The Truman ShowLa mia vita è un "Truman Show", ma al rovescio: vivo in un mondo tutto mio, illudendomi di essere il protagonista della storia! |
CITAZIONE
“Ho smesso da tempo di fumare, bevo con moderazione, e in quanto a peccati capitali non li pratico proprio tutti e sette. Se andrò all’inferno, com’è probabile, sarà per aver abusato del cinema, fin da ragazzino. Non credo che ci sarà qualcuno a sostenere che è stato il cinema ad abusare di me: ero minorenne, ma sveglio” - Gianni Amelio
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di Christian Rocca - pubblicato su Il Foglio, il 2 luglio 2005 Esattamente quattro anni fa è morto Mordecai Richler, l’autore della Versione di Barney. Era il 3 luglio del 2001. Non ho mai incontrato MR, eppure mi sembra di averci fatto il militare insieme. Non solo perché ho letto i suoi libri, i suoi articoli, i suoi saggi e quasi ogni cosa lo riguardasse. E nemmeno perché ho conosciuto sua moglie e i suoi figli, né perché sono andato a vedere dove è nato, dove è cresciuto e dove ha ambientato le sue storie. Mi sembra di conoscerlo bene anzi benissimo perché il suo Barney Panofsky è la creatura che meglio di ogni altra sintetizza l’essenza del Foglio che state leggendo: un giornale, per usare una famosa espressione barneyana, “totalmente non necessario” eppure, questo lo dico io, formidabile. http://www.camilloblog.it/wp-content/uploads/archive/barneyeio.html |
E' morto Erich Priebke, il boia dell'eccidio delle Fosse Ardeatine. Fu tra coloro che, il 24 marzo del 1944, uccisero 335 persone, tra militari e civili italiani, come rappresaglia per la morte di 33 tedeschi, uccisi dai partigiani romani, in via Rasella. E' morto a 100 anni, senza aver mai rinnegato il proprio immondo passato e, soprattutto, senza aver mai espresso una sola parola di cordoglio per le sue vittime e per i parenti di tutte le vittime della Shoa. E' morto mentre stava scontando una condanna all'ergastolo, in regime di detenzione domiciliare, che gli era stata inflitta da un Tribunale militare italiano. Peccato che, per arrivare a quella giusta sentenza di condanna, si sia dovuto assistere ad una pagina davvero triste e inaccettabile in uno Stato di diritto, con i giudici asserragliati in camera di consiglio per sfuggire alle rimostranze della folla inferocita e l'intervento dell'allora ministro della giustizia, Flick, per porre nel nulla la sentenza che dichiarava la prescrizione del reato ed ordinava la scarcerazione dell'imputato. Adesso che Priebke è morto, è accaduto un altro brutto episodio, che non avremmo voluto vedere perchè è indegno di un paese civile: da una parte, manifestanti antifascisti che prendono a calci e pugni il feretro, sputando e inveendo nei confronti di un cadavere per impedire la celebrazione del rito funebre e, dall'altra, i soliti gruppi nostalgici di neonazisti che trasformano il funerale di un criminale di guerra nell'ennesima occasione per manifestare le loro folli idee negazioniste. Personalmente, devo dire che ciò che ho visto non mi è piaciuto: in un paese civile, non si impedisce con la forza un funerale (anche se le autorità locali dovevano fare in modo che il rito funebre non si trasformasse in una immonda manifestazione neonaziosta). Non si tratta ripartire ragioni e torti, né di riscrivere la Storia, che ha già condannato - senza appello - Priebke e chi coltiva ancora il sogno di uno Stato totalitario e assolutista. Si tratta di manifestare il proprio pensiero senza fare ricorso alla violenza, di non dare adito a confusioni di sorta, di non sporcare con gesti insulsi la nobilità delle proprie idee: invece delle grida sguaiate e degli scontri di piazza in cui si mescolano fino quasi a confondersi i buoni ed i cattivi, avrei trovato decisamente più alto e più nobile vedere quel carro funebre sfilare tra due ali composte di persone che, in un silenzio agghiacciante, contrapponendo all'odio e alla follia altrui tutta la propria dignità, mostrando ciascuna la fotografia di una delle tante, troppe vittime innocenti dell'odio nazista e reggendo insieme lunghi striscioni di protesta, avessero lanciato al mondo il loro messaggio, fermo ma civile: "Viva la Costituzione dello Stato Italiano!", "Noi non dimentichiamo", "Perchè ciò che è accaduto non avvenga mai più", "Ora e sempre, antifascisti!"
"Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra costituzione!" Piero Calamandrei, Discorso sulla Costituzione |
Non capisco cos’abbia da festeggiare chi brinda alla condanna di Silvio B., il Caimano finalmente in trappola dopo un lungo e spettacolare inseguimento giudiziario; capisco ancora di meno l’esercito di Silvio che vorrebbe rovesciare tavolo e governo a dispetto di una condanna ormai definitiva ed esecutiva per frode fiscale e tirare per la giacca il presidente Napolitano, chiedendo sguaiatamente la grazia e l’impunità per il proprio capo. In uno stato di diritto le sentenze si possono criticare, ci si può lamentare per l’accanimento vero o supposto, ma si accettano sempre. Su questo punto non si può retrocedere né avrebbe senso mischiare i campi, far cadere un governo come rappresaglia per la condanna in tribunale. Per chi è liberale da sempre e aveva vent’anni quando Silvio B. è sceso in campo, la sentenza di Cassazione di giovedì sera provoca amarezza e qualche breve ragionamento da condividere perché chiude un lungo ciclo politico delle occasioni perse. Il nostro primo, vero, ciclo politico. Non c’è bisogno di essere berlusconiani (o esserlo stati) per riconoscere cosa si agitasse intorno al Cavaliere in quei mesi a cavallo del 1993-94: il programma economico di Antonio Martino, una ventata liberal-liberista in un Paese ingessato da caste, corporazioni, veti, inefficienze, corruttele e uno sterminato apparato pubblico; “l’impresa al centro” e la scoperta mediatica delle Pmi, per anni culturalmente neglette o riassunte esclusivamente nella grande impresa pubblica ammanicata con la politica o privata (spesso sussidiata); una grande infornata di esponenti della società civile che entrano in Parlamento e nei parlamentini di tutta Italia dopo la cesura di tangentopoli; la batteria dei Martino, Urbani, Rebuffa, Colletti e Melograni che decisero di appoggiarlo, professori così diversi dall’universo snob dell’accademia italiana; un linguaggio chiaro finalmente all’altezza della gente, capace di superare la lingua di legno e il dissimulare continuo della Prima repubblica; e lo straordinario consenso di una borghesia più minuta e sfrangiata, esplosa coi consumi degli anni Ottanta, di quella a cui erano abituati i vecchi partiti: partite iva, ceti produttivi e professionali, piccoli e medi imprenditori, artigiani che decidono di dargli fiducia. Il blocco di una Italia moderata che avrebbe dovuto, specularmente, dare una sferzata salutareall’intero sistema politico e a una sinistra ex Pci vecchia e bolsa, miracolata dalla storia terribile del Novecento. Una specie di effetto Thatcher, in attesa del riformismo di un nostro Tony Blair. Questi in breve sono i tratti del ciclone Berlusconi che ricorda un ragazzo liberale di vent’anni, vent’anni fa. Eravamo una piccola minoranza, certo, dentro un Paese che si stava per spaccare intorno alla figura del presidente del Milan, ma le discussioni di allora con gli amici riconoscevano comunque questo tratto alla rivoluzione del Cavaliere, spesso senza approvarla o votarla (come nel caso del sottoscritto). Stavamo in mezzo, prendendo botte a destra e a sinistra: rifuggivamo la vulgata dominante a sinistra che la storia di Silvio potesse semplicemente liquidarsi nel romanzo criminale di un personaggio che entra in politica per sfangarla dalla giustizia comprando il consenso della gente attraverso l’imbonimento del piccolo schermo, e insieme rifuggivamo l’enorme conflitto di interessi che macchiava la sua avventura (inimmaginabile in un altro Paese Occidentale e colpevolmente rimosso a destra), il suo essere esageratemente tycoon con le mani in pasta. Anche se a quel tempo era così forte l’anomalia e l’emergenza italiana (Tangentopoli, la scomparsa delle famiglie politiche della Prima Repubblica tranne l’ex partito comunista) da concedergli i tempi supplementari per stemperarlo e risolverlo (cosa che per primo il centrosinistra al governo del Paese fece mai). Cinque anni prima della discesa in campo del Cavaliere era caduto il muro di Berlino. Per la nostra generazione quello fu l’evento con cui ci socializzammo alla vita pubblica. C’è chi lo fece con il reducismo della Prima Guerra mondiale che portò al Fascismo, chi con la caduta del Duce e la nascita della Repubblica antifascista, chi negli anni Sessanta del boom, chi nei lividi anni Settanta delle P38. Alla nostra generazione capitò con il