosso modo gli stessi: i giudici di nomina presidenziale insieme a quelli nominati dalle supreme magistrature restano, infatti, comunque superiori a quelli di nomina parlamentare;

q) infine, mi sembra positiva l'abrogazione del terzo comma dell'art. 138 Cost.: il referendum costituzionale deve potersi svolgere in ogni caso, indipendentemente dal quorum con il quale è stata approvata la legge costituzionale.

Quanto al novellato art. 70, non ho difficoltà ad ammettere che non è esattamente un modello di chiarezza, ma è altrettanto notorio che - nelle costituzioni che prevedono un bicameralismo "imperfetto" - la norma che regola la ripartizione delle competenze tra le due Camere non può non essere più "articolata" di quella attualmente in vigore che si limita a stabilire che "la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere".

Voterò SI (ed invito a votare SI), innanzitutto, perchè condivido in gran parte - se non totalmente - il nuovo impianto costituzionale che questa legge costituzionale delinea.

Condivido, in particolare, l'opzione per un premierato che rafforzi il potere dell'esecutivo, liberandolo dalle pastoie di un "parlamentarismo" all'italiana in cui il governo finisce inevitabilmente per essere ostaggio delle segreterie di partito (ed apprezzo che, alla fine, non si sia scelto nè il presidenzialismo all'americana, nè il semipresidenzialismo alla francese, nè il cancellierato alla tedesca).

Approvo la scelta per un bicameralismo "imperfetto", con la previsione del Senato delle regioni che completa il decentramento amministrativo.
Guardo positivamente ad un Presidente della Repubblica, non eletto dal popolo, che conserva pressochè immutati i poteri "di garanzia" che un Capo dello Stato - a mio avviso - deve avere e perde, viceversa, alcuni di quei poteri "di governo" che, in un sistema parlamentare, non gli devono necessariamente competere.
Registro, infine, con favore le modifiche alla devolution che lo stesso Barbera ha dimostrato di apprezzare.

Se il centrosinistra non si fosse arroccato sulla pregiudiziale che questa fosse una riforma inemendabile, probabilmente alcuni errori si sarebbero potuti evitare: votare NO - per come la vedo io - significa cancellare una buona riforma (sia pure perfettibile) e gettare così il bambino con l'acqua sporca; votare SI significa, invece, acconsentire ad una modifica costituzionale largamente condivisibile che potrà essere ulteriormente migliorata in Parlamento, ritoccando alcuni articoli oggettivamente meritevoli di un aggiustamento (tra cui, per l'appunto, il suddetto articolo 70 Cost.).

Non prendiamoci in giro: può piacere o meno ma, se vincono i NO, questa Costituzione ce la terremo così com'è per chissà quanti altri anni; se vincono i SI, invece, avremo una nuova Costituzione e il Parlamento - a maggioranza di centrosinistra - sarà costretto ad intervenire nuovamente per "limare" eventualmente qualche imperfezione.

In ogni caso, le modifiche più significative (quelle che concernono il Parlamento, il Governo e il Presidente della Repubbica) non entrerebbero in vigore immediatamente.

Buon voto a tutti!"

 

Sono passati 7 anni (2006-2013) e, come avevo facilmente previsto, non solo non si è fatto niente, ma stiamo ancora a parlarne!

 
 
 

Tutta colpa di Bersani!

Post n°190 pubblicato il 20 Aprile 2013 da Truman_2000
 

Il "conclave" di Montecitorio ha rieletto il suo Ratzinger: l'Italia è una monarchia costituzionale fondata sul pallone! :P

Ovviamente, non c'è stato alcun golpe: il Parlamento è sovrano e le sue decisioni possono essere discusse e criticate, ma vanno rispettate e sono pienamente legittime quando sono conformi alle regole della Costituzione.

Quello che dispiace non è solo che non abbiano eletto Stefano Rodotà (che è un signore della sinistra al quale il PD ha voluto ingiustamente dare uno schiaffo), o la Bonino, o Amato, o qualche altra personalità di alto profilo che avrebbe saputo svolgere l'incarico bene quanto Napolitano; ma che il Parlamento abbia scelto di non scegliere e abbia decretato l'insostituibilità dell'attuale Presidente della Repubblica, sancendo il mantenimento dello status quo, sino al punto di "prorogare" tutto, finanche il settennato del Capo dello Stato (cosa che, in più di sessant'anni di storia repubblicana, non si era mai vista).

In una democrazia matura come la nostra, nessuno è insostituibile, nemmeno Giorgio Napolitano. Potevano scegliere qualcun altro, senza costringere un signore di quasi 90 anni a restare ancora in servizio per altri due o tre mesi, o due o tre anni. E fa specie vedere che, alla fine, la "sfida" sia stata tra due ex comunisti: il primo (Napolitano), riconosciuto adesso come padre della Patria anche dal centrodestra (che non lo votò sette anni fa) ed il secondo (Rodotà), che è stato sacrificato dal PD sull'altare delle faide interne tra ex DC ed ex DS.

