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Messaggi di Ottobre 2020

Unioni civili

Post n°3430 pubblicato il 24 Ottobre 2020 da namy0000
 

 

Papa, matrimonio e famiglia, unioni omosessuali. L'amore della chiesa e di mamma Rosina

Maurizio Patriciello, Avvenire, venerdì 23 ottobre 2020

La conobbi che era già vecchia, si chiamava Rosina. Iniziammo a frequentarci, ben presto crebbe la fiducia e l’affetto tra noi. Giorno dopo giorno, volle raccontarmi la storia della sua lunga e travagliata vita. Nata e vissuta in una famiglia povera di un quartiere popolare della vecchia Napoli, giovanissima, aveva sposato Andrea, un uomo onesto, ma puntiglioso e prepotente. Di figli al mondo ne avevano messi tanti; i maschi, naturalmente, erano l’orgoglio di papà. Anche Matteo, l’ultimo arrivato, fu accolto e coccolato, almeno fino a quando non iniziò a dare segni di 'stranezze'.

Matteo era omosessuale. Bullizzato dai vicini e dagli amici per tutti era il 'femminiello' del quartiere. Andrea non si chiese mai se e quanto Matteo soffrisse per la sua situazione, né mai si preoccupò di parlargli a cuore aperto per tentare di capire. No, quel figlio, i suoi modi di essere, quei suoi atteggiamenti alquanto femminei, lo mandavano su tutte le furie; Matteo era il suo cruccio, la vergogna della sua casa, e lui pensava di risolvere il problema come aveva sempre fatto, minacciando, inveendo, picchiando. Matteo, però, non dava segni di 'ravvedimento' e Andrea sfogava la sua rabbia anche su sua moglie: era infatti la mamma, secondo lui, ad assecondare la condotta 'disonorevole' del figlio. Le cose non stavano così; al contrario, Rosina con Matteo ci parlava, lo richiamava, a volte anche lo rimproverava; sempre lo invitava alla prudenza. Insomma, a modo suo, tentava di proteggerlo.

In casa, però, c’era l’inferno e la colpa, secondo Andrea, era tutta di quel figlio «vizioso». «Meglio morto che omosessuale », ripeteva ai pochi parenti con i quali ancora accettava di parlare. Era ancora molto giovane Matteo quando fu messo alla porta. Rosina tentò di far ragionare il marito: che fine avrebbe fatto quel ragazzo lontano dalla sua casa? Niente da fare, Andrea fu irremovibile. Matteo tra lo sconcerto dei fratelli, le bestemmie del padre e le lacrime della mamma, preparò il fagotto. Ma dove sarebbe andato? La guerra era finita da poco, Napoli, ridotta a un cumulo di macerie, versava in condizioni miserabili; la famiglia, benché povera, era l’unico appiglio per non finire sotto i ponti. Matteo, senza fiatare, chinò il capo e accettò la sentenza paterna. La mattina della partenza, però, nel piccolo 'basso' dove la luce stentava ad arrivare, di valigie preparate ce n’erano due.

«Che fai? Dove vai?», chiese, con fare burbero, Andrea alla sua sposa. Rosina, donna minuta, fragile, sottomessa, analfabeta, che sapeva esprimersi solo nella nostra bella lingua napoletana, rispose con fermezza: «Vado via con Matteo, al mondo ormai ha solo me, tutti gli avete voltato le spalle. Sono sua mamma e una mamma non abbandona mai i suoi figli. Tu bada agli altri, io mi prenderò cura di lui…». Non poche volte, nell’esercizio del mio ministero sacerdotale, ho avuto la sensazione che il Signore mi parlasse attraverso le persone che incrociavo sul mio cammino.

Con Rosina ne ebbi la certezza. Mi ritorna alla mente questa storia triste e dolorosa, ma anche zeppa di amore e di speranza mentre leggo e rileggo le esatte parole di papa Francesco sui fratelli e le sorelle omosessuali e i tanti commenti a favore o contro che ne sono stati fatti e che continueranno ad arrivare nei prossimi giorni. Nessuno tenti di strumentalizzare le parole evangelicamente cristalline di Francesco. Il Papa non sta mettendo in discussione la dottrina cattolica a riguardo, non ha tolto niente a chi nella Chiesa ha la grazia di nutrirsi della Parola di Dio e dei Sacramenti.

