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Messaggi del 29/05/2019

Una incredibile scoperta archeologica

Post n°2219 pubblicato il 29 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Internet

Dio sconosciuto rinvenuto in

Turchia: l'incredibile scoperta

archeologica

Un rilievo di un metro e mezzo scolpito

sul basalto raffigurante un dio fino ad

orasconosciuto, sta facendo interrogare

gli archeologi di tutto il mondo da due anni.

Si tratta di una figura maschile con una folta

barba che emerge da un calice, contornato

da foglie ed accompagnato da simboli che

rimandano al mondo astrale.

Una serie di elementi misteriosi ed inediti per

l'epoca romana.

Il ritrovamento è avvenuto nella regione di

Gaziantep, all'estremo sud dell'Anatolia ed a

pochi chilometri dalla Siria in un tempio 

dedicato a Giove Dolicheno: una struttura di

oltre duemila anni sulla quale è stato costruito

successivamente un monastero cristiano

circondato da mura dell'Età del ferro.

dio sconosciuto 1

Dio sconosciuto rinvenuto in Turchia: l'incredibile

scoperta archeologica Fonte: University of Muenster

Proprio a questa antichissima epoca potrebbe

risalire il culto del dio sconosciuto.

 E' la posizione delle braccia e le caratteristiche

della barba a rimandare ad un lontanissimo passato.

Una misteriosa devozione che avrebbe resistito un

secoli, fino all'arrivo dei Romani.

Si tratta di una testimonianza preziosissima sulla

religione delle popolazioni orientali, centinaia di anni

prima di Cristo.

Secondo una datazione comunemente accettata

l'Età del ferro ha avuto inizio verso la fine del

secondo millennio per terminare con l'avvento

dell'Ellenismo nel 323 a.C.

 
 
 

Le fluttuazioni dell'ossigeno e l'esplosione del Cambriano

Post n°2218 pubblicato il 29 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

Le fluttuazioni dell'ossigeno e l'esplosione del Cambriano

L'eccezionale diversificazione delle forme

di vita animale che oltre 500 milioni di anni fa

caratterizzò la cosiddetta esplosione del

Cambriano fu legata a fluttuazioni estreme

dei livelli di ossigeno atmosferico che provocarono

una serie di picchi evolutivi e di episodi di estinzione

paleontologiaevoluzionebiodiversità

La cosiddetta esplosione del Cambriano -

il periodo in cui la Terra passò in breve tempo

dall'essere popolata da organismi semplici e

unicellulari a ospitare una multiforme varietà

di forme di vita - fu legata a una serie di

drastici aumenti e diminuzioni dei livelli di

ossigeno. Nel corso di poco più di 13 milioni di

anni queste variazioni estreme provocarono

una rapida successione di diversificazioni di

nuove specie - ossia una serie di quelle che

sono dette "radiazioni" - e di estinzioni.

Le fluttuazioni dell'ossigeno e l'esplosione del Cambriano

Trilobite del periodo Cambriano.

A dimostralo è stato uno studio effettuato

da un gruppo internazionale di ricercatori

coordinato da Graham A. Shields dello University

College di Londra, che firmano un articolo 

su "Nature Geoscience".


L'esistenza di una stretta relazione fra livelli di

ossigeno ed esplosione cambriana era sospettata

da molto tempo; finora però non era stato possibile

dimostrarla a causa dell'assenza di qualsiasi

registrazione diretta dell'ossigeno atmosferico

durante quel lontano periodo geologico (fra 540

e 480 milioni di anni fa circa).

Le fluttuazioni dell'ossigeno e l'esplosione del CambrianoUn artropode

gigante del generePhytophilaspis (Cortesia Andrey Zhuravlev,

Lomonosov Moscow State University),Shields e

colleghi sono ora riusciti a determinarli in modo

indiretto analizzando gli isotopi di carbonio e zolfo

presenti in campioni di rocce calcaree che un

tempo costituivano i sedimenti del fondale di un

antico mare poco profondo e che ora formano

parte del bacino in cui scorrono i fiumi siberiani

Lena e Aldan. "La piattaforma siberiana - spiega

Benjamin Mills, dell'Università di Leeds e

coautore dello studio - offre una finestra unica

sui primi ecosistemi marini.