Ciò che è ridicolo è che questi partiti, buoni a nulla e capaci di tutto, non abbiano voluto mettersi d'accordo su un qualunque altro nome (Amato, Cassese, etc.) e, adesso, quel nome finirà per indicarlo lo stesso Napolitano per formare un governo. Perché è ovvio che, ora, un governo lo dovranno fare: con un PD a pezzi, che adesso deve solo andare al congresso, se si andasse al voto, rivincerebbero Berlusconi e Grillo!

E tutto perché Bersani, senza prendere nemmeno in considerazione le ipotesi alternative, si era messo in testa che l'unico a poter fare un Governo era lui!

Dal giorno dopo le elezioni, infatti, Bersani ha rivendicato non solo il diritto-dovere del PD ad indicare il premier (come era giusto che fosse, visto che si trattava e si tratta del partito che, grazie al premio di maggioranza di questa legge elettorale, si trova ad essere il partito di maggioranza relativa del Parlamento), ma anche e soprattutto il diritto di essere lui il capo del Governo, sebbene un esecutivo guidato da lui - come è stato chiaro fin da subito - non avesse i numeri per essere varato.

Se si fosse dimesso o, quanto meno, se avesse fatto un passo indietro, lasciando ad altri la possibilità di "trattare" con i grillini, forse un Governo PD-SEL-M5S lo avremmo avuto.

Niente di tutto questo: le ambizioni personali di Bersani hanno avuto la precedenza su tutto il resto. Ha preteso ed ottenuto il pre-incarico e, anche dopo aver relazionato al PdR di non avere una maggioranza in suo favore, ha insistito per considerarsi ancora "in campo", nella speranza che, una volta eletto il nuovo PdR, si sarebbe potuto riprendere il discorso del 'suo' Governo.

Per settimane, ci ha raccontato che il "governissimo" con il PDL non lo avrebbe mai fatto ed ora, invece, saranno i primi a spingere per farlo, perché ormai - anche volendo - ridotti come sono ad un cumulo di macerie, non possono più andare alle elezioni anticipate. Per settimane, ha chiesto ai grillini di consentire la nascita del suo Governo e, quando finalmente Grillo gli ha detto che, votando Rodotà al Quirinale, si sarebbe potuto ragionare di un Governo insieme ai giovani del PD, ha risposto picche!

Nel giro di sei mesi, Bersani è riuscito a perdere le elezioni, il governo, il partito, la segreteria e la faccia: un vero record!

Ma quel che è peggio è che Bersani ha fatto perdere al paese due mesi, nei quali abbiamo visto "prorogare" prima il Governo tecnico e, poi, il Capo dello Stato; oggi si dimette, con due mesi di ritardo. Non lo rimpiangeremo!

 
 
 

Quirinale, gran casino!

Post n°189 pubblicato il 20 Aprile 2013 da Truman_2000
 

Attenzione, il Pd può ancora fare peggio. Scegliere Cancellieri e omaggiare Monti

di Andrea Colombo

Franco Marini massacrato, Romano Prodi accoltellato alle spalle, Massimo D’Alema e Giuliano Amato ingabbiati, perché magari il voto lo passerebbero pure ma poi i dirigenti (si fa per dire) del Partito (sempre per dire) democratico non potrebbero mettere più il naso fuori dai loro fortini assediati. Pierluigi Bersani, il segretario, si dimette tacciando di tradimento i suoi, “uno su quattro”, e scusate se è poco. La presidente, Rosy Bindi, si dimette con palese disgusto (“Non abbiamo dato una bella prova”: questo sì che è understatement, madame). Matteo Renzi, l’Emergente, messo al tappeto alla prima uscita da leader in piena regola. Militanti divisi tra nausea e ira funesta. Parlamentari vecchi e nuovi persi come bimbi nella foresta. Signorine spedite in televisione che al confronto le Berlusconi-Girl sembrano tutte Rosa Luxemburg (ma dove l’hanno rimperticata quella Bonafè, e chi li paga per farsi del male esponendo la sua inettitudine ogni santa sera?). Venti di scissione che da temuta minaccia vanno mutando in speranza di liberazione, perché tutto, proprio tutto, è meglio che continuare così.

Questo disastro che non ha uguali nella storia dei partiti italiani non è piovuto dal cielo. E’ che sono arrivati tutti insieme al pettine i nodi che in vent’anni quel partito aveva evitato in tutti i modi di sciogliere e spesso persino di riconoscere: l’eterna guerra tra D’Alema, Prodi, Marini (e Veltroni, che pure stavolta cade se non proprio in piedi almeno in ginocchio: è una vocazione); l’incapacità costitutiva di assumere una linea politica; lo scollamento di anno in anno più simile a un baratro tra il vertice e la base; la progressiva degenerazione in quella che oggi viene chiamata Somalia e un tempo si sarebbe detta Beirut: bande l’uno contro l’altra armate che un giorno si alleano e il giorno dopo si sparano alle spalle, tanto che alla fine nessuno sa più se debba temere più il nemico dichiarato o l’amico che tra un minuto potrebbe trasformarsi in killer; una visione della politica schiettamente berlusconiana, cioè ridotta al far carriera e poi difendere il cadreghino ad ogni costo.