Non ha equiparato un’unione civile omosessuale alla famiglia tra un maschio e una femmina fondata sul sacramento del matrimonio. Il Santo Padre – mi permetta il paragone, Santità – come la povera e meravigliosa Rosina, sta tentando di far capire a tutti, credenti e non credenti, che Dio ama tutti e non può lasciare ai margini nessuno. Il Santo Padre sta chiedendo a chi ha avuto la grazia di conoscere, amare e servire Gesù, di allargare il cuore a dismisura, senza paura e senza rimpianti. Pur chiamati a essere santi, tanti di noi, credenti e praticanti, santi, purtroppo, non lo diventeremo.

Il Signore ci ama lo stesso e accetta i pochi pani che gli offriamo. Vedo la vita cristiana come un lago dove un sasso lanciato dalla mano di un bambino ha dato vita a una serie di cerchi concentrici. Chiediamoci onestamente: in quale cerchio possiamo immedesimarci? Ognuno risponda per sé. Stupende le parole di Rosina: «Una mamma non abbandona mai i suoi figli» . Nemmeno un padre. Nemmeno il Papa e la Chiesa voluta da Gesù.

 
 
 

Vi racconto

Post n°3429 pubblicato il 22 Ottobre 2020 da namy0000
 

 

2020, Avvenire 17 ottobre

Precious, più forte della tratta: «Vi racconto il mio futuro»

Il viaggio verso l’inferno dalla Nigeria alla Libia, poi lo sbarco in Italia nel 2016 e la vita da schiava. Oggi la giovane, salvata dalla Caritas, si è sposata e ha una bambina

Dalle violenze e gli abusi nei campi di detenzione di Tripoli all’inganno dei connazionali nel Belpaese. Poi l’incontro con Angela, la volontaria che ha restituito alla giovane la dignità: «Ho trovato una seconda madre»

Precious aveva studiato in Nigeria. Aveva anche un lavoro. Certo, la vita era molto precaria. Sempre e solo incertezze e insicurezza. Ma anche tanta ingiustizia e troppe diseguaglianze. «La Nigeria è un Paese ricchissimo, ma solo pochi dispongono di enormi fortune, mentre la maggior parte della gente vive nella miseria – si rammarica Precious –. Io avevo un lavoro, ma il mio capo non era una persona onesta. Mi sono informata e ho parlato con un’amica. Ho pensato che in Europa avrei potuto vivere meglio. Ma adesso capisco che su Internet si trovano tante informazioni false».

Comincia quasi sempre così – con un sogno e con un inganno – il viaggio verso l’inferno della tratta in cui sono precipitate decine di migliaia di donne nigeriane. Precious, però, ce l’ha fatta davvero ad avere una seconda chance. È una donna intelligente, piena di energie e determinazione. Capace anche di sacrifici. Ma prima è dovuta passare anche lei da quell’abisso.

Precious è arrivata in Italia nel 2016, l’anno del boom di sbarchi di nigeriani e nigeriane: più di 37mila in tutto, di cui 11mila donne. Moltissime erano minorenni, anche se quasi nessuna lo dichiarava. Volevano essere libere. Non sapevano che sarebbero diventate schiave della strada. Molte erano pure incinte o con bambini piccolissimi. Figli delle violenze subite in Libia.
Preciuos ci è rimasta intrappolata per quasi sei mesi in quel Paese.

«Sono stata in campi e in prigione. Sono successe cose orribili. Non pensavo che si potessero fare simili cose. Gli Asma Boys erano crudelissimi: ci maltrattavano e picchiavano. Piangevo ogni giorno. E pregavo molto, pregavo sempre. Con l’amore di Dio sono riuscita a scappare».

Approfittando di uno scontro tra Asma Boys – giovani criminali libici legati alle varie milizie – e la polizia, Precious è riuscita a liberarsi. «Ho perso i sandali correndo, ero sporchissima. Alcuni bambini mi hanno vista e si sono spaventati. Hanno chiamato la loro mamma, una donna libica che mi ha aiutato molto. Anche lì ci sono persone buone. Vorrei tanto ringraziare quella famiglia…».

«Quando le abbiamo accolte – ricorda Angela M., della Caritas di Lecco, che aveva ospitato 16 ragazze nigeriane in un’ex canonica – non è stato facile né per noi né per loro. C’era molta fatica da parte nostra a capire, molta diffidenza da parte loro. Difficile andare oltre le maschere che di volta in volta frapponevano ai nostri tentativi di avvicinarci: maschere che spesso nascondevano vissuti di violenza, abusi e sfruttamento». Precious la chiama “la mia mamma”: è stata la sua guida e il suo appoggio qui in Italia. Angela sostiene che ce l’ha fatta anche perché la sua vera mamma è una donna con valori forti che ha trasmesso alla figlia. Le sue due mamme, ma soprattutto lei, hanno fatto la differenza.

