Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Maggio 2020

Coronavirus, Fase2

2020, Avvenire 18 maggio.

Coronavirus. Quel che (ci) resta della quarantena: volti e idee per ripartire / 2

Il Covid ci ha ricordato anzitutto la nostra fragilità, ma abbiamo anche compreso come la vita e le sorti di un uomo, di una regione, di una nazione, di un continente siano collegate a quelle degli altri. Questa esperienza dice che è proprio affidandoci gli uni agli altri che possiamo curare la nostra fragilità. Riscoprire nella vita la presenza dell’altro e la forza del noi: la relazione e la solidarietà come essenza della nostra realizzazione umana. Non è un caso se proprio ora abbiamo riscoperto la nostra appartenenza comunitaria sentendoci parte di un’unica grande realtà, secondo quel modello di “legalità circolare” che sognarono i nostri padri costituenti: libertà e uguaglianza sono diritti che stanno insieme proprio grazie al dovere di solidarietà. Sono verità delle quali spero che ognuno di noi faccia memoria, una ragione di impegno e di responsabilità. Che sia finalmente giunto il tempo di un nuovo modello di convivenza fondato sulla “legalità del noi”.

Nell’isolamento ho avvertito un paradosso: un senso di comunanza fortissimo, nel momento in cui eravamo più separati che mai, più separati di sempre. È stata una sensazione molto forte che ha attraversato tutto questo periodo. Per il futuro mi porto due riflessioni in particolare. La prima è conseguenza del 'paradosso' di cui parlavo: che questo senso di comunanza ci spinga finalmente a capire che viviamo in un mondo di sfide globali difficili. Non c’è solo il coronavirus, ma anche il clima, le migrazioni forzate, le disuguaglianze e la povertà – ha detto Pietro M., 8 anni, Milano.

Il percorso che la vita mi ha regalato in questi due mesi (compreso il David di Donatello) ha dell’incredibile. Quando ho scritto 'Fai rumore', ero partito dalla mia intimità e l’ho presentata al Festival come invito ad abbattere i muri dell’incomunicabilità – ha detto Antonio Diodato, cantante, Taranto. Tutto questo mi ha ricordato il perché faccio musica, gli ha dato un senso più profondo, mi ha riconnesso alla volontà di scrivere canzoni in cui tutti possano riconoscere i propri sentimenti. Durante la quarantena, ho dapprima vissuto un momento molto riflessivo; poi è arrivato il momento della creatività e ho cominciato a buttare giù su un foglio le mie sensazioni. 

In questi mesi abbiamo vissuto un’emergenza sanitaria che è simile a quella educativa. Il cuore del cuore del sistema sanitario e di quello scolastico sono persone disposte a dare letteralmente la vita per gli altri – ha detto Elena U., 60 anni, Bologna. L’insegnamento a distanza ha fatto emergere in modo ancora più forte la necessità di una “vicinanza”, capace di riportare la forza della realtà nel ritmo di una giornata sospesa tra il divano e la play station, e sono emersi degli aspetti importanti che potrebbero aiutarci a migliorare anche la scuola in presenza.

La pandemia mi ha offerto, accanto alle criticità anche alcuni elementi di stimolo professionale. Ho assistito a un radicale cambiamento nella relazione medico-paziente, con un riconoscimento positivo del ruolo del medico come difensore della salute altrui a discapito della propria. Come presidente di cooperativa, l’epidemia è stata uno stimolo a cercare nuove soluzioni a difesa dei pazienti e del nostro lavoro. Insieme ai colleghi di Legnano, abbiamo realizzato una app che ci permette di gestire e monitorare i nostri assistiti a casa loro – con videovisita e monitoraggio di dati clinici eseguito dal paziente (febbre, pressione, frequenza cardiaca e respiratoria, saturimetria) – e di ricevere alert precoci.

Durante la quarantena mi sono offerto come volontario insieme ad altri due capi scout, Anna e Paolo, e ad Aldo, nel gruppo di Protezione Civile di Codogno. Ho scoperto la grande forza e solidarietà che il mio territorio ha saputo sprigionare – ha detto Claudio M., caposcout, 23 anni Codogno.