Non è detto che sia finita qui. Per quanto sembri quasi impossibile il Pd può ancora farcela a peggiorare la situazione. Basterà rassegnarsi (come proponeva la genialissima Bonafè in tv ieri sera) a fare prima il presidente e poi il governo con Berlusconi, così almeno torniamo a un sano bipolarismo: Grillo, Berlusconi e in mezzo le macerie di quello che non riuscì mai a diventare un partito.

Ma anche se così non sarà, se in un barlume di lucidità i piddini eviteranno di spararsi da soli il colpo di grazia, sempre agonizzanti resteranno. Eleggere Rodotà gli restituirebbe almeno uno straccio di dignità. Non lo faranno. Si nasconderanno dietro una candidatura anonima come quella del prefetto Cancellieri, giusto per dire che non si sono venduti a Silvio, e non potranno mai spiegare perché la candidata di Monti va bene e quello del Movimento 5 Stelle – che è un uomo nostro, della sinistra, e tra i migliori oltretutto – invece no. Sempre che non leghino all’alto seggiolone Giorgio Napolitano, come era d’uopo fare nell’Urss.

Oppure, come pare suggerisca D’Alema che in queste cose è da sempre il meno opaco, se la caveranno puntando su Emma Bonino, che piace a tutti, è radicale quindi un po’ grillina, è stata col centrodestra ma anche col centrosinistra. Insomma è l’unica che si possa eleggere a braccetto con Silvio senza emanare miasmi d’inciucio. Sempre che i preti glielo facciano fare. I popolari del Pd, ovvio, strepiteranno, ma il Pd non c’è più e a questo punto avvicinare la scissione di un altro millimetro non è poi tutto questo problema.

Ma comunque vada a finire il dramma del Quirinale, la via crucis del Pd non è finita e non finirà. C’è il rischio, e bello forte, che a finire sia prima il partito. Pardon: il poco che ne resta.

http://www.glialtrionline.it/2013/04/20/attenzione-il-pd-fantasma-puo-ancora-fare-peggio-scegliere-cancellieri-e-finire-nel-disonore/

 

Lucidissima e condivisibile analisi, la sottoscrivo in pieno.  

Bersani non ne ha fatta una buona: innanzitutto, se volevano l'accordo con il PDL, non dovevano lasciare a Berlusconi la possibilità di scegliere il candidato tra una rosa di nomi fatta da loro, ma fare il contrario (scegliere loro tra una rosa di nomi fatti da Berlusconi). Il cav. ha scelto Marini e lo hanno candidato anche se una parte di loro (i Renziani) hanno detto apertamente che non lo avrebbero votato. Così facendo, hanno spaccato il partito.

Per ricompattare il PD, hanno proposto il nome del fondatore dell'Ulivo, ben sapendo che il PDL non lo avrebbe mai votato, dimostrando ancora una volta - come già 7 anni fa - di avere una "cultura istituzionale" proprietaria, pari a quella di Berlusconi (ecco perché Rodotà non va bene: pur essendo della loro parte, non è "uomo di apparato", è troppo libero, troppo indipendente). 

Ma candidare Prodi, senza un accordo preventivo e possibilmente scritto con Grillo, è stata una mossa fallimentare: lo hanno "bruciato", facendo saltare tutti gli equilibri interni al PD che, in realtà, è un partito mai nato, visto che si scannano ancora tra ex DS ed ex Margherita e ragionano - manuale Cencelli alla mano - come se non facessero parte dello stesso partito: non a caso, hanno proposto solo ex DC per il Quirinale (Marini, Prodi, Mattarella...), perchè Palazzo Chigi doveva andare ad un ex DS.

Adesso, anche D'Alema - se lo proponessero - rischierebbe di essere "bruciato": gli voterebbero contro i prodiani e i mariniani.

Se vogliono l'accordo con il PDL, non restano che Amato e la Bonino (l'elezione di quest'ultima renderebbe l'inciucio più sopportabile da parte degli elettori del PD che non capiscono, giustamente, #perchéRodotàno e la Cancellieri sì). Altrimenti, salvino capre (faccia) e cavoli (quel poco che resta dei loro elettori) e votino per Rodotà, la cui elezione, peraltro, permetterebbe al "dopo Bersani" di poter fare un governo con i grillini, stile Crocetta.

Il bis di Napolitano (che si è detto indisponibile) certificherebbe lo stallo anche a livello del Quirinale, mentre l'elezione di un "tecnico" (come la Cancellieri) sarebbe la morte della politica!

 
 
 

Addio a Margaret Thatcher, regina d'Inghilterra!

Post n°188 pubblicato il 08 Aprile 2013 da Truman_2000
 

E' morta Margaret Thatcher. Al suo capezzale, la mano invisibile le ha dato un'ultima carezza.

«Ci odieranno oggi ma ci ringrazieranno per generazioni - e guai a voi, cari colleghi, se tutto ciò cui pensate è la rielezione».