«Quando sono arrivata in Italia – continua Precious – non ho trovato certo quello che mi aspettavo. Ma ormai ero qui e ho pensato che dovevo fare del mio meglio per trovare una strada per me». Una strada che non poteva e non doveva essere quella in cui finiscono gran parte delle giovani donne nigeriane arrivate nel nostro Paese.

Un destino che sembra quasi ineluttabile, anche perché le catene reali e invisibili che le tengono legate a trafficanti e sfruttatori sono difficilissime da spezzare. Sono fatte di minacce e a volte di vere e proprie violenze sia nei loro confronti che di quelli della famiglia; sono fatte di pratiche voodoo e di condizionamenti psicologici potentissimi; sono fatte anche di promesse ambigue e di inganni sentimentali, che si insinuano nelle menti e nei cuori di ragazze spesso molto ingenue.

«Anche noi siamo stati in qualche modo ingannati da un giovane che non destava alcun sospetto – ammette Angela –. Aiutato da una parrocchia, aveva un lavoro a tempo pieno, si era sposato e, apparentemente, aiutava altre ragazze. Poi la polizia ha scoperto che faceva parte di una rete di trafficanti ramificata tra Lecco, Palermo e Napoli. Ora è in prigione, condannato a otto anni».

Precious, invece, è in maternità. Per lei il sogno si è veramente realizzato. Ma ha lavorato duro. «Ho studiato l’italiano e preso il diploma di terza media. Poi ho frequentato l’Accademia del Panino Giusto, grazie a un progetto di Caritas Ambrosiana, e sono stata assunta. Nel frattempo mi sono sposata e, lo scorso settembre, è nata la mia bambina. Non tutto è facile. Ma adesso so che nel mio futuro c’è qualcosa di bello».

 
 
 

Effetti dell'indifferenza

Post n°3428 pubblicato il 21 Ottobre 2020 da namy0000
 

 

Le parole di Liliana Segre restano una testimonianza per l’eternità

Questa donna ci ricorda quanto siano crudeli e devastanti gli effetti del silenzio, dell’indifferenza o dell’egoismo contro ogni odio e violenza

Gli applausi al termine dell’ultima testimonianza pubblica di Liliana Segre non finivano più. È stata lei, con voce commossa, a pronunciare un “basta” pieno di Amore. La senatrice ha detto che da novantenne, come si fa alla sua età, ha deciso di stare a riposo, e per questo ha scelto come luogo del racconto finale degli orrori che affrontò appena tredicenne, da deportata ad Auschwitz e in vari lager tedeschi, Rondine Cittadella della Pace, per lasciare simbolicamente la sua eredità morale ai giovani “ex nemici” provenienti da zone di conflitto e futuri leader di pace. «Ho scelto di farlo perché questo posto mi rapì dalla prima volta che ci venni, perché rappresenta quello che avrei voluto fare io se ne avessi avuto la possibilità: lottare contro odio e violenza, costruendo cultura di pace». Curiosamente, lei e il fondatore di Rondine, Franco Vaccari, si incontrarono nel Monastero di Camaldoli vent’anni fa, luogo crocevia di una fratellanza senza confini. «Sei un bene comune», ha detto Vaccari a Liliana. E lo pensavano tutti i presenti e i collegati online (tutti gli studenti). «La scuola ti ha amato e ti amerà sempre», le ha detto la ministra Azzolina, che ispirandosi alla sua vita lancia un nuovo progetto educativo per l’armonia e il rispetto tra le etnie e le culture diverse, dal titolo “Voltati e guarda Janine”. Janine era la compagna di lavoro alla fabbrica di munizioni Union che Liliana non ebbe il coraggio di guardare quando non la selezionarono per la sopravvivenza, a causa delle tre dita che le aveva falciato una macchina, le kapò del lager, mentre chi era avanti passava. «Non ebbi il coraggio di guardarla, neppure di pronunciare il suo nome o di dirle ti voglio bene». Il rimorso di quel silenzio l’ha spinta a rendere Janine viva per sempre. Così come la scelta di non prendere la rivoltella che il gerarca nazista dell’ultimo piccolo campo di concentramento aveva lasciato cadere per terra per vendicarsi delle crudeltà subite. In quell’attimo, ripete sempre Liliana, comprese che sarebbe stata una «donna libera, ma una donna di pace».

I presidenti del Senato e della Camera, il premier, tutti hanno espresso parole di gratitudine all’impegno di Liliana Segre nel coltivare la memoria della Shoah, così pure la certezza che le sue emozioni vivranno per sempre.