Come fisioterapisti siamo intervenuti per facilitare il recupero dei pazienti Covid positivi dopo la fase più critica della malattia – ha detto Silvia P., fisioterapista, 45 anni, Bresso (Mi). Durante le sedute di fisioterapia si instaura spesso un bel rapporto con i pazienti, ancora di più in questa situazione in cui eravamo tra le poche persone con cui potevano parlare.

«Ho dato un significato nuovo al termine “presenza”. Fare didattica con intensità anche “senza” poter vedere in aula i miei studenti. Stare vicina ai miei genitori, alle sorelle, ai nipoti che crescono o agli amici “senza” vederli. Fare riunioni di lavoro, quelle dove si discute con animosità e passione, “senza” potere capire bene gli umori dei colleghi, senza poter dire, beh adesso ci prendiamo un caffè. Stare a casa con i miei tre figli “senza” dovere sempre correre da qualche altra parte. Muovermi a piedi “senza” dover prendere l’auto. Pensare al futuro “senza” che abbia un nome o un verso preciso. Accompagnare nell’ultimo saluto una cara zia “senza” affidarsi alle parole di un sacerdote, perché nei giorni in cui neppure i preti hanno potuto muoversi, siamo diventati sentinelle e custodi gli uni degli altri – ha detto Elena G., docente di Urbanistica, Politecnico di Milano.

Sono una persona positiva. Non riesco a soffermarmi sul lato drammatico di ciò che accade. In questo periodo abbiamo assistito a tante cose negative, ma penso che ne usciremo. Ho visto tanta gente che mai si era impegnata, darsi da fare per aiutare gli altri. Tanti che non si erano mai accostati al volontariato e che proprio nel momento più difficile hanno deciso di agire per non abbandonare chi aveva bisogno – ha detto Bruna M., volontaria Caritas, 67 anni, Reggio Calabria. Tanti giovani – e anche meno giovani – hanno recapitato i pacchi della spesa a 730 famiglie seguite dalla Caritas. Un impegno faticoso ma assolto fino in fondo da ragazzi che mai si erano avvicinati prima d’ora a contesti di servizio e che con molta semplicità sono venuti da noi a chiedere “cosa posso fare?”.

 
 
 

Il "re"

‹‹In questi giorni, mentre lavoriamo tutti da remoto››, racconta Giorgio Armani ‹‹ho capito che ci può essere un altro modo, che non intacca la produttività: altrettanto efficace anche se meno immediato. Mi manca, però, lo stretto contatto con i miei collaboratori, il confronto, gli sguardi. E mi fa male non sentire, nel sottofondo, il rumore della Milano che vive, a pieno regime››.

In qualche punto del mondo, in qualche momento, qualcuno ha iniziato a chiamarlo “king”, il re. Nato 85 anni fa a Piacenza e milanese di adozione, la corona guadagnata nella moda, di cui è la stella assoluta, la porta da decenni con le qualità umane, imprenditoriali, creative e soprattutto la genialità di chi ha aperto e continua ad aprire nuove strade.