Margaret Thatcher

 
 
 

Grillo, l'antipolitica e la democrazia della rete

Post n°187 pubblicato il 31 Marzo 2013 da Truman_2000
 

Non ho mai seguito il blog di Grillo e non so se lui e Casaleggio siano in mala fede oppure o no; ritengo, però, che la maggior parte dei loro sostenitori siano di un'incompetenza imbarazzante: tanto di cappello a chi rinuncia ai rimborsi elettorali, dimostrando così di avere una limpidezza e uno spirito di servizio encomiabili, ma queste cose possono essere sufficienti "a livello locale", quando si tratta di amministrare un condominio o un comune medio-piccolo; ma per guidare un paese, discutere di economia, difesa e politica estera, occorre qualcosa di più. E, poi, a parte il fatto che certe idee non le condivido affatto (il limite dei due mandati, la scelta dei candidati sulla scorta della fedina penale, etc.), trovo alquanto risibile che il programma di una forza politica debba essere condizionato dai "twitter" e i "mi piace" di feisbuk o che i candidati debbano rimettere il proprio mandato ogni sei mesi, e aspettare l'esito del sondaggio semestrale per sapere se abbiano avuto o meno la riconferma.

La Politica non può (rectius: non dovrebbe) perdere la sua funzione principale, che è quella di indicare gli obiettivi da raggiungere e di cercare di condurre la società al raggiungimento di quegli obiettivi: un leader politico è tale quando - lungi dal limitarsi ad assecondare gli umori del suo popolo - è in grado di guidarlo, indicando la rotta che lui ritiene di dover seguire.
Una cosa è "avere il polso" dell'elettorato e sapere quali sono gli umori, i bisogni, le preoccupazioni, le speranze di un popolo; altra cosa è farsi guidare in tutto e per tutto dai sondaggi, dalle opinioni estemporanee e umorali della massa, rimettendo il momento della decisione politica a tecniche di consultazione più o meno democratiche del corpo elettorale.
I sondaggi, specie quelli che vengono effettuati a ridosso di uno scabroso caso di cronaca nera, misurano il desiderio crescente nella popolazione di reintrodurre la pena di morte; un vero leader politico, a mio avviso, è quello che riesce a resistere alla tentazione di cavalcare gli umori forcaioli della massa, per farsi promotore di una riforma del sistema carcerario che garantisca i diritti (anche alla rieducazione) dei detenuti.

L'opinione pubblica, oggi più che mai - per sua natura - non è assolutamente in grado di orientarsi da sola; anzi, è disorientata dal bombardamento di informazioni a cui è sottoposta, anche e soprattutto grazie alla "rete" che, più ancora della televisione, riesce a veicolare notizie più o meno vere, più o meno attendibili, ponendole tutte sullo stesso piano, a prescindere dalle fonti da cui promanano: un'informazione sbagliata - al pari di una corretta e veritiera - si diffonde in maniera proporzionale al grado di curiosità che suscita in chi la riceve e, spesso, viene recepita come vera, per il solo fatto di essere presente nella "rete" (cfr. le mille "bufale" che si leggono su internet...). Non sempre c'è il il tempo (e la voglia) per vagliarne l'attendibilità e per interrogarsi sulla stessa, perchè il bombardamento è continuo e irrefrenabile.
La "rete" consente anche, a chi lo desidera, di approfondire, di non fermarsi alla percezione acritica del mero dato, di confrontarlo con gli altri e sottoporlo ad una seria critica; ma, come in tutte le cose, ciò dipende dal singolo fruitore, dall'atteggiamento che è solito adottare nei confronti della realtà, dagli strumenti che possiede per interpretarla e dall'intelligenza di cui è dotato: una cosa sono i microcosmi selezionati ed elitari (dove, bene o male, ci si confronta tra persone che provengono più o meno dalla stessa estrazione sociale e culturale), altra cosa è "l'assoluto" di feisbuk che è "come la notte in cui tutte le vacche sono nere".

 
 
 

"To Rome with love"

Post n°186 pubblicato il 21 Aprile 2012 da Truman_2000
 

Regia di Woody Allen
con: Woody Allen, Alec Baldwin, Judy Davis, Penelope Cruz, Roberto Benigni. Commedia - USA/Italia 2012.


Un architetto famoso (Alec Baldwin) torna a Roma, dove ha vissuto per un anno quando era giovane, e si imbatte in un ragazzo che gli ricorda se stesso e al quale finirà per dare consigli; una turista americana in vacanza nella città eterna si innamora di un avvocato italiano e fa venire i genitori (Woody Allen e Judy Davis) per far conoscere loro i futuri consuoceri; due giovani coniugi friulani si trasferiscono nella capitale sperando di poter fare la bella vita; un travet qualsiasi (Roberto Benigni) diventa improvvisamente famoso, senza sapere il perchè, e viene perseguitato dai paparazzi.
Quattro storie diverse si incrociano in questa commedia surreale, ma divertente. Si ride di gusto, nonostante una trama assolutamente strampalata e demenziale, soprattutto grazie ad Allen (orfano di Oreste Leonello, per la prima volta doppiato da Leo Gullotta). Infornata di attori italiani famosissimi, per piccoli camei; emeriti sconosciuti interpretano le star. Donne all'antica ed escort, meteore e meteorine, giornalismo spazzatura e notorietà da grande fratello, arte e archeologia, cinema ed opera ("in fondo, siamo tutti bravi a cantare sotto la doccia..."): bella fotografia, nonostante l'immagine che ne esce del bel paese sia stereotipata e macchiettistica. Commedia esilarante, da vedere (ma una sola volta).