crollo del muro e dell’impero sovietico. Dal punto di vista dell’educazione sentimentale questo ha voluto dire, negli anni successivi, certi libri, certi dibattiti, certe riviste e discussioni per la prima volta ad uso di tutti, non più a circolazione ristretta per camarille e accademie, tra censure e dissimulazioni: non parlo dell’anti-comunismo lugubre e propagandistico alla Libro nero del Comunismo di cui Berlusconi regalerà migliaia di copie durante i suoi comizi elettorali, piuttosto di un intero universo liberale fino a quel momento ostracizzato in Italia dalla cultura dominante. Vado a memoria citando l’avventura del mensile Liberal; i libri sulla scuola marginalista austriaca, Hayek & Mises, pubblicati dall’editore Rubbettino; i pamphlet della Biblioteca della Libertà di Nicola Matteucci; la traduzione dei classici di Karl Popper; i libri di battaglia liberale della casa editrice Ideazione o di Liberilibri di Macerata; il filone di denuncia degli ex comunisti spretati, da Furet a Kostler, da Silone ad Aron. E poi la nuova visione europeista aperta dai libri dei dissidenti dell’Est come il polacco Adam Michnik e il ceco Václav Havel o i reportage di Timothy Garton Ash che descrivevano per la prima volta la fine della cortina di ferro e il futuro allargamento come la più compiuta riunificazione europea, la vera chiusura del secolo breve: dopo la fine del nazifascismo nel 1945, finalmente quella del comunismo nel 1989. Dunque un europeismo non più impastato di funzionalismo burocratico e snobismo tecnocratico, capace di fare i conti con la grande tradizione della libertà alla anglosassone. Eravamo diventati d’un tratto “ragazzi dell’Europa”, come cantava Gianna Nannini. Tutto questo piccolo mondo effervescente, inconsueto e ostracizzato a sinistra ma non solo, vide nella fregola berlusconiana di sfondamento dentro al paludato conformismo italiano dei primi anni Novanta una possibile testa di ariete, pur vedendone tutti i limiti e i provincialismi. Potevi essere o meno dalla parte del Cavaliere, ma è indubbio che in quegli anni si aprì una finestra. Invece... …Invece vent’anni dopo la sentenza della Cassazione suggella simbolicamente tutta l’impotenza di una rivoluzione tradita e una lunga stagione di immobilismo e disastri. Silvio B. che non ha mai voluto né saputo risolvere il proprio gigantesco conflitto di interessi (la Cassazione lo ha confermato definitivamente); il centrosinistra che non si è mai davvero rinnovato e continua a trovare il suo collante esclusivo nell’ammucchiata anti Caimano, salvo poi piegarsi (pur di sbarrare la strada a Matteo Renzi) al governo riluttante con l’arcinemico; una magistratura che resta un colabrodo corporativo troppo spesso inefficiente; un Paese di nuovo sul baratro che ha fatto la cicala per 15 anni al posto delle riforme di struttura; uno stallo politico che dura da quasi due anni e ha obbligato un vecchio presidente agli straordinari del bis al Quirinale; e un Paese che non riesce mai a chiudere in modo ordinato e naturale le proprie stagioni politiche: quella liberale del primo Novecento sfociò nel fascismo, il fascismo in piazzale Loreto, la Prima Repubblica in Tangentopoli e nella fuga di Craxi, la Seconda nella condanna di Silvio B. Per questo non riusciamo davvero a capire chi festeggia per il Cavaliere finito in trappola perché è un festeggiare sulle macerie, e non riusciamo a capire chi immagina un ritorno mitico a Forza Italia, l’ordalia elettorale che lava via condanne passate in giudicato con la spallata populista, roba da Paese sudamericano. L’Italia che sta in mezzo a queste beghe non capisce più da tempo, vorrebbe si parlasse d’altro: di tasse, di burocrazia, di debito pubblico, di impresa, di scuola e di cultura. Dei mille problemi che abbiamo e del Paese al futuro, tra 10 anni, uscendo dal bipolarismo infernale «impunità contro giustizialismo». Sono da un paio di giorni in vacanza a Cefalù, in Sicilia, per molti anni un feudo berlusconiano. Qui ha la casa al mare Gianfranco Miccichè, viene a fare il bagno Renato Schifani e Simona Vicari è stata per due mandati sindaco. Riporto una piccola sensazione. Giovedì sera durante le ore concitate del post sentenza, non c’è stato alcun sussulto, alcun pezzetto di popolo “pronto a marciare dietro a Silvio contro la dittatura delle toghe rosse”, come si figurano certi falchi che svolazzano intorno al Cavaliere. La gente passeggiava in corso