Nel donare la copia anastatica della Costituzione italiana, il capo dello Stato, nella dedica, ha ricordato che quel testo originale fu approvato «con la fredda determinazione di non permettere che i mostri del totalitarismo e dell’antisemitismo potessero ancora avvelenare l’Italia, il nostro Continente e il mondo». Parole rivolte al presente, l’eredità di una generazione all’altra. Liliana ricorda bene quando fu respinta alla frontiera, ricorda l’indifferenza della gente durante la marcia della morte che condivise con altre deportate, ma è qui a ricordarci quanto siano crudeli e devastanti gli effetti del silenzio, della dimenticanza o dell’egoismo. «Tu sei un esempio per noi», le ha detto un ragazzo nigeriano di Rondine. È bello pensare che Liliana Segre abbia lasciato la sua ultima testimonianza nel giorno in cui gli FFF (Fridays For Future), nostri italiani dell’anno “in carica”, sono tornati in piazza per l’emergenza climatica. I veri valori non invecchiano mai (FC n. 42 del 18 ottobre 2020).

 
 
 

Più forte della tratta

Post n°3427 pubblicato il 20 Ottobre 2020 da namy0000
 

 

2020, Avvenire 17 ottobre

Precious, più forte della tratta: «Vi racconto il mio futuro»

Il viaggio verso l’inferno dalla Nigeria alla Libia, poi lo sbarco in Italia nel 2016 e la vita da schiava. Oggi la giovane, salvata dalla Caritas, si è sposata e ha una bambina

Dalle violenze e gli abusi nei campi di detenzione di Tripoli all’inganno dei connazionali nel Belpaese. Poi l’incontro con Angela, la volontaria che ha restituito alla giovane la dignità: «Ho trovato una seconda madre»

Precious aveva studiato in Nigeria. Aveva anche un lavoro. Certo, la vita era molto precaria. Sempre e solo incertezze e insicurezza. Ma anche tanta ingiustizia e troppe diseguaglianze. «La Nigeria è un Paese ricchissimo, ma solo pochi dispongono di enormi fortune, mentre la maggior parte della gente vive nella miseria – si rammarica Precious –. Io avevo un lavoro, ma il mio capo non era una persona onesta. Mi sono informata e ho parlato con un’amica. Ho pensato che in Europa avrei potuto vivere meglio. Ma adesso capisco che su Internet si trovano tante informazioni false».

Comincia quasi sempre così – con un sogno e con un inganno – il viaggio verso l’inferno della tratta in cui sono precipitate decine di migliaia di donne nigeriane. Precious, però, ce l’ha fatta davvero ad avere una seconda chance. È una donna intelligente, piena di energie e determinazione. Capace anche di sacrifici. Ma prima è dovuta passare anche lei da quell’abisso.

Precious è arrivata in Italia nel 2016, l’anno del boom di sbarchi di nigeriani e nigeriane: più di 37mila in tutto, di cui 11mila donne. Moltissime erano minorenni, anche se quasi nessuna lo dichiarava. Volevano essere libere. Non sapevano che sarebbero diventate schiave della strada. Molte erano pure incinte o con bambini piccolissimi. Figli delle violenze subite in Libia.
Preciuos ci è rimasta intrappolata per quasi sei mesi in quel Paese.

«Sono stata in campi e in prigione. Sono successe cose orribili. Non pensavo che si potessero fare simili cose. Gli Asma Boys erano crudelissimi: ci maltrattavano e picchiavano. Piangevo ogni giorno. E pregavo molto, pregavo sempre. Con l’amore di Dio sono riuscita a scappare».

Approfittando di uno scontro tra Asma Boys – giovani criminali libici legati alle varie milizie – e la polizia, Precious è riuscita a liberarsi. «Ho perso i sandali correndo, ero sporchissima. Alcuni bambini mi hanno vista e si sono spaventati. Hanno chiamato la loro mamma, una donna libica che mi ha aiutato molto. Anche lì ci sono persone buone. Vorrei tanto ringraziare quella famiglia…».

«Quando le abbiamo accolte – ricorda Angela M., della Caritas di Lecco, che aveva ospitato 16 ragazze nigeriane in un’ex canonica – non è stato facile né per noi né per loro. C’era molta fatica da parte nostra a capire, molta diffidenza da parte loro. Difficile andare oltre le maschere che di volta in volta frapponevano ai nostri tentativi di avvicinarci: maschere che spesso nascondevano vissuti di violenza, abusi e sfruttamento». Precious la chiama “la mia mamma”: è stata la sua guida e il suo appoggio qui in Italia. Angela sostiene che ce l’ha fatta anche perché la sua vera mamma è una donna con valori forti che ha trasmesso alla figlia. Le sue due mamme, ma soprattutto lei, hanno fatto la differenza.