Per primo ha capito che la moda poteva diventare più accessibile e, in un certo modo, “democratica”. Nel 1981 ha creato Emporio Armani, che ha permesso a tanti di indossare bomber e jeans con l’iconico logo dell’aquila. Nel 2004 ha lanciato EA7, per portare il suo stile agli sportivi. E da amante del basket è diventato mecenate e patron dell’Olimpia Milano, che segue con affetto costantemente sugli spalti dal 2008. Affascinato dai valori del grande sport, ha vestito la nazionale alle Olimpiadi e gli Azzurri del calcio. È stato uno dei primi stilisti, inaugurato il millennio, a creare linee di design come Armani/Casa e persino Armani/Fiori, per raffinati allestimenti floreali. E poi ristoranti tra cui il Nobu, che ha lanciato la tendenza del sushi in Italia, e l’Emporio Armani Caffè, diventato uno dei locali di riferimento del Quadrilatero della moda, i dolci, il suo panettone va a ruba e infine la catena di hotel di lusso. Ogni progetto è stato portato avanti con la stessa passione e quello stile che sa essere made in Italy e internazionale insieme, e viene universalmente riconosciuto come il suo tratto inconfondibile. Togliere piuttosto che aggiungere è uno dei suoi diktat. Colore sì ma spesso soffuso, discreto. Il suo passo nel mondo è stato proprio così, lieve e inimitabile, come il “greige”, quel tono fra grigio e beige che contraddistingue molte sue collezioni. Mai accesi, niente esagerazioni, nell’effimero e rutilante mondo del lusso è un faro dalle solide fondamenta, a cui tutti sempre guardano. Così, ancora una volta oggi è arrivato primo. È stato il primo a decidere di non sfilare alla Settimana della Moda. Era solo il 23 febbraio: il coronavirus cominciava a insinuare la silenziosa e invisibile minaccia anche nell’aria della sua amata Milano. E lui, tempestivo e risoluto, gli ha chiuso le porte. ‹‹La sfilata è stata registrata a teatro vuoto e trasmessa in streaming sulle piattaforme on line, non volevo esporre ad alcun rischio la salute degli ospiti, che erano lì per lavorare, e dei miei dipendenti››, spiega. ‹‹È stato surreale vedere la platea vuota, ma avevo la consapevolezza di aver fatto una scelta saggia, che ripeterei››.

Da quel momento, la volontà di Armani di combattere uno dei più grandi nemici della nostra storia si è vista giorno dopo giorno. Rinviata la sfilata a Dubai, l’8 marzo 2020 fa una donazione di un milione e 250 mila euro agli ospedali Luigi Sacco, San Raffaele e Istituto dei Tumori di Milano, allo Spallanzani di Roma e alla Protezione Civile. Il 10 marzo chiude negozi, hotel, caffè e ristoranti, sempre in continuità con le linee preventive da lui adottate, per non mettere a rischio la salute dei dipendenti e clienti.

E arriva, con il cuore in mano, da milanese ormai quasi doc e da ex studente di Medicina che per la Moda ha messo nel cassetto il sogno di ragazzo di diventare dottore, la sua lettera al personale sanitario italiano. ‹‹… Tutta la Giorgio Armani è sensibile a questa realtà ed è vicina a tutti voi: dal barelliere all’infermiera, dai medici di base a tutti gli specialisti del settore. Vi sono personalmente vicino››.

Personalmente vicino, è questa la vocazione di questo imprenditore, amato da chi lavora con lui e per lui, per ‘umiltà, la personale conoscenza di ogni passaggio della infinita catena delle sue aziende. Una persona che, da quando curava le vetrine dei grandi magazzini La Rinascente alla fine degli anni Cinquanta, non si è mai tirato indietro nei confronti di nessun compito. Un re, ma un re che non dimentica il benessere dei suoi.

In un momento storico eccezionale, ci piace ascoltare il punto di vista di un imprenditore così illuminato.

Sta forse cambiando ora a livello internazionale l’immagine dell’Italia e della sua amata Milano?

‹‹L’Italia è un Paese resiliente, che sta dimostrando di avere un sistema sanitario tra i migliori del mondo, per efficacia e per accessibilità, e di questo sono molto orgoglioso. E Milano, che oggi è una delle città più colpite dal contagio, non smette di avere quella determinazione e quella forza fattiva, concreta, che le è propria e che l’ha resa cuore pulsante di business e cultura a livello mondiale. È una grande prova quella che stiamo affrontando, ma sono certo che ne usciremo uniti, stimolati a trovare soluzioni per ripartire con un ritmo diverso, mi auguro, e forse più consapevoli di dover affrontare un mondo dove i problemi sono globali. La crisi non cambierà l’immagine del Bel Paese, perché nulla potrà intaccarne il carattere e la cultura profondamente radicata nella sua bellezza, da cui trae forza e ispirazione››.