Ruggero, mangiava il gelato, si arrabattava per arrivare a fine mese. Tutto prosegue e continua a dispetto del palazzaccio e di palazzo Grazioli. Intendiamoci Cefalù è solo un minuscolo segnale debole, forse insignificante, ma l’impressione forte è che la gente abbia digerito e sputato il ventennio berlusconiano. Come i mercati e lo spread che stanno ignorando le bizze di Silvio (almeno finché non diventeranno pericolosi ribaltoni istituzionali e crisi di governo). In fondo, nelle ultime elezioni, il Cavaliere ha perso milioni di voti e se resta ancora decisivo lo si deve all’insipienza di una sinistra impalpabile e litigiosa e all’immobilismo di una casta autoreferenziale che ha fatto nascere Grillo. Tri-polarizzando il voto degli italiani e regalandoci lo stallo del pareggione elettorale. E questo rende ancor più surreale e pericolosa la vicenda di due fazioni di giapponesi – i falchi contro i manettari – che si scontrano sulla pelle di un Paese che è già terribilmente oltre, preso in mezzo a una crisi epocale, e continuano a sequestrarlo. Tenendoci tutti sospesi. È questa la sensazione che ci resta in bocca, vent’anni dopo la nostra educazione sentimentale. Dal primo al secondo video-messaggio di Silvio B. Dalla prima alla seconda Forza Italia. Dalla prima alla seconda scesa in campo dei tecnici per salvare il Paese. Dal primo all’ultimo centrosinistra così uguale a se stesso. È una sensazione di vuoto, di frastuono, di cose promesse e non mantenute. Un cambiamento che sarebbe potuto essere ma non è stato. Vent’anni di niente, parlando sempre ossessivamente di Silvio. Twitter: @AlfieriMarco *** Sono abbastanza d'accordo con l'analisi di Marco Alfieri, su http://m.linkiesta.it/berlusconi-italia Mi permetto, tuttavia, di muovere solo due obiezioni/precisazioni al suo ragionamento: la prima, la "rivoluzione liberale" non è finita (se è mai davvero cominciata) perchè Berlusconi non ha saputo risolvere il suo straordinario conflitto di interessi, ma semplicemente perchè Berlusconi, sempre che volesse realizzarla davvero (ed io sono tra quelli che credono che, almeno all'inizio, lui la volesse...), si rese ben presto conto che a non volerla - a dispetto dei pubblici proclami - era, in realtà, lo stessa parte di paese che lo aveva votato: dopo i primi anni, il cav si accorse che, per fare le riforme liberali di cui questo paese aveva (ed ha tuttora) un urgente bisogno, avrebbe dovuto incidere profondamente su quegli stessi italiani che lo votavano, prima disincantati e poi sempre più entuasiasti, alienandosene i consensi. E' l'anima profondamente democristiana e gattopardesca di questo paese ad aver impedito la rivoluzione liberale, che avrebbe significato la fine dei privilegi e delle piccole rendite di posizione a cui tutti, bene o male, non vogliamo rinunciare, e la scommessa sul merito che non è egalitario e, proprio per questo, genera invidie. E' questo il motivo per cui il grande "partito liberale di massa" - da sogno collettivo, mai compreso veramente (non a caso, i liberali autentici, in questo paese, sono sempre stati una sparuta minoranza) - è diventato, dopo i primi anni, la "nuova democrazia cristiana", erede di don Sturzo, con la rincorsa al voto cattolico e la rinuncia ad ogni velleità liberale e libertaria (che ha toccato il suo fondo con il caso Englaro, punto più basso - almeno sino ad ora - dell'eversione berlusconista). E' questo il motivo per cui il cambio di rotta che Berlusconi impose al partito vide i vari Martino, Urbani, Biondi, Rebuffa, Colletti allontanarsi progressivamente, per far posto ai Bondi e alle Santanché; la seconda, la sentenza della Cassazione di giovedi - a me che sono liberale da sempre e di anni, quando Silvio scese in campo, ne avevo poco meno di venti (ma stiamo lì...) - non ha provocato amarezza, ma speranza. Il berlusconismo è finito nel novembre del 2011, quando gran parte di italiani di centrodestra - avvertendo i morsi della crisi economica e guardandosi le "tasche vuote" - hanno archiviato l'esperienza politica di un signore che, ormai alle soglie degli ottanta anni, indecorosamente, si è dimostrato più interessato a correre dietro alle sottane di qualche minorenne che a lasciare un "segno" nella storia di questo paese; la sentenza della Cassazione del 1° agosto 2013 ha scritto la parola fine sull'uomo-Berlusconi, condannandolo ad una pensione forzata ai domiciliari, al di fuori del parlamento. E