 
 
 

"Marigold Hotel"

Post n°185 pubblicato il 02 Aprile 2012 da Truman_2000
 

Regia di John Madden
con: Judi Dench, Maggie Smith, Tom Wilkinson, Dev Patel e Tena Desae
Inghilterra/India - commedia 2012

Sette personaggi in cerca di... emozioni, vie di fuga e voglia di cambiare. Una vedova sul lastrico (Judi Dench), un giudice della Corte Suprema sulle tracce del proprio passato (Tom Wilkinson, già spogliarellista in "Full monthy"), una coppia di "opposti", uno scapolo in cerca di sesso, una nonna in cerca di milionari da accalappiare ed una ex governante xenofoba (Maggie Smith) che deve sottoporsi ad un intervento chirurgico. Riservati, come solo gli inglesi sanno essere, partono per l'India cercando di lasciarsi alle spalle i loro problemi; arriveranno nel decadente albergo indiano del titolo - spacciato per l'Eldorado, dal giovane ed entusiasta proprietario Sonny (Dev Patel, già protagonista del "Millionaire") - dove, a poco a poco, finiranno per aprirsi e raccontarci il loro segreto, nella consapevolezza che "andrà tutto bene alla fine e, se non andasse tutto bene, vuol dire che non è ancora la fine!"
Un viaggio interiore in un'India che lotta ancora tra antichità e progresso, caste e call center, attraverso un tripudio di colori e di esperienze che cambierà, per sempre, il corso della loro vita. Delicato, divertente, sarcastico, toccante. Splendide le interpretazioni dei premi oscar Judi Dench e Maggie Smith, che si "fronteggiano" e si stagliano sullo schermo, così diverse e così ugualmente grandi, nella loro fragilità; e se tali bellezze "senili" non dovessero bastare, il sorriso di Sunaina (Tena Desae) vale da solo il prezzo del biglietto!

 
 
 

"Midnight in Paris"

Post n°184 pubblicato il 01 Aprile 2012 da Truman_2000
 

Regia di Woody Allen
con: Owen Wilson, Marion Cotillard, Carla Bruni, Rachel McAdams, Kathy Bates, Corey Stoll, Michael Sheen. – commedia 2011

Gil (Owen Wilson) è uno sceneggiatore hollywoodiano di successo che cerca di scrivere il suo primo romanzo e sogna di vivere nella Parigi degli anni venti. In vacanza nella capitale francese con la fidanzata Inez, al seguito dei futuri suoceri snob ed invadenti, non riuscendo a farsi coinvolgere più di tanto – come dargli torto! – né dai preparativi delle nozze imminenti, né dalle logorroiche performance di Paul, pedante tuttologo amico di Inez, che pontifica sull’universo mondo, arrivando finanche a contestare la guida turistica (cameo per la premiere dame, Carla Bruni), preferisce lasciarsi “catturare” dalla bellezza della città e dalla magia che la abita. Allo scoccare della mezzanotte del titolo, infatti, si perde nei vicoli parigini per incontrare Hemingway, Scott Fitzgerald, Picasso e Gerty Stein, innamorarsi della bella Adriana e scoprire che, in ogni epoca, in fondo, si sogna un’età dell’oro più… “vintage!”
Dopo aver celebrato Venezia (in “Tutti dicono: I love you”) e Londra (in “Match point”), Woody Allen firma la sua dichiarazione d’amore per Parigi, capitale dell’arte, della bellezza e, naturalmente, dell’amore. Commedia graziosa e delicata, come una carezza; onirica e visionaria: direi che si tratta, in assoluto, del suo film più romantico (sta tra “La rosa purpurea del Cairo” e “Pallottole su Broadway”). Si sorride, specie per i “ritratti” dei grandi artisti del passato: su tutti, Hemingway, meravigliosamente vero, onesto e… coraggioso nelle avversità (geniale, in particolare, il botta e risposta tra lui e Adriana che si conclude con quel: “chi vuole battersi!?!”). Bella la fotografia ed i costumi. Da vedere.

 
 
 

"Magnifica presenza"