E la battaglia del re per la sua Milano e l’Italia continua. Il 26 marzo comunica la conversione di tutti i suoi stabilimenti italiani alla produzione di camici monouso destinati alla protezione degli operatori sanitari contro il coronavirus. Decide inoltre di dare il suo contributo anche all’ospedale di Bergamo, a quello di Piacenza e della Versilia, arrivando così a una donazione di 2 milioni di euro. Coinvolge anche la società, i giocatori e l’allenatore della Pallacanestro Olimpia Milano, che rinunciano a una parte dello stipendio per sostenere le strutture ospedaliere. In tutto un altro milione di euro.

Combatte, ma ha paura come tutti?

‹‹Sì, certo, in questo momento ho paura, per me, per le persone che mi sono vicine, ma anche per chi non conosco, le persone sconosciute e lontane››.

Un momento di profonda riflessione sulla vita, che diventa inevitabilmente un pensiero sul suo mondo, quello della Moda…

‹‹Sono anni che sollevo gli stessi interrogativi, spesso inascoltato e anzi passando per moralista: il lusso non può e non deve essere fast. Non ha senso che una mia giacca o un mio tailleur vivano in un negozio per tre settimane prima di diventare obsoleti, sostituiti da merce nuova che non è poi troppo diversa. Io non lavoro così, e trovo immorale farlo. Ho sempre creduto in un’idea di eleganza senza tempo, che non è solo un preciso credo estetico, ma un atteggiamento nella progettazione e realizzazione dei capi che suggerisce un modo di acquistarli: perché durino. Questa crisi è una meravigliosa opportunità per rallentare e disegnare un orizzonte più vero. Una riflessione che sto vivendo sulla mia pelle: io, abituato a ritmi frenetici, sto imparando come tutti l’importanza di rallentare. Una pausa che diventa un’occasione di intimità, un modo di nutrire il nostro pensiero. Questo è il grande insegnamento che, alla fine, ci lascerà questa esperienza di lungo isolamento››.

Per molti, nella pandemia, credere e appellarsi a Dio è di conforto. Aiuta anche lei?

‹‹Avere fede è un dono grandissimo, un conforto sicuro, ma anche il gesto di umiltà di riconoscere che c’è qualche cosa che guida la nostra vita. Mi è capitato, in alcuni momenti veramente molto difficili, di rivolgere una preghiera e farlo è stato di grande conforto››. (FC n. 19 del 10 maggio 2020).

 
 
 

Cielo stellato

Post n°3341 pubblicato il 11 Maggio 2020 da namy0000
 

2020, Luigino Bruni, Avvenire, 10 maggio.

Non è bene che Dio sia solo

E quando miro in cielo arder le stelle; / Dico fra me pensando: / A che tante facelle? / Che fa l’aria infinita, e quel profondo / Infinito Seren? che vuol dir questa / Solitudine immensa? ed io che sono?

Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia

Alcune persone ricordano per tutta la vita il giorno in cui hanno visto per la prima volta il cielo stellato. Lo avevano "visto" altre volte, ma in una benedetta notte è successo qualcosa di speciale e lo hanno visto veramente. Hanno fatto l’esperienza metafisica dell’immensità e, simultaneamente, hanno avvertito tutta la propria piccolezza e fragilità. Si sono, ci siamo, visti infinitamente piccoli. E lì, sotto il firmamento, sono fiorite domande diverse, quelle che quando arrivano segnano una tappa nuova e decisiva della vita: dove sono e cosa sono i miei affari? e i miei problemi? cosa è la mia vita? cosa i miei amori, i miei dolori? E poi è arrivata la domanda più difficile: e io, che sono? È il giorno tremendo e bellissimo; per alcuni segna l’inizio della domanda religiosa, per altri la fine della prima fede e l’inizio dell’ateismo – per poi scoprire, ma solo alla fine, che le due esperienze erano simili, che magari c’era molto mistero nella risposta atea e molta illusione in quella religiosa, ma lì non potevamo saperlo. Non tutti fanno questa esperienza, ma se la desideriamo possiamo provare a uscire di casa in queste notti fatte più calme e nitide dai mesi sabbatici, cercare le stelle, fare silenzio, attendere le domande – che, mi hanno detto, qualche volta arrivano.

