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Nel rileggere adesso le mie lettere, conservate tutte gelosamente dalla mamma, le sento come dettate dai superiori, dei quali a volte passavo anche raccomandazioni e richieste dandole per mie. 14 Gennaio 1951. Dio sia benedetto. Cara mamma, ti scrivo queste poche righe per rassicurarti che il pacco l’ho ricevuto tutto bene. Le ciambellette erano meno spezzate dell’anno scorso. Ti ringrazio di avermelo fatto. Però un altro anno e a Pasqua, quando lo spedisci, da una parte mettici quanti chili pesa e lo scritto: “Frutta secca”… Ad majorem Dei gloriam, si sa. … Sappi che io sto bene e peso 43 Kg… 43 chili a 13 anni… Ero fiero della mia robustezza. A Tata Giovanni avevo imparato che lo Spirito Santo nun abbotta; non capivo il senso riferito a Maria Vergine e non sapevo che semolino e castagnaccio non sono il cibo dei giganti: la mia crescita si stava arrestando; e dal gigante che fino all’adolescenza promettevo di diventare, mi sarei ritrovato, alla visita di leva, con un’altezza perfino inferiore alla media maschile della mia generazione. Ma nelle lettere ripetevo (troppo, perché fosse vero) “io sto bene”. Mi sentivo meglio ad ogni contatto con la vita dalla quale l’amore di Dio mi aveva divelto; sia che fossimo noi ad uscire dal sepolcro, sia che i soliti affezionati e benefattori salissero alle nostre messe o alle nostre recite; perfino nel vedere Italo, il falegname che ci regalava la segatura, aggirarsi tra la chiesa e il cortile col naso in aria, toccandolo continuamente come a sincerarsi che non volasse via; o l’abituale mendicante che ci ringraziava della minestra ricevuta concedendoci il suo comizio demenziale, sempre uguale, contro “i communista e la bomba tomica”. Allo stesso modo il vecchio Castello, che sovrastava come un naufrago il mare di nebbia ai suoi piedi, aspettava solitario che essa si levasse a coprirlo per qualche minuto e poi svanisse verso il cielo, restituendogli la vista amena e amica della Valdinievole. …Ho ricevuto le 150 lire per scrivere in America… In America era migrato, assai prima di Gino, il fratello di nonna Annarella, Giuseppe Savini, che vi aveva sposato una siciliana, zia Santa; e con la sua Santuzza aveva aperto a Boston una locanda. Lui era morto; e alle lettere rispondeva la minore dei quattro figli, che era rimasta nubile e aveva studiato. Con “la Maria americana”, oltre che con Gino, presi a intrattenere una regolare corrispondenza, per tenere aperta così un’altra piccola finestra sul mondo che andavo perdendo. |
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