«Quando sono arrivata in Italia – continua Precious – non ho trovato certo quello che mi aspettavo. Ma ormai ero qui e ho pensato che dovevo fare del mio meglio per trovare una strada per me». Una strada che non poteva e non doveva essere quella in cui finiscono gran parte delle giovani donne nigeriane arrivate nel nostro Paese.

Un destino che sembra quasi ineluttabile, anche perché le catene reali e invisibili che le tengono legate a trafficanti e sfruttatori sono difficilissime da spezzare. Sono fatte di minacce e a volte di vere e proprie violenze sia nei loro confronti che di quelli della famiglia; sono fatte di pratiche voodoo e di condizionamenti psicologici potentissimi; sono fatte anche di promesse ambigue e di inganni sentimentali, che si insinuano nelle menti e nei cuori di ragazze spesso molto ingenue.

«Anche noi siamo stati in qualche modo ingannati da un giovane che non destava alcun sospetto – ammette Angela –. Aiutato da una parrocchia, aveva un lavoro a tempo pieno, si era sposato e, apparentemente, aiutava altre ragazze. Poi la polizia ha scoperto che faceva parte di una rete di trafficanti ramificata tra Lecco, Palermo e Napoli. Ora è in prigione, condannato a otto anni».

Precious, invece, è in maternità. Per lei il sogno si è veramente realizzato. Ma ha lavorato duro. «Ho studiato l’italiano e preso il diploma di terza media. Poi ho frequentato l’Accademia del Panino Giusto, grazie a un progetto di Caritas Ambrosiana, e sono stata assunta. Nel frattempo mi sono sposata e, lo scorso settembre, è nata la mia bambina. Non tutto è facile. Ma adesso so che nel mio futuro c’è qualcosa di bello».

 
 
 

Non si dava per vinta

Post n°3426 pubblicato il 17 Ottobre 2020 da namy0000
 

 

2020, Avvenire 16 ottobre.

A cinque giorni dal dramma, Amelia è una città sconvolta. La vita quotidiana apparentemente va avanti come prima ma non c’è angolo della città nella quale la tragica morte di Maria Chiara Previtali non faccia capolino. Il volto della neodiciottenne, trovata senza vita nel letto del fidanzato dopo aver festeggiato la maggiore età e dopo aver assunto una dose di eroina nella notte fra venerdì e sabato scorsi è ancora negli occhi di tutti. Quando gli si chiede di Maria Chiara, la gente di Amelia sospira e fa spallucce, c’è chi si lascia andare ad un pianto e c’è chi razionalmente prova a dare un senso a questa morte assurda. Gli amici di Maria Chiara le hanno reso omaggio con uno striscione che campeggia appena si entra in città lungo le mura poligonali e le hanno fatto una promessa: «Festeggeremo il tuo compleanno, lo faremo, anche se sarà diverso».

Mercoledì sera erano in chiesa, per la veglia di preghiera organizzata da don Mauro Russo, parroco di San Francesco, insieme ai compagni del Kung Fu, disciplina della quale è stata due volte campionessa italiana giovanile ed era cintura nera ed istruttrice: diciotto candele, un video struggente e il saluto dell’atleta. «Mary – racconta Simone, l’amico più stretto – sognava di diventare medico e aiutare chi era in difficoltà. Questo si capiva da quanto fosse presente per gli amici. Quando qualcuno stava male, lei lo capiva dallo sguardo e non si dava per vinta fino a quando chi stava male non trovava sollievo».

Don Mauro Russo invece fa un chiaro riferimento allo smarrimento delle giovani generazioni, reso ancora più forte dai me- si di lockdown, ma anche da quella che chiama “cultura della morte”: «Dobbiamo provare a dare un senso al dolore che abbiamo nel cuore. La storia di Maria Chiara deve diventare un insegnamento per tutti noi, ma soprattutto per voi giovani, perché possa orientare la vostra vita, da oggi e per sempre a non scegliere mai più vie buie e di morte, ma vie di vita, di gioia e felicità perché quello è il motivo per cui siamo stati creati e chiamati, a vivere in pienezza».

 

Don Roberto Tarquini, parroco di Santa Maria in Monticelli, rilancia: «Che brutta ironia della sorte: il padre si dedicava a salvare le vite degli altri nella Comunità Incontro e intanto la droga uccideva la figlia. Non credo sia un problema educativo, i genitori e il fratello hanno fatto di tutto per allontanarla da questo ragazzo che spacciava e con il quale stava da tre mesi, ma non c’è stato verso.

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