Per qualcuno, poi, c’è stato un altro giorno decisivo. Quando quell’infinitamente piccolo ha fatto l’esperienza che quell’«Amor che move il sole e l’altre stelle» si interessava di lui, di lei, lo cercava, gli parlava, la incontrava. Giorno altrettanto decisivo, perché non basta l’esperienza vera del giorno delle stelle perché inizi la vita religiosa. Ci sono molte persone che sentono veramente vibrare lo spirito di Dio nella natura, odono la sua voce risuonare nelle notti stellate e in molti altri luoghi, ma non si sono mai sentite chiamare per nome da quella stessa voce. Come ci sono altri che hanno fatto un autentico incontro personale con la voce dentro, ma che poi non l’hanno mai sentita vivere nell’universo intero, che non si sono mai commossi riconoscendola nell’immensità del cosmo. È l’incontro tra questi due giorni che segna l’inizio della vita spirituale matura, quando l’immensità che ci svela la nostra infinita piccolezza diventa un tu più intimo del nostro nome.

L’autore del Salmo 8 ha fatto, credo, l’esperienza di entrambi questi giorni. Ha riconosciuto la presenza di YHWH nel firmamento infinitamente grande e si è sentito infinitamente piccolo; e poi ha intuito che la voce che gli parlava tra le galassie era la stessa voce che gli parlava nel cuore: «Come splende, YHWH, il tuo nome su tutta la terra: la bellezza tua voglio cantare, essa riempie i cieli immensi... Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, io mi chiedo davanti al creato: e l’uomo che cos’è? perché di lui ti ricordi? Che cosa è mai questo figlio d’uomo perché tu ne abbia una tale cura?» (8, 2-5). Versi meravigliosi. Dovremmo avere il cuore e le stigmate di Francesco per cantarli.

Assistiamo in presa diretta a una esperienza dell’assoluto. Quell’antico poeta ha avvertito l’immensità e la piccolezza, non si è sentito schiacciato, e ha iniziato un nuovo canto. Il canto dell’umiltà (humilitas) vera, perché l’humus ci dice chi siamo veramente solo se riusciamo per un attimo a guardarlo da distanza siderale; l’adamah (terra) svela l’Adam solo se vista dall’alto. È questa la gioia per la verità finalmente rivelatasi, per una nuova ignoranza che non umilia. L’umiltà è l’opposto dell’umiliazione. E si sperimenta una nuova infanzia, una sconfinata giovinezza: «Da fanciullo e lattante balbetto» (8,3).

Al centro del salmo una domanda: cosa è il figlio d’uomo (Ben Adam: espressione cara ai profeti e ai vangeli), di fronte a tanta immensità?! Splendida è la risposta: nonostante la sua insignificanza in rapporto alle stelle e la sua piccolezza nel tempo e nello spazio, tu ti prendi cura dell’uomo, tu ti ricordi di lui. Come a dire: se tu tenessi conto, o Dio, di quello che l’Adam è oggettivamente in rapporto all’universo sterminato, non dovresti occupartene; e invece ti prendi cura di lui, di lei. E quindi la domanda necessaria: ma questa voce che mi parla dentro è proprio la stessa che ha parlato tra le galassie? La risposta del primo giorno può essere soltanto un sì, altrimenti il cammino non incomincia! Col passare del tempo la risposta diventa: forse. Poi arrivano i lunghi anni quando la risposta è: no. Infine ritorna il sì, ma – se e quando ritorna – è un sì detto con un’altra profondità e un’altra umiltà. E qui nasce una nuova meraviglia, trabocca la gratitudine, riaffiora la preghiera degli ultimi tempi.