Quest'area contiene oltre la metà di tutta la

diversità fossile dell'esplosione del Cambriano

attualmente conosciuta".

Dall'analisi di quegli isotopi e servendosi di un

modello matematico, i ricercatori sono risaliti

all'andamento dei livelli di ossigeno durante

quel periodo; in questo modo hanno prima

osservato una serie di picchi e crolli d

quell'elemento in atmosfera, poi hanno confrontato

quelle variazioni con la quantità e varietà di fossili

nei corrispondenti strati rocciosi, trovando una

perfetta corrispondenza.

In particolare Shields e colleghi hanno individuato

un picco particolarmente intenso di ossigeno e

di radiazione delle specie fra 524 e 514 milioni di

anni fa, a cui è seguito un crollo e un'estinzione

diffusa fra 514 e 512 milioni di anni fa.

Secondo gli autori proprio questo andamento a

"impulsi" dei livelli di ossigeno ha contribuito a

una più vasta e complessa diversificazione delle

forme di vita. 

 
 
 

Il grande rinnovamento degli europei preistorici

Post n°2217 pubblicato il 29 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

08 febbraio 2016

Il grande rinnovamento degli europei preistorici

I discendenti dei cacciatori-raccoglitori

sopravvissuti all'ultimo massimo glaciale

in Europa furono in gran parte sostituiti

da una popolazione di origine diversa circa

14.500 anni fa, in un periodo di grande

instabilità climatica.

Lo testimonia l'analisi genetica dei resti di

individui dell'epoca scoperti in varie nazioni

del Vecchio Continente(red)

antropologiageneticaclima

Circa 14.500 anni fa, in un periodo di grande

instabilità climatica, la popolazione preistorica

europea si è quasi completamente rinnovata.

Lo testimoniano i resti di DNA di 35 cacciatori

-raccoglitori che vissero tra 35.000 e 7000

anni fa nelle attuali Italia, Germania, Francia,

Repubblica Ceca e Romania, analizzati in

uno studio apparso sulla rivista "Current Biology"

 a firma di Cosimo Posth, dell'Università di

Tubinga, in Germania, e colleghi di una

collaborazione internazionale che include

anche l'Università di Siena.

"Abbiamo gettato una luce su un capitolo

della storia umana sconosciuto, in corrispondenza

dell'ultimo massimo glaciale", ha spiegato Johannes

Krause, coautore dello studio.

"I dati relativi a quel periodo sono sempre stati

scarsi, ed è per questo che si finora si sapeva

assai poco sulla struttura e sulla dinamica delle

prime popolazioni dell'uomo moderno in Europa".

Gli autori hanno studiato in particolare il DNA

mitocondriale, materiale genetico che si trova

negli organelli cellulari denominati mitocondri,

che viene ereditato solo dalla madre e che può

quindi essere usato per ricostruire le antiche

discendenze matrilineari attraverso l'individuazione

dei diversi aplogruppi, cioè le famiglie delle diverse

varianti genetiche osservabili sui differenti cromosomi.

L'analisi ha mostrato che i DNA mitocondriali di

tre individui, vissuti prima dell'ultimo massimo

glaciale nella regione occupata attualmente da

Belgio e Francia, appartenevano a uno specifico

gruppo genetico, l'aplogruppo M, praticamente

assente nelle popolazioni europee moderne ma

molto comune nelle popolazioni moderne di asiatici,

australasiani e nativi americani.