la speranza è che, superata questa prima fase di rigetto, la politica - a destra, come a sinistra - riesca a fare i conti con l'uscita di scena di Berlusconi che, in questi ultimi vent'anni, ha saputo polarizzare attorno alla sua persona e ai suoi interessi personali ed economici l'attenzione generale. E' verissimo: gli elettori hanno già digerito e sputato il berlusconismo. Adesso, tocca ai vari Renzi e Civati - che, spero, da una parte e dall'altra, ci sono e dovranno emergere - farsi spazio e dettare la linea per portare il paese fuori dal pantano in cui si trova. In fondo, aveva ragione Montanelli, quando diceva che "questa destra" intanto poteva reggersi, in quanto aveva una sinistra altrettanto improponibile. |
Giulio Andreotti non è stato (solo) un uomo politico della prima Repubblica: Giulio Andreotti è stato la prima Repubblica! |
Questo scrivevo nel giugno del 2006, in occasione del referendum di approvazione delle modifiche alla Carta Costituzionale votate a maggioranza dal centrodestra: "Se il referendum costituzionale approverà la riforma della seconda parte della Costituzione, il testo costituzionale che ne risulterà - a mio avviso - sarà migliore di quello attualmente in vigore; non avremo la Costituzione "breve" che io avrei auspicato, quella che resta scritta nei cuori e nelle menti dei cittadini, ma avremo senz'altro istituzioni più moderne e più funzionali di quelle che abbiamo oggi. Peccato che la riforma non tocchi in alcun modo nè l'istituto del referendum abrogativo, nè la magistratura (a proposito della quale avrei apprezzato moltissimo, ad esempio, la costituzionalizzazione della separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e inquirenti, con l'istituzione di due distinti consigli superiori della magistratura). Quanto al novellato art. 70, non ho difficoltà ad ammettere che non è esattamente un modello di chiarezza, ma è altrettanto notorio che - nelle costituzioni che prevedono un bicameralismo "imperfetto" - la norma che regola la ripartizione delle competenze tra le due Camere non può non essere più "articolata" di quella attualmente in vigore che si limita a stabilire che "la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere". Voterò SI (ed invito a votare SI), innanzitutto, perchè condivido in gran parte - se non totalmente - il nuovo impianto costituzionale che questa legge costituzionale delinea. Approvo la scelta per un bicameralismo "imperfetto", con la previsione del Senato delle regioni che completa il decentramento amministrativo. Non prendiamoci in giro: può piacere o meno ma, se vincono i NO, questa Costituzione ce la terremo così com'è per chissà quanti altri anni; se vincono i SI, invece, avremo una nuova Costituzione e il Parlamento - a maggioranza di centrosinistra - sarà costretto ad intervenire nuovamente per "limare" eventualmente qualche imperfezione.
Sono passati 7 anni (2006-2013) e, come avevo facilmente previsto, non solo non si è fatto niente, ma stiamo ancora a parlarne! |
Il "conclave" di Montecitorio ha rieletto il suo Ratzinger: l'Italia è una monarchia costituzionale fondata sul pallone! Quello che dispiace non è solo che non abbiano eletto Stefano Rodotà (che è un signore della sinistra al quale il PD ha voluto ingiustamente dare uno schiaffo), o la Bonino, o Amato, o qualche altra personalità di alto profilo che avrebbe saputo svolgere l'incarico bene quanto Napolitano; ma che il Parlamento abbia scelto di non scegliere e abbia decretato l'insostituibilità dell'attuale Presidente della Repubblica, sancendo il mantenimento dello status quo, sino al punto di "prorogare" tutto, finanche il settennato del Capo dello Stato (cosa che, in più di sessant'anni di storia repubblicana, non si era mai vista). In una democrazia matura come la nostra, nessuno è insostituibile, nemmeno Giorgio Napolitano. Potevano scegliere qualcun altro, senza costringere un signore di quasi 90 anni a restare ancora in servizio per altri due o tre mesi, o due o tre anni. E fa specie vedere che, alla fine, la "sfida" sia stata tra due ex comunisti: il primo (Napolitano), riconosciuto adesso come padre della Patria anche dal centrodestra (che non lo votò sette anni fa) ed il secondo (Rodotà), che è stato sacrificato dal PD sull'altare delle faide interne tra ex DC ed ex DS. Ciò che è ridicolo è che questi partiti, buoni a nulla e capaci di tutto, non abbiano voluto mettersi d'accordo su un