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L'ARCIPELAGO - 6
Il decennio di età che sta a cavallo del mezzo secolo di vita è considerato come il periodo nel quale una persona appare realizzata al meglio delle sue possibilità. Portato a generalizzare le mie personali esperienze, io lo definirei il più balordo: quello che, dato l’addio alla maggior parte dei nostri sogni, conserva qualche parvenza d’ideale o di principio o di valore, come si dice, che non ti fa riscoprire, come poi la terza età, la gioia di esistere, ma ti impone di essere comunque produttivo per poterti assolvere dalla tua accettazione del quotidiano.
A Rieti avevo la macchina di servizio; potevo quindi far riposare un poco la mia vecchia carretta. E una volta, una sola volta che da Monteflavio dovevo recarmi al Ministero, ci feci salire anche Antonietta. Io solo colsi ia sua contenuta emozione, quando Alberto le apriva la portiera. Non insuperbì mai per essere la moglie del provveditore, ma il suo intimo orgoglio era evidente quanto la sua modestia nello sguardo che mi rivolgeva. Era ancora uno sguardo d’amore, sì; e non me ne voglia il lettore se gli sviluppi narrativi del nostro ritorno d’amore come quelli della sua lunga crisi, obbligatori in un racconto (ma questo non è un romanzo), io continuerò a riservarli al mio libro della discrezione.
Sia nei mesi di supplenza a Rieti che nei successivi sette anni di sovrintendenza (all’ultimo piano dello stesso edificio di Via Pianciani) mi gettai nel lavoro fino a farne la mia droga, trascurando tutti gli altri interessi (tranne gli ulivi) e un poco anche la famiglia. Mai però lesinando il sorriso o sottraendomi alle gite fuori porta; dove Alfonsina, che mi aveva seguito nella sovrintendenza, faceva in modo che qualcuno portasse una chitarra per poi obbligarmi alla cantata.
“Da quando c’è lei, dottore, usciamo di casa contenti di venire a lavorare”, mi dicevano gl’impiegati, che convocavo in periodiche assemblee di lavoro.
Vari colleghi, che preferivano coltivare le conoscenze utili per la carriera e per il profitto e che da quegli “uffici periferici” avevano o cercavano nel Ministero il loro santo patrono, si meravigliavano che non cercassi di rientrarvi. Schifato di padrini e di patroni, incurante degli avanzamenti di carriera e dei piccoli privilegi che drogavano gli altri e soprattutto delle prostituzioni che richiedevano, sfogavo la mia insoddisfazione ubriacandomi di lavoro; dodici anni a navigare nell’arcipelago dell’Amministrazione Scolastica Periferica.
Nella Sovrintendenza per il Lazio e l’Umbria ebbi amico il sovrintendente Luciano Amatucci, che mi lasciò quasi per intero la responsabilità della gestione ora decentrata dei concorsi a cattedre. Ma avevo spesso l’occasione di accompagnarmi a lui anche al ristorante e allo stadio (lui campano era un insospettato romanista). |
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