Sta in questa tensione tra le stelle e il cuore, abitati entrambi dalla stessa presenza, la dignità dell’Adam, dei suoi figli e delle sue figlie, la sua gloria e il suo onore. Ci si perde nelle varie ideologie quando si perde uno di questi due poli. Dobbiamo leggere il Salmo 8 in parallelo con i primi capitoli della Genesi: «E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (Gn 1,27). Il versetto della Bibbia che, forse, amo di più. L’Adam è posto da Elohim al centro del giardino della creazione perché ne fosse custode e responsabile. Il Salmo ce lo ridice: «Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi» (Salmo 8,7). L’Adam diventa il primo interlocutore di Dio, perché con la sua reciprocità potesse accompagnare anche la solitudine di Dio – «non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2,18) va letto insieme all’altra frase non scritta nella Bibbia ma altrettanto presente: non è bene che Dio sia solo.

Non mi stupirebbe se l’autore di quell’antico salmo mentre cantava avesse sottomano questi versi della Genesi. Forse stava meditando e contemplando "cosa è l’uomo" quando, ad un certo punto, non ha più retto l’emozione e ha composto uno dei versi più belli sull’uomo mai scritti da tutta la letteratura religiosa e laica. Dopo averlo visto sub specie aeternitatis, dopo essere andato con l’anima sulla luna e averlo perso di vista tanta era la sua piccolezza, tornato a quelle parole della Genesi ha rivisto un altro uomo. E ha pronunciato questo capolavoro, che va letto dopo qualche attimo di silenzio: «Eppure l’hai fatto poco meno di Elohim, di gloria e di onore lo hai coronato» (8,6). Eppure: a volte la Bibbia sa racchiudere in una umile congiunzione tutta la sua profezia. Siamo effimeri, siamo come l’erba ... eppure... «Una voce dice: "Grida", e io rispondo: "Che cosa dovrò gridare?". Ogni uomo è come l’erba. Secca l’erba, il fiore appassisce ... Veramente il popolo è come l’erba» (Isaia 40,6-7). Veramente ... eppure. Siamo stati pensati, cercati e amati tra un veramente e un eppure. Veramente effimeri come l’erba, veramente infinitamente piccoli, veramente infedeli e peccatori; eppure poco meno di Dio, eppure sua immagine e somiglianza, eppure amati, curati e attesi come figli.

Questa è l’immensa antropologia biblica. La letteratura antica conosceva la metafora dell’immagine di Dio applicata all’uomo. Ma era usata per il re, per il faraone. La Bibbia la usa per ciascuno di noi, per ogni uomo e per ogni donna, per te, per me. È l’Adam, ogni Adam, l’immagine e somiglianza di Elohim; e quindi lo siamo anche noi, tutti noi. È questa la magna carta di ogni dichiarazione dei diritti dell’uomo e della donna, dei bambini, delle bambine, della dignità del creato. Il Salmo 8 è un inno a Dio e insieme un inno all’uomo. Esalta la persona dicendoci chi è quel Dio di cui egli è immagine, ed esalta Dio dicendoci chi sono l’uomo e la donna che lo riflettono. Perché se l’uno è immagine dell’altro, più l’Adam diventa bello più dice la bellezza del suo Creatore, e più lasciamo libero Dio di diventare migliore di noi, più abbelliamo noi stessi. Non capiamo l’antropologia biblica se usciamo dalla reciprocità intrinseca al simbolo dell’immagine.

Ma la bellezza e la forza di questo canto esplodono se immaginiamo il salmista cantare quel versetto 6 mentre leggeva anche i capitoli tre e quattro della Genesi: quelli della disobbedienza, della seduzione vincente del serpente, e poi Caino e il sangue di Abele, di cui il salmista sentiva ancora l’odore. È troppo semplice cantare la gloria e l’onore dell’uomo fermandosi al capitolo due. La sfida decisiva è riuscire a continuare il canto mentre i capitoli scorrono e si entra nelle pagine buie e buissime del no, quelle della rottura dell’armonia uomo-donna-creato-Dio, nelle pagine della cacciata da quel giardino meraviglioso, quelle della notte oscura del primo fratricidio della terra. E giunti lì, non smettere il canto. E poi continuarlo con l’urlo tremendo di Lamek l’uccisore di fanciulli, con la ribellione di Babele, con i peccati dei patriarchi, con le bugie e gli inganni di Giacobbe, con l’omicidio dei beniaminiti, fino all’omicidio di Davide, alle infedeltà di Salomone e di quasi tutti i re d’Israele. E non smettere mai di cantare: «Veramente ... Eppure lo hai fatto poco meno di un Dio».