qualunque altro nome (Amato, Cassese, etc.) e, adesso, quel nome finirà per indicarlo lo stesso Napolitano per formare un governo. Perché è ovvio che, ora, un governo lo dovranno fare: con un PD a pezzi, che adesso deve solo andare al congresso, se si andasse al voto, rivincerebbero Berlusconi e Grillo! E tutto perché Bersani, senza prendere nemmeno in considerazione le ipotesi alternative, si era messo in testa che l'unico a poter fare un Governo era lui! Dal giorno dopo le elezioni, infatti, Bersani ha rivendicato non solo il diritto-dovere del PD ad indicare il premier (come era giusto che fosse, visto che si trattava e si tratta del partito che, grazie al premio di maggioranza di questa legge elettorale, si trova ad essere il partito di maggioranza relativa del Parlamento), ma anche e soprattutto il diritto di essere lui il capo del Governo, sebbene un esecutivo guidato da lui - come è stato chiaro fin da subito - non avesse i numeri per essere varato. Se si fosse dimesso o, quanto meno, se avesse fatto un passo indietro, lasciando ad altri la possibilità di "trattare" con i grillini, forse un Governo PD-SEL-M5S lo avremmo avuto. Niente di tutto questo: le ambizioni personali di Bersani hanno avuto la precedenza su tutto il resto. Ha preteso ed ottenuto il pre-incarico e, anche dopo aver relazionato al PdR di non avere una maggioranza in suo favore, ha insistito per considerarsi ancora "in campo", nella speranza che, una volta eletto il nuovo PdR, si sarebbe potuto riprendere il discorso del 'suo' Governo. Per settimane, ci ha raccontato che il "governissimo" con il PDL non lo avrebbe mai fatto ed ora, invece, saranno i primi a spingere per farlo, perché ormai - anche volendo - ridotti come sono ad un cumulo di macerie, non possono più andare alle elezioni anticipate. Per settimane, ha chiesto ai grillini di consentire la nascita del suo Governo e, quando finalmente Grillo gli ha detto che, votando Rodotà al Quirinale, si sarebbe potuto ragionare di un Governo insieme ai giovani del PD, ha risposto picche! Nel giro di sei mesi, Bersani è riuscito a perdere le elezioni, il governo, il partito, la segreteria e la faccia: un vero record! Ma quel che è peggio è che Bersani ha fatto perdere al paese due mesi, nei quali abbiamo visto "prorogare" prima il Governo tecnico e, poi, il Capo dello Stato; oggi si dimette, con due mesi di ritardo. Non lo rimpiangeremo! |
Attenzione, il Pd può ancora fare peggio. Scegliere Cancellieri e omaggiare Monti di Andrea Colombo Franco Marini massacrato, Romano Prodi accoltellato alle spalle, Massimo D’Alema e Giuliano Amato ingabbiati, perché magari il voto lo passerebbero pure ma poi i dirigenti (si fa per dire) del Partito (sempre per dire) democratico non potrebbero mettere più il naso fuori dai loro fortini assediati. Pierluigi Bersani, il segretario, si dimette tacciando di tradimento i suoi, “uno su quattro”, e scusate se è poco. La presidente, Rosy Bindi, si dimette con palese disgusto (“Non abbiamo dato una bella prova”: questo sì che è understatement, madame). Matteo Renzi, l’Emergente, messo al tappeto alla prima uscita da leader in piena regola. Militanti divisi tra nausea e ira funesta. Parlamentari vecchi e nuovi persi come bimbi nella foresta. Signorine spedite in televisione che al confronto le Berlusconi-Girl sembrano tutte Rosa Luxemburg (ma dove l’hanno rimperticata quella Bonafè, e chi li paga per farsi del male esponendo la sua inettitudine ogni santa sera?). Venti di scissione che da temuta minaccia vanno mutando in speranza di liberazione, perché tutto, proprio tutto, è meglio che continuare così. Questo disastro che non ha uguali nella storia dei partiti italiani non è piovuto dal cielo. E’ che sono arrivati tutti insieme al pettine i nodi che in vent’anni quel partito aveva evitato in tutti i modi di sciogliere e spesso persino di riconoscere: l’eterna guerra tra D’Alema, Prodi, Marini (e Veltroni, che pure stavolta cade se non proprio in piedi almeno in ginocchio: è una vocazione); l’incapacità costitutiva di assumere una linea politica; lo scollamento di anno in anno più simile a un baratro tra il vertice e la base; la progressiva degenerazione in quella che oggi viene chiamata Somalia e un tempo si sarebbe detta Beirut: bande l’uno contro l’altra armate che un giorno si alleano e il giorno dopo si sparano alle spalle, tanto che alla fine nessuno sa più se debba temere più il nemico