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CAMINO MONFERRATO - 4Franco, concluso il corso di avviamento al lavoro, cercava di recuperare un po’ d’istruzione frequentando l’istituto professionale. Noi chierici non subivamo più il controllo della posta. Almeno credo. E c’era un’altra cosa che nessuno avrebbe potuto controllare, la fantasia. Non che fosse una mia prerogativa. Avvertivo anzi fin da Pescia e da Somasca quando i compagni spiccavano il volo con me. C’erano passaggi della giornata in cui tutti eravamo completamente assenti, come contagiati l’uno dall’altro. E a svegliarci era il solito somaro ossequiente, che guardandosi attorno con aria di rimprovero, rispondeva puntualmente all’oremus o alla domanda del superiore. Quel castello, poi, sembrava la sede ideale di tutte le fantasticherie. Fatta eccezione per le brevi ricreazioni a passeggio nel parco, o a scalciare nella piccola radura che avevamo anche lì ricavato tra le piante della parte superiore, o nell’atrio se il tempo era brutto, nei momenti di stasi, specialmente durante le meditazioni, volavo subito dai suoi merli ai Monti Sabini o per mondi sconosciuti; andavo a vivere in isole semideserte, paradisiache; o in luoghi a me noti ma in compagnia di alieni. Tra i miei sogni c’erano anche quelli di carattere religioso: a volte conversavo con la Madonna o convertivo da solo la Russia. Ma più spesso mi abbandonavo a folli avventure tra i paladini dell’Ariosto e affrontavo eroicamente i pericoli necessari per la salvezza e la conquista della mia Angelica. Mi facevo vezzeggiare da una Nausica e mi scopavo con ardore una maga Circe. Fantasticherie e masturbazioni erano un’esigenza fisica irreprimibile. Tranne il tempo di studio, nella mente era un alternarsi sfrenato e continuo di fantasie, a letto, in chiesa, a spasso, dovunque. L’immagine delle mondine che avevo visto attraversare in bicicletta il ponte di Trino con le gambe al vento era un pezzo fisso del repertorio. Ma nobili o popolane, non badavo al sottile, purché fossero donne. Facevo il cascamorto con le contessine e mi scopavo tutta l’area femminile della corte e della servitù. Contemplavo a lungo, come sdraiata nella nivea cinta alpina dominata da un radioso Monte Rosa, perfino la grande valle solcata da un maestoso Po, come se fossi io stesso a penetrare la Val Padana. Cercavo con lo sguardo tra le ombre del parco un vestigio di vita terrestre; e nel volgerlo alle campagne d’intorno, mi soffermavo su qualunque straccio o cespuglio colorato che vedevo lontano, a domandarmi se per caso non fosse una donna. Che sofferenza, Biotto! Potrai mai uscirne? E che cosa sarai diventato, quando infine ne uscissi? |
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