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All’inizio del ’75, mantenuta la promessa di smaltire tutto il contenzioso dell’Ufficio Concorsi, chiesi al dottor Fazio:
“Vorrei essere assegnato all’Ufficio Studi e Programmazione”. Rimase sorpreso: si aspettava che aspirassi a una posizione di potere e non a impelagarmi nei problemi della scuola e in un ufficio privo, allora, di autonomia finanziaria, perché giuridicamente abusivo.
“E’ un ufficio politico”, obiettò: “Occorrerà il benestare del Ministro”.
Il dottor Emanuele Caruso, che dirigeva in quel periodo la creatura di Gozzer, fu felicissimo della mia richiesta e ottenne il benestare del ministro Malfatti.
Volevo uscire da una struttura burocratica che tutti mi apparivano interessati a lasciare impersonale, irresponsabile e improduttiva; frustrante per chi la viveva e la subiva impotente; come essa subiva passivamente “riforme”, “riassetti” e “ristrutturazioni” che svariavano sul lessico lasciando inalterata la sostanza (“aree” in luogo delle vecchie “carriere”, “funzioni” e poi “livelli retributivi” per le vecchie “qualifiche”). Leggi e leggine di riforma erano tanto impregnate di diffidenza quanto miranti a sottoporla a vincoli e complessità crescenti che incrementavano un burocratismo formalmente deprecato: la politica non poteva deprecarlo e servirsene come scudo se non mantenendolo e incrementandolo. E l’operaismo retorico della sinistra non ne celava tanto l’indifferenza, quanto l’ostilità verso quel ceto medio nel quale era catalogata la massa crescente degli addetti ai Servizi; così verso il settore terziario il PCI si ritrovava spesso in malcelate posizioni punitive, quasi che lo contrariasse vederlo in una condizione lavorativa tanto più solida quanto più gli sfuggiva di mano e rompeva gli schemi del vecchio binomio agricoltura - industria.
In occasione delle elezioni provinciali il Partito, pur non avendo più un candidato credibile nel collegio, ignorò sia il mio impegno in loco che quello che esprimevo nell’ambiente ministeriale, destinando alla trombatura un semianalfabeta di Palombara la cui moglie, però, lavorava in Federazione. Non me la presi, perché forse non avrei neanche accettato quella candidatura. Ma il fatto evidenziava la condizione del militante: un apparato sulla testa e tanti compagni ai fianchi, ma mai un partito dietro le spalle. Il merito era una parola eretica per il PCI; era quindi ignorato finché non fosse reso noto dal solito patrono; e sbarazzarsi del militante che oltre al merito avesse qualche problema era il modo sistematico di non crearne alla superiore entità del Partito. Pensavo allo stesso Gramsci, suo fondatore. Pensavo a Checco. E ripensavo alla Chiesa. |
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