dichiarato o l’amico che tra un minuto potrebbe trasformarsi in killer; una visione della politica schiettamente berlusconiana, cioè ridotta al far carriera e poi difendere il cadreghino ad ogni costo. Non è detto che sia finita qui. Per quanto sembri quasi impossibile il Pd può ancora farcela a peggiorare la situazione. Basterà rassegnarsi (come proponeva la genialissima Bonafè in tv ieri sera) a fare prima il presidente e poi il governo con Berlusconi, così almeno torniamo a un sano bipolarismo: Grillo, Berlusconi e in mezzo le macerie di quello che non riuscì mai a diventare un partito. Ma anche se così non sarà, se in un barlume di lucidità i piddini eviteranno di spararsi da soli il colpo di grazia, sempre agonizzanti resteranno. Eleggere Rodotà gli restituirebbe almeno uno straccio di dignità. Non lo faranno. Si nasconderanno dietro una candidatura anonima come quella del prefetto Cancellieri, giusto per dire che non si sono venduti a Silvio, e non potranno mai spiegare perché la candidata di Monti va bene e quello del Movimento 5 Stelle – che è un uomo nostro, della sinistra, e tra i migliori oltretutto – invece no. Sempre che non leghino all’alto seggiolone Giorgio Napolitano, come era d’uopo fare nell’Urss. Oppure, come pare suggerisca D’Alema che in queste cose è da sempre il meno opaco, se la caveranno puntando su Emma Bonino, che piace a tutti, è radicale quindi un po’ grillina, è stata col centrodestra ma anche col centrosinistra. Insomma è l’unica che si possa eleggere a braccetto con Silvio senza emanare miasmi d’inciucio. Sempre che i preti glielo facciano fare. I popolari del Pd, ovvio, strepiteranno, ma il Pd non c’è più e a questo punto avvicinare la scissione di un altro millimetro non è poi tutto questo problema. Ma comunque vada a finire il dramma del Quirinale, la via crucis del Pd non è finita e non finirà. C’è il rischio, e bello forte, che a finire sia prima il partito. Pardon: il poco che ne resta. http://www.glialtrionline.it/2013/04/20/attenzione-il-pd-fantasma-puo-ancora-fare-peggio-scegliere-cancellieri-e-finire-nel-disonore/
Lucidissima e condivisibile analisi, la sottoscrivo in pieno. Bersani non ne ha fatta una buona: innanzitutto, se volevano l'accordo con il PDL, non dovevano lasciare a Berlusconi la possibilità di scegliere il candidato tra una rosa di nomi fatta da loro, ma fare il contrario (scegliere loro tra una rosa di nomi fatti da Berlusconi). Il cav. ha scelto Marini e lo hanno candidato anche se una parte di loro (i Renziani) hanno detto apertamente che non lo avrebbero votato. Così facendo, hanno spaccato il partito. Per ricompattare il PD, hanno proposto il nome del fondatore dell'Ulivo, ben sapendo che il PDL non lo avrebbe mai votato, dimostrando ancora una volta - come già 7 anni fa - di avere una "cultura istituzionale" proprietaria, pari a quella di Berlusconi (ecco perché Rodotà non va bene: pur essendo della loro parte, non è "uomo di apparato", è troppo libero, troppo indipendente). Ma candidare Prodi, senza un accordo preventivo e possibilmente scritto con Grillo, è stata una mossa fallimentare: lo hanno "bruciato", facendo saltare tutti gli equilibri interni al PD che, in realtà, è un partito mai nato, visto che si scannano ancora tra ex DS ed ex Margherita e ragionano - manuale Cencelli alla mano - come se non facessero parte dello stesso partito: non a caso, hanno proposto solo ex DC per il Quirinale (Marini, Prodi, Mattarella...), perchè Palazzo Chigi doveva andare ad un ex DS. Adesso, anche D'Alema - se lo proponessero - rischierebbe di essere "bruciato": gli voterebbero contro i prodiani e i mariniani. Se vogliono l'accordo con il PDL, non restano che Amato e la Bonino (l'elezione di quest'ultima renderebbe l'inciucio più sopportabile da parte degli elettori del PD che non capiscono, giustamente, #perchéRodotàno e la Cancellieri sì). Altrimenti, salvino capre (faccia) e cavoli (quel poco che resta dei loro elettori) e votino per Rodotà, la cui elezione, peraltro, permetterebbe al "dopo Bersani" di poter fare un governo con i grillini, stile Crocetta. Il bis di Napolitano (che si è detto indisponibile) certificherebbe lo stallo anche a livello del Quirinale, mentre l'elezione di un "tecnico" (come la Cancellieri) sarebbe la morte della politica! |