Post n°183 pubblicato il 25 Marzo 2012 da Truman_2000
 

Regia di Ferzan Ozpetek
Con: Elio Germano, Margherita Buy, Beppe Fiorello, Vittoria Puccini, Daniele Pecci
Commedia - Italia 2012
Pietro (Elio Germano) non è un pasticciere, perchè non fa torte, ma solo cornetti (di notte); di giorno, sogna di fare l'attore e fa provini per le pubblicità. Trasferitosi dalla sua Catania, nella capitale, prende in fitto un appartamento in un villino che scoprirà ben presto essere abitato da "questi fantasmi": una compagnia teatrale diretta da Beppe Fiorello, "intrappolata" nella casa e nel tempo.
Il problema di Ozptek è quello di alternare clamorosamente un bel film ad un "pacco" di colossale grandezza: dopo "Mine vaganti", era la volta del pacco. Eccolo: "Magnifica presenza" è una storia abortita: l'inizio sembra promettere bene (si viaggia tra "The others" ed "Happy family"), ma - alla fine - non si va da nessuna parte. Bella la fotografia, ma il "trucco" c'è, e si vede: e l'effetto è artefatto ed insulso. Manca il flash back, tanto abusato dal regista, ma non il riferimento (ennesimo e, per questo, gratuito) al nazismo, agli ebrei e alla guerra. Finale telefonato, volgarità gratuite sulla bocca di Anna Proclemer e su quelle di una sua inverosimile controfigura gay: robaccia indegna del peggior Almodòvar. Ma la scena più brutta, in assoluto - davvero oltre i limiti del grottesco - resta quella della "sartoria-harem" capeggiata da una Platinette in "versione padrino". La magnifica presenza, in un panorama così desolante, è quella di Elio Germano, la cui straordinaria interpretazione, tuttavia, non riesce - da sola - a riscattare un film inconsistente, dalla trama imbarazzante nella sua ridicolaggine. Da evitare come la peste!

 
 
 

Timido ubriaco

Post n°182 pubblicato il 17 Marzo 2012 da Truman_2000
 

Sapevo così poco di te
che mi son fatto bastare la tua ironia
e le tue parole sfuggenti,
rugiada fresca
per le mie labbra screpolate
(sono uno che si accontenta…)

La tua smania di salvare il mondo,
antidoto alla mia armatura di cristallo,
ha accarezzato in me antichi ricordi
E quando mi hai sorriso
ingenua e maliziosa
hai rianimato il mio cuore malato

Caldo raggio di sole,
aspettavo che rischiarassi
il mio inverno boreale
Eri tu, amore.
Ti ho riconosciuta tardi
e inconsapevolmente audace
ho gridato il tuo nome
nulla avendo più da perdere

Ma avevo paura
di illudermi
di non sperare
di dire le parole sbagliate e perderti
di dire quelle giuste e averti
contro la tua volontà

E quella notte
ho pianto lacrime di gioia
per i tuoi baci senza fine.

Poi, improvviso e inesorabile,
un muro mi ha tagliato fuori
dalla felicità che ci attendeva
E i figli che non avremo più
mi guardano, ora, con i tuoi occhi
dal buio che avvolge anche te

Si dileguano i contorni del tuo viso
trattenerne il ricordo mi affatica
Sei ancora qui:
un pensiero che all’alba
mi viene a cercare

Da lontano, mi chiedi come sto
Sono un astemio ubriaco
in cerca del suo vecchio equilibrio
e bevo a piccoli sorsi interrotti
non potendone più fare a meno
il liquore amaro che mi hai distillato

Temendo le risposte
non domando più nulla
alle tue labbra di granito
Vorrei averti ancora
o non averti mai avuta
perché non riesco a dimenticarti.

 
 
 

"La versione di Barney"

Post n°181 pubblicato il 22 Maggio 2011 da Truman_2000
 

Regia di Richard J. Lewis
Con: Paul Giamatti, Dustin Hoffman, Rosamund Pike, Minnie Driver, Scott Speedman
Commedia - Canada/Italia (2010)

Era difficile, per non dire impossibile, riuscire a rendere sullo schermo la complessità delle pagine del capolavoro di Mordecai Richler: onore al merito di Paul Giamatti che ci ha provato, senza mortificare troppo la trama; ma il libro - come direbbe Nanni Moretti - è... "un po' tutta un'altra cosa".
Nonostante abbiano (inutilmente) "ucciso" uno dei figli, eliminato del tutto il processo (e molti personaggi secondari) e semplificato alcuni passaggi della trama originale, tagliando alcune scene memorabili, il film non delude!
Paul Giamatti è bravissimo, ma Dustin Hoffman - se è possibile - lo è ancora di più (qualcuno, non a caso, aveva scritto che il ruolo del protagonista avrebbe dovuto essere dato a lui: non lo so, forse... non ne aveva il "physique du rôle").
L'unica seria critica che sento di dover fare agli sceneggiatori è quella di aver reso soltanto il lato sentimentale del protagonista: che fine ha fatto il suo adorabile cinismo?

 
 
 

"Hereafter"

Post n°180 pubblicato il 16 Gennaio 2011 da Truman_2000
 

Regia di Clint Eastwood
Con Matt Damon, Cécile de France, Bryce Dallas Howard, George e Frankie McLaren
Drammatico - Usa (2010)

Non è un capolavoro. Tocca alla losca cometa di queste righe sporcare di realtà il primo cine-presepe del 2011, celebrato in soave coro belante dagli adoratori-a-prescindere del buon pastore Eastwood. (...) Old Clint non invecchia, regna sull'immagine. C'è più suggestione nei suoi effetti speciali quasi elementari (lo tsunami) che in ore e ore di coglionate catastrofiste. C'è più miracolo nei raggi di luce con cui accarezza miseri arredi (la casa dei gemelli con madre tossica) che in tutta la fuffa tv natalizia. Ma “Hereafter” non è un capolavoro, e Matt Damon è solo l'ennesimo sensitivo che vive il suo dono come una maledizione. E' una buona opera, un'opera buona che Eastwood tenta invano di fare sua (...). - Così il mio critico cinematografico preferito,
Alessio Guzzano.