Tutta la forza dell’antropologia biblica si sprigiona quando riusciamo a vincere il dolore e la vergogna e ripetiamo "veramente ... eppure" non solo di fronte al firmamento ma anche nelle carceri, nelle meschinità, nelle violenze, nei bassifondi di Calcutta, nelle via crucis che portano al Golgota. Non c’è condizione umana che non sia racchiusa tra quel veramente e quell’eppure, nessuno resta fuori. La Bibbia non ha avuto paura di narrarci i peccati e le bassezze dei suoi uomini perché credeva veramente all’immagine di Elohim. E ogni volta che nascondiamo nelle nostre storie le pagine più buie abbiamo smesso di credere che siamo immagine.

Caino ha cancellato la sua fraternità e i suoi figli continuano a cancellarla uccidendo ogni giorno Abele. Ma non ha potuto cancellare l’immagine – e se il "segno di Caino" fosse proprio l’immagine di Elohim? «O Dio, Signore nostro, come splende il tuo nome su tutta la terra!» (8,10).

l.bruni@lumsa.it

 
 
 

Fiori per vivere

Post n°3340 pubblicato il 10 Maggio 2020 da namy0000
 

2020, Avvenire 9 maggio.

Storie dell'altro mondo. I fiori del signor Kuroki

Regalare rose è un gesto d'amore, regalare un intero giardino è molto di più. Ma succede, e cambia la vita

Il signor Kuroki l'ha fatto per la moglie, che è cieca. Perché potesse sentire con il naso quello che non vede più con gli occhi.

Succede a Shintomi, un paese nella campagna giapponese: la storia l’ha raccontata il Telegraph e io la colgo cercando di non rovinarla, come si fa con i fiori. 

1956, quando i signori Kuroki si sono sposati. Da allora hanno vissuto nello stesso posto senza spostarsi mai, una fattoria in campagna, vicino ai campi dove hanno sempre lavorato duramente. Poi, a 52 anni, la signora Kuroki si è ammalata di diabete, e ha perso la vista. Da allora si è chiusa in casa, depressa, negandosi anche il privilegio di immaginare la vita, l’unico che le restava. Ma il signor Kuroki non si è arreso. E ha deciso che avrebbe combattuto contro la tristezza di sua moglie.

L'idea gli è venuta dopo aver notato che alcune persone di passaggio si fermavano per guardare il suo piccolo giardino di fiori shibazakura, petali di muschio rosa. Se sua moglie non poteva più vedere il mondo, allora ne avrebbe sentito almeno il profumo. Così di fiori ne ha piantati altri, migliaia. Li ha innaffiati per anni, con cura, ogni giorno. Allargando il giardino anche dove prima coltivava la verdura e la frutta: solo fiori rosa, fino all’orizzonte. E non li ha toccati mai.

La gente così continua a passare davanti alla sua fattoria, annusa l’aria che sa di buono, appende un messaggio o un pensiero delicato sulla porta della stalla, chiede di conoscere la signora Kuroki perché le persone che meritano tanta passione sono sempre un po’ speciali.

Lei non vede, ma sente tutto. Ora esce spesso di casa, saluta volentieri la gente, scambia qualche parola, passeggia con loro, arrossisce orgogliosa di fronte ai complimenti per i suoi fiori meravigliosi. E soprattutto adesso sorride. Di certo conosce quel detto orientale che contiene tutto: “Mi chiedi perché compro riso e fiori? Compro il riso per vivere, e i fiori per avere una ragione per cui vivere”.

 
 
 

Silvia liberata

Post n°3339 pubblicato il 10 Maggio 2020 da namy0000
 

2020, Avvenire 9 maggio.

Dopo un anno e mezzo. Liberata Silvia Romano: "Sono stata forte, sto bene"

L'annuncio del presidente del Consiglio: grazie ai servizi di intelligence. Era stata sequestrata in Kenya il 20 novembre 2018. Il parroco: "Ho subito suonato le campane"

"Sono stata forte e ho resistito. Sto bene e non vedo l'ora di ritornare in Italia". Queste le prime parole di Silvia Romano dopo la liberazione.