Non ho mai seguito il blog di Grillo e non so se lui e Casaleggio siano in mala fede oppure o no; ritengo, però, che la maggior parte dei loro sostenitori siano di un'incompetenza imbarazzante: tanto di cappello a chi rinuncia ai rimborsi elettorali, dimostrando così di avere una limpidezza e uno spirito di servizio encomiabili, ma queste cose possono essere sufficienti "a livello locale", quando si tratta di amministrare un condominio o un comune medio-piccolo; ma per guidare un paese, discutere di economia, difesa e politica estera, occorre qualcosa di più. E, poi, a parte il fatto che certe idee non le condivido affatto (il limite dei due mandati, la scelta dei candidati sulla scorta della fedina penale, etc.), trovo alquanto risibile che il programma di una forza politica debba essere condizionato dai "twitter" e i "mi piace" di feisbuk o che i candidati debbano rimettere il proprio mandato ogni sei mesi, e aspettare l'esito del sondaggio semestrale per sapere se abbiano avuto o meno la riconferma. La Politica non può (rectius: non dovrebbe) perdere la sua funzione principale, che è quella di indicare gli obiettivi da raggiungere e di cercare di condurre la società al raggiungimento di quegli obiettivi: un leader politico è tale quando - lungi dal limitarsi ad assecondare gli umori del suo popolo - è in grado di guidarlo, indicando la rotta che lui ritiene di dover seguire. |
Regia di Woody Allen
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Regia di John Madden |
Regia di Woody Allen |
Regia di Ferzan Ozpetek Con: Elio Germano, Margherita Buy, Beppe Fiorello, Vittoria Puccini, Daniele Pecci Commedia - Italia 2012 Pietro (Elio Germano) non è un pasticciere, perchè non fa torte, ma solo cornetti (di notte); di giorno, sogna di fare l'attore e fa provini per le pubblicità. Trasferitosi dalla sua Catania, nella capitale, prende in fitto un appartamento in un villino che scoprirà ben presto essere abitato da "questi fantasmi": una compagnia teatrale diretta da Beppe Fiorello, "intrappolata" nella casa e nel tempo. Il problema di Ozptek è quello di alternare clamorosamente un bel film ad un "pacco" di colossale grandezza: dopo "Mine vaganti", era la volta del pacco. Eccolo: "Magnifica presenza" è una storia abortita: l'inizio sembra promettere bene (si viaggia tra "The others" ed "Happy family"), ma - alla fine - non si va da nessuna parte. Bella la fotografia, ma il "trucco" c'è, e si vede: e l'effetto è artefatto ed insulso. Manca il flash back, tanto abusato dal regista, ma non il riferimento (ennesimo e, per questo, gratuito) al nazismo, agli ebrei e alla guerra. Finale telefonato, volgarità gratuite sulla bocca di Anna Proclemer e su quelle di una sua inverosimile controfigura gay: robaccia indegna del peggior Almodòvar. Ma la scena più brutta, in assoluto - davvero oltre i limiti del grottesco - resta quella della "sartoria-harem" capeggiata da una Platinette in "versione padrino". La magnifica presenza, in un panorama così desolante, è quella di Elio Germano, la cui straordinaria interpretazione, tuttavia, non riesce - da sola - a riscattare un film inconsistente, dalla trama imbarazzante nella sua ridicolaggine. Da evitare come la peste! |
Sapevo così poco di te |
Regia di Richard J. Lewis |
Regia di Clint Eastwood |
Regia: Christopher Nolan |
Regia: Carlo Mazzacurati |
Regia: Saverio Costanzo Mattia ed Alice sono due numeri “primi gemelli”: come l’11 ed il 13 (divisibili soltanto per sé stessi e per uno), anch’essi sono separati da un numero pari che impedisce loro di toccarsi per davvero. Entrambi recano, sul corpo, le cicatrici del proprio passato: la loro infanzia, infatti, è stata sconvolta da un evento tragico che li ha segnati per sempre, rendendoli “difettosi” rispetto agli altri e condannandoli, così, ad una vita di dolorosa incomunicabilità esistenziale. |
Regia di Ferzan Ozpetek Due fratelli: l’outing del primo (Alessandro Preziosi), che ha sempre fatto quello che gli chiedevano di fare, spedisce il padre in ospedale (causa infarto) e manda all’aria quello del secondo (Riccardo Scamarcio), bruciato sul tempo. Quest’ultimo, che, lontano da casa, si è ribellato a suo modo ai pregiudizi della famiglia e del paese, prova a prenderne il posto, per non mandare il genitore “direttamente sottoterra”. |
Inviato da: piero_marino
il 09/04/2013 alle 14:59
Inviato da: Truman_2000
il 08/04/2013 alle 18:57
Inviato da: piero_marino
il 05/04/2013 alle 23:26
Inviato da: francesconapoli_fn
il 01/10/2010 alle 20:17
Inviato da: discoverysergio
il 23/11/2009 alle 15:58