Cos'altro si può aggiungere? Pur di buona fattura, è sufficientemente noioso, almeno nella prima parte, e assolutamente prevedibile, nella seconda (mancava solo che lo adottassero...). Alcuni spunti - le lezioni di cucina italiana, ad esempio, che sembrano un film nel film, ed il "festival" dei sensitivi ciarlatani - avrebbero potuto essere approfonditi! In compenso, dello tsunami e dell'attentato di Londra avremmo fatto volentieri a meno: sembravano appiccicati lì senza un vero perchè, che non fosse quello di suscitare commozione. Bravo Matt Demon, affascinante il sorriso di Cécile de France.

 
 
 

"Inception"

Post n°179 pubblicato il 15 Ottobre 2010 da Truman_2000
 

Regia: Christopher Nolan
Con: Leonardo Di Caprio, Marion Cotillard, Ellen Page
Azione - Usa (2010)

Qualcuno presenti a Leonardo Di Caprio una donna normale: urge matrimonio "riparatore", è il cinema che lo chiede! Dopo "Revolutionary road" e "Shutter Island", ennesimo psico-dramma familiare per l'ex naufrago del Titanic, protagonista stavolta di un giocattolone ingegnoso ed onirico che si compiace della sua eccessiva complessità: è uno "Shutter Island" all'ennesima potenza, anche per quanto concerne la noia; spiegazioni complicatissime vengono fornite in modo assai concitato (con il risultato che alcuni passaggi, anche a volersi sforzare per rimanere concentrati, inevitabilmente si perdono); quello che ti resta, dopo due ore e mezza di effetti speciali, è il senso, per grandi linee, di una trama che sa di déjà vu: INPS e compari (si fossero chiamati ENPAS, INAIL e INPDAP, avremmo plaudito alla fantasia) penetrano nei sogni altrui per immettere un'idea nuova in una mente già tormentata dal rapporto conflittuale con un padre-padrone morente, neanche fosse una terapia psicanalitica ("dovrebbe pagarci lui!" - osserva, giustamente, uno della banda). Sogni, sogni di sogni, di sogni di sogni: e così via, in una regressione spazio-temporale tendenzialmente infinita. Come ha ben scritto il mio critico cinematografico preferito: "finisce e non ti dispiace, non hai voglia di srotolarlo per controllargli il gioco a incastri" (Alessio Guzzano).

 
 
 

"La passione"

Post n°178 pubblicato il 01 Ottobre 2010 da Truman_2000
 

Regia: Carlo Mazzacurati
Con: Silvio Orlando, Giuseppe Battiston, Kasia Smutniak, Corrado Guzzanti, Cristiana Capotondi, Stefania Sandrelli, Marco Messeri
Commedia - Italia 2010

Per evitare una citazione a giudizio da parte del comune, Silvio Orlando, regista privo di ispirazione e di "citazioni" su Repubblica, reo di aver danneggiato un affresco del '500 per omessa manutenzione di un suo immobile sito in uno sperduto paesino toscano, accetta - suo malgrado - di dirigere la locale "Passione" del venerdi santo che si trasformerà, ben presto, nella "sua" via crucis.
Il primo tempo (così mi era stato detto) doveva essere da sganasciarsi dalle risate: in realtà, l'andamento è lento e noioso, e sono davvero poche le battute che riescono a strapparti un sorriso. E, poi, Silvio Orlando... basta!!!! Ma è un vero attore o semplicemente uno che recita se stesso, nella parte dello sfigato? La scena iniziale - ma, forse, la cosa è voluta - ricorda l'
imitazione di Max Tortora.
Grandissimo Battiston: la sua interpretazione, insieme al sorriso di Kasia Smutniak, vale da sola il prezzo del biglietto; assai poco credibile la Sandrelli (che può fare solo la donnetta svanita), al contrario di Marco Messeri, molto bravo nei panni del cattivo.
Forse, nelle intenzioni di Mazzacurati, questo doveva essere un film divertente, ma le scene più belle sono proprio quelle (serie) della "passione", decisamente più memorabili del - pur godibile - cameo di Corrado Guzzanti: si vede che la comicità non è nelle corde del regista de "La giusta distanza".
La battuta migliore di tutto il film? "Sei un Gesù perfetto, sei povero, sei ricercato, tutti ti prendono in giro” - "Ma sono grasso…" - "Anche Gesù sarebbe grasso, se venisse oggi”.