Il grande rinnovamento degli europei preistorici

Resti umani scoperti nel sito di Les Closeaux

at Rueil-Malmaison, nei pressi di Parigi, utilizzati

nello studio (Credit: L. Lang)Proprio sulla base

dell'assenza dell'aplogruppo M in Europa e della

sua presenza in altre parti del mondo, alcuni

antropologi avevano ipotizzato che la colonizzazione

dell'Eurasia e dell'Australasia da parte di popolazioni

non africane fosse avvenuta a più riprese.

Krause e colleghi ritengono che la scoperta

dell'aplogruppo M in un antico ramo filogenetico

materno europeo indica che tutti i non africani

del mondo abbiano avuto origine dalla diaspora

di un'unica popolazione avvenuta circa 50.000 anni fa.

In seguito, l'aplogruppo M è apparentemente

scomparso dal Vecchio Continente.

"Quando, circa 25.000 anni fa, iniziò l'ultimo massimo

glaciale, le popolazioni di cacciatori-raccoglitori si 

ritirarono verso sud, concentrandosi in alcune zone

limitate: ne è risultato un 'collo di bottiglia' genetico

che ha determinato la perdita di questo aplogruppo",

ha aggiunto Posth.

Il risultato che ha sorpreso maggiormente i

ricercatori è stata la prova di profondo rinnova-

mento della popolazione europea avvenuto

14.500 anni fa, quando il clima iniziò a riscaldarsi.

"Il nostro modello indica che durante questo

periodo di cambiamento climatico, i discendenti

dei cacciatori-raccoglitori sopravvissuti all'ultimo

massimo glaciale furono in gran parte sostituiti

da una popolazione di origine diversa", ha

sottolineato Adam Powell, autore senior dello

studio.

 
 
 

Le mutazioni del DNA spazzatura associate all'autismo

Post n°2216 pubblicato il 29 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

28 maggio 2019

Le mutazioni del DNA spazzatura associate all'autismo

Le mutazioni del DNA spazzatura associate all'autismo

Sono migliaia le mutazioni spontanee nel cosiddetto

"junk DNA" che possono aumentare il rischio di autismo.

La scoperta è avvenuta grazie a una tecnica di intelligenza

artificiale che potrebbe essere applicata anche nella ricerca

sui tumori e le malattie cardiovascolari

autismointelligenza artificialegenetica

Il genoma umano è costituito solo in minima parte da DNA

codificante, cioè da geni che contengono le informazioni per

sintetizzare le proteine utili al funzionamento dell'organismo.

Il resto - il 98 per cento circa - era stato ribattezzato junk

DNA, DNA spazzatura, perché tradizionalmente considerato

inutile.

Questa visione è cambiata in anni recenti, quando si sono

accumulate sempre più prove che alcune parti di quel DNA

hanno importanti ruoli di regolazione dell'espressione dei geni

codificanti.

Inserendosi in questo nuovo paradigma degli studi genomici, 

una nuova ricerca pubblicata su "Nature Genetics" da Olga

Troyanskaya della Princeton University, e colleghi, rivela

ora che è proprio nel DNA spazzatura che possono insorgere

mutazioni che aumentano il rischio di insorgenza di autismo.

Gli autori hanno utilizzato una sofisticata tecnica d'intelligenza

artificiale, l'apprendimento automatico, per analizzare i genomi

di 1790 famiglie in cui è presente un figlio con un disturbo dello

spettro autistico, che invece non si riscontra negli altri familiari.

Si tratta di un campione di studio particolare, in cui, non essendo

evidente un'ereditarietà del disturbo, si può concludere che la

mutazione genetica è sorta in modo spontaneo nel soggetto.

Le mutazioni del DNA spazzatura associate all'autismo

Science Photo Library RF / AGFIl risultato non sarebbe stato

possibile senza l'apprendimento automatico, che procede

effettuando analisi sempre più approfondite del genoma, fino

a rivelare schemi d'interazione tra porzioni del DNA spazzatura

e geni codificanti.

Più in dettaglio, il suo algoritmo analizza ogni singola coppia

di basi, i "mattoni elementari" che costituiscono la lunga catena

della molecola di DNA, e verifica la sua relazione con un migliaio

di coppie di basi vicine.