L'operazione dell'Aise, diretta dal generale Luciano Carta, che portato alla liberazione di Silvia, è stata condotta con la collaborazione dei servizi turchi e somali ed è scattata la scorsa notte in Somalia, a 30 chilometri da Mogadiscio. La ragazza era nelle mani del gruppo jihadista al-Shabaab, l'organizzazione somala affiliata ad al-Qaeda. L'operazione è avvenuta in una zona in condizioni estreme perché colpita negli ultimi giorni dalle alluvioni.

La volontaria è stata condotta in sicurezza nel compound delle forze internazionali a Mogadiscio. Il rientro in Italia avverrà domani, domenica, alle 14 all'aeroporto di Ciampino.

La cooperante, che ha compiuto 24 anni mentre era ostaggio, era stata rapita il 20 novembre del 2018 da una milizia armata di fucili e machete. Si trovava a Chakama, località costiera nel sud-est del Kenya, a 80 chilometri da Malindi, e stava lavorando a un progetto educativo per l'infanzia con l'organizzazione non governativa Africa Milele. In seguito erano stati arrestati in Kenya tre dei suoi otto sequestratori.

IL RAPIMENTO E LE INDAGINI

Sulla dinamica del rapimento resta però tutto da chiarire. Così come su dove e con chi sia stata Silvia in questo anno e mezzo. Secondo quanto ricostruito dalla Procura di Roma e dai carabinieri del Ros, era tenuta prigioniera in Somalia da uomini vicini al gruppo jihadista Al-Shabaab ed era considerata "ostaggio politico".

L'incredulità del padre

"Lasciatemi respirare, devo reggere l'urto. Finché non sento la voce di mia figlia per me non è vero al 100%": così ha detto all'Ansa Enzo Romano, il papà di Silvia. "Devo ancora realizzare, mi lasci ricevere la notizia ufficialmente da uno dei mie referenti" ha aggiunto.

E più tardi: "Ora ho solo bisogno di pensare, di ragionare, finché non la vedo non mi sembra vero, è un momento delicato". "La felicità è talmente grande che scoppia - ha aggiunto - non mi interessa di nessun altro, solo di riabbracciare mia figlia dopo 17 mesi".

Il parroco: "Ho subito suonato le campane". Canti dai balconi

Nel quartiere alla periferia di Milano dove la giovane abita ci sono stati canti e musica dai balconi. E le campane della parrocchia hanno suonato a festa. "In un momento di grande dolore è bello che finalmente arrivi questa buona notizia che si attendeva da tanto - dice all'Adnkronos don Enrico Parazzoli.  Domani nella messa via streaming la notizia della liberazione della giovane volontaria. "La ricorderò con grande gioia - dice don Enrico - come una notizia meravigliosa in un momento tanto brutto. Dirò anche che per una persona liberata, ci sono tanti altri che attendono di essere di nuovo liberi. Non dimentichiamoli".

"Nel palazzo tutto parlavano di lei. Segno che nessuno l'aveva dimenticata. Si aspettava questa bella notizia. Ora è arrivata".

Non si contano i messaggi di gioia per la liberazione di Silvia, giunti da esponenti della politica, di tutti i partiti, delle istituzioni e della cooperazione internazionale. Così il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: "La notizia della liberazione di Silvia Romano è motivo di grande gioia per tutti gli italiani. Invio un saluto di affettuosa solidarietà a Silvia e ai suoi familiari, che hanno patito tanti mesi di attesa angosciosa. Desidero esprimere riconoscenza e congratulazioni agli uomini dello Stato che si sono costantemente impegnati, con determinazione e pazienza, tra tante difficoltà, per la sua liberazione Bentornata, Silvia!".

 
 
 

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il 31/08/2022 alle 18:17
 
Ottimo articolo da leggere sul divano sorseggiando gin...
Inviato da: cassetta2
il 09/05/2022 alle 07:28
 
 

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