 
 
 

"La solitudine dei numeri primi"

Post n°177 pubblicato il 25 Settembre 2010 da Truman_2000
 

Regia: Saverio Costanzo
Con: Alba Rohrwacher, Luca Marinelli, Isabella Rossellini, Arianna Nastro, Vittorio Lomartire, Maurizio Donadoni
Drammatico - Italia 2010

Mattia ed Alice sono due numeri “primi gemelli”: come l’11 ed il 13 (divisibili soltanto per sé stessi e per uno), anch’essi sono separati da un numero pari che impedisce loro di toccarsi per davvero. Entrambi recano, sul corpo, le cicatrici del proprio passato: la loro infanzia, infatti, è stata sconvolta da un evento tragico che li ha segnati per sempre, rendendoli “difettosi” rispetto agli altri e condannandoli, così, ad una vita di dolorosa incomunicabilità esistenziale.
Tratto dall’omonimo best seller di Paolo Giordano (che, insieme al regista, ha scritto la sceneggiatura), il film rievoca le vicende del libro, ripercorrendone abbastanza fedelmente gli episodi più significativi. L’originalità della pellicola sta nella scelta - opinabile ma, tutto sommato, legittima - di farne un film “horror”: in tal senso, risultano appropriate le musiche (che ricordano i film di Dario Argento) ed anche le numerose sequenze oniriche e visionarie (il costume da clown di Mattia-bambino ricorda quello di “IT”, mentre i corridoi dell’albergo di Alice-bambina sembrano presi direttamente da “Shining”).
L’angoscia dei protagonisti è ben rappresentata dal senso di morte che pervade l’intero film; peccato, però, che l’unica cosa che muoia sia la trama, uccisa da un montaggio pedestre che fa letteralmente “a pezzi” le scene principali, ricomponendole poi alla rinfusa, come in un assurdo cubo di Rubik. Qualche buco di sceneggiatura rende incomprensibili alcune scene finali (la partecipazione di Alice al matrimonio dell’ex amica, ad esempio…); pessima, infine, la scelta di far dire a Viola (sic!), con un sottofondo musicale da discoteca, la frase più toccante di tutto il libro che avrebbe dovuto essere sussurrata.
Sconsiglio vivamente la visione del film, che nemmeno la buona recitazione di Alba Rohrwacher e di Isabella Rossellini riescono a salvare: decisamente meglio impiegare il proprio tempo per leggere, o eventualmente rileggere, il romanzo!

 
 
 

"Mine vaganti"

Post n°176 pubblicato il 02 Settembre 2010 da Truman_2000
 

Regia di Ferzan Ozpetek
Con Riccardo Scamarcio, Alessandro Preziosi, Nicole Grimaudo, Ennio Fantastichini, Lunetta Savino, Elena Sofia Ricci e Ilaria Occhini - Commedia – Italia (2010)

Due fratelli: l’outing del primo (Alessandro Preziosi), che ha sempre fatto quello che gli chiedevano di fare, spedisce il padre in ospedale (causa infarto) e manda all’aria quello del secondo (Riccardo Scamarcio), bruciato sul tempo. Quest’ultimo, che, lontano da casa, si è ribellato a suo modo ai pregiudizi della famiglia e del paese, prova a prenderne il posto, per non mandare il genitore “direttamente sottoterra”.
Dopo una lunga e seriosa parentesi sulla condizione omosessuale nell’anno domini 2010, Ozpetek la butta in commedia, senza tuttavia raggiungere i livelli “farseschi” del migliore Almodòvar; gioca con i personaggi della famiglia, trasformandoli in “macchiette”: la zia Luciana (un’Elena Sofia Ricci in versione “timida ubriaca”), il cognato napoletano, una cameriera che canta come Susan Boyle ed il padre omofobo (la cui amante, peraltro, ha assai poco di femminile…). Ma – è questo, forse, il difetto maggiore di un film, che resta incompiuto – non riesce ad osare fino in fondo: l’arrivo degli amici “village people” (il principe del “foro”, un Renato Rascel in versione checca ed uno steward che per poco non finisce sotto al tavolo con il cognato…) movimenta una trama che rischiava altrimenti di impantanarsi; bella, in particolare, la scena in cui questi si ritrovano, imbarazzati, davanti alle donne di famiglia in abito lungo e ventaglio: ma perché - come sottofondo - non si sentono le note di “Y.M.C.A”?
Un errore nella sceneggiatura rovina il flirt tra il protagonista e la bellissima Nicole Grimaudo: Alba, infatti, intuisce la verità di Tommaso molto prima che lui gliela racconti (“quando si è in due si è più forti” – gli dice) e, ciò nonostante, sembra dispiacersi di non essere ricambiata (ecco, sarebbe bastato che lei non avesse capito così presto, per dare un senso alla storia). Resta bella, però, la scena - che trasuda erotismo - in cui i due mangiano tramezzini, ascoltando… pensieri stupendi!
Un film sul coraggio di essere sé stessi e di sbagliare sempre per conto proprio, se si vuol essere felici (peccato, però, che un tale insegnamento provenga dalla stessa persona che, svelando il senso di un flashback forzato, ci invita a “sorridere quando stai male dentro”, accettando un destino deciso da altri).
La scena del suicidio ricorda uno strepitoso Lino Banfi che, in “Spaghetti a mezzanotte” – abbandonato dalla moglie, Barbara Bouchet – decide di ammazzarsi, mangiando; quella del ballo, invece, ha qualcosa del felliniano “8 e mezzo”. Simpatiche e divertenti le canzoni della colonna sonora; da brividi, il “Sogno” di Patty Pravo.

 
 
 
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