Alla fine del processo, l'algoritmo produce una lista di sequenze

di DNA che, con probabilità crescente, hanno una funzione di

regolazione dei geni, e delle relative mutazioni in grado d'interferire

con queste regolazioni: gli autori lo definiscono come una sorta

di "punteggio d'impatto sul disturbo".

La nuova metodica ha così dimostrato di avere notevoli

potenzialità nelle ricerche in cui occorre una grande capacità di

analisi massiccia del genoma, inarrivabile per le tecniche tradizionali.

L'inconveniente è che non individua nuove cause genetiche

precise dell'autismo o alterazioni dello sviluppo del sistema

nervoso, ma solo migliaia di possibili fattori in grado di alterare

l'espressione dei geni nel cervello correlati al disturbo, come

quelli coinvolti nello sviluppo o nella migrazione dei neuroni.

Troyanskaya e colleghi ritengono comunque che possa aprire

interessanti prospettive di ricerca biomedica, non solo

sull'autismo, ma anche in su tumori e patologie cardiovascolari.

"Questa è la prima chiara dimostrazione di mutazioni non

codificanti non ereditarie che causano una malattia o un disturbo

complesso", ha commentato Troyanskaya.

"Finora, il 98 per cento del genoma è stato trascurato: i nostri

risultati permettono di guardare a questa porzione del DNA

come a un terreno da esplorare". (red)

 
 
 

Dall'inferno del plasma solare ai reattori a fusione

Post n°2215 pubblicato il 29 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

fonte: Le Scienze

28 maggio 2019

Dall'inferno del plasma solare ai reattori a fusione

Dall'inferno del plasma solare ai reattori a fusione

L'osservazione del comportamento dei plasmi che

provocano i periodici brillamenti sul Sole ha permesso

di ottenere dati preziosi per progettare i reattori a

fusione nucleare

astrofisicanucleare

L'enigmatico comportamento del plasma solare, che è

all'origine dei periodici brillamenti del Sole, è stato

tracciato per la prima volta ad alta risoluzione da un

gruppo di ricerca franco-irlandese, che ne dà notizia

in un articolo su "Nature Communications".

Il risultato fornirà informazioni essenziali per la

realizzazione di reattori nucleari a fusione che siano

in grado di garantire una produzione di energia stabile

e continua.

La fusione nucleare rappresentata un modo di generare

energia nucleare molto diverso dalla fissione: non richiede

combustibile altamente radioattivo e produce scorie inerti.

Ma mentre i reattori a fissione si basano su una fisica

consolidata, i reattori a fusione (o almeno quelli detti a

confinamento magnetico) devono fare i conti con la fisica

dei plasmi, un terreno in buona parte inesplorato.

Dall'inferno del plasma solare ai reattori a fusione

I brillamenti solari sono una conseguenza dei complessi

moti dei plasmi nell'atmosfera del Sole (NASA/SDO)Il plasma

- un fluido di atomi ionizzati ed elettroni che si forma ad

altissima temperatura - è considerato il "quarto stato" della

materia (accanto a quello solido, liquido e gassoso), e si

distingue per il comportamento particolarmente complesso

dei suoi costituenti, che possono interagire fra loro a distanze

molto superiori di quanto accada in un gas.

In effetti, la quasi totalità della materia ordinaria dell'universo

si trova allo stato di plasma, che è estremamente difficile da

studiare perché sulla Terra le condizioni che ne permettono la

formazione, come i fulmini, sono rare.

Anche i laboratori appositamente allestiti per studiare il plasma

riescono a riprodurre solo alcune delle condizioni in cui esso si

forma, ma non quelle estreme, in cui il comportamento di questo

stato della materia può cambiare in modi non ancora compresi.

Il miglior laboratorio naturale resta quindi il Sole, che Eoin P.

Carley e i suoi colleghi del TrinityCollege di Dublino

dell'Osservatorio di Parigi sono riusciti a sfruttare analizzando

i dati raccolti dalla sonda Solar Dynamics Observatory della NASA.

In particolare, i ricercatori sono stati in grado di monitorare

con un'alta risoluzione temporale e spaziale le pulsazioni delle

emissioni luminose e radio prodotte dal plasma.

Dall'inferno del plasma solare ai reattori a fusione

L'interno del Joint European Torus (JET), il più grande reattore

a fusione nucleare a confinamento magnetico finora costruito

(EUROfusion)Questi dati sono essenziali per comprendere i

cosiddetti fenomeni di instabilità del plasma contro cui combattono

gli scienziati e gli ingeneri alle prese con la creazione di impianti di

fusione nucleare.
"I plasmi di fusione nucleare sono altamente instabili" spiega Peter T.

Gallagher, coautore dello studio. "Non appena il plasma inizia a

generare energia, un processo naturale blocca la reazione.

Da un lato questo rappresenta un interruttore di sicurezza intrinseco:

nei reattori a fusione non si possono innescare reazioni fuori controllo;

ma significa anche che è difficile mantenere in uno stato stabile per la

produzione di energia.

Studiando come i plasmi diventano instabili sul Sole, possiamo

imparare a controllarli sulla Terra." (red)

 
 
 

Tornano ad aumentare i gas che distruggono l'ozono

Post n°2214 pubblicato il 29 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

23 maggio 2019

Tornano ad aumentare i gas che distruggono l'ozono

Dal 2013 i livelli atmosferici dei CFC, ovvero gas che

distruggono lo strato di ozono, sono tornati ad aumentare

nonostante la loro messa al bando in tutto il mondo.

Una parte consistente di queste nuove emissioni illegali

proviene da province della Cina orientale

ambientechimico

Dal 2013, le emissioni annuali di clorofluorocarburi (CFC)

- una delle più importanti classi di molecole che distruggono

lo strato di ozono che ci protegge dalle radiazioni ultraviolette

del Sole - il cui uso è vietato dal Protocollo di Montreal, sono

aumentate in modo inaspettato.

L'immissione in atmosfera di questi gas proviene in buona

pare da alcune regioni della Cina orientale.

A documentarlo è uno studio effettuato da un gruppo

internazionale di ricercatori diretto da Matt Rigby dell'Università

di Bristol, e pubblicato su "Nature", che ha in particolare tracciato

il CFC-11, uno dei clorofluorocarburi in passato più diffusi.

Negli ultimi decenni i livelli atmosferici di CFC-11 erano in

discesa in seguito agli accordi internazionali per una loro

progressiva messa al bando.

Le analisi dei dati registrati da varie reti di monitoraggio sparse

per il mondo hanno però mostrato che dal 2013 c'è stato un

nuovo inaspettato rialzo, indice che da qualche parte erano

riprese emissioni illegali di questo composto, un tempo

ampiamente usato come fluido di refrigerazione nei frigoriferi

e come schiumogeni negli isolati degli edifici.

Tornano ad aumentare i gas che distruggono l'ozono

Il confronto fra le emissioni di CFC in Cina orientale nel

periodo 2008-2012 (sinistra) e 2014-2017 (destra) indica un

netto aumento. Per escludere che l'aumento fosse realmente

dovuto a una nuova produzione, ha spiegato Rigby,

"abbiamo esaminato le stime sulla quantità di CFC-11 che

potrebbe essere inglobato in schiume isolanti in edifici o

frigoriferi prodotti prima del 2010, ma le quantità erano

troppo piccole per spiegare il recente aumento".

Per poter stabilire la provenienza del gas, è stato necessario

allestire una nuova rete di rilevazione; le centraline di quella

usata fino ad allora erano collocate in punti molto lontani

dalle possibili fonti di emissione, proprio per essere sicuri di

rilevare le concentrazioni medie globali di CFC-11.

L'analisi dei dati provenienti dalla nuova rete - che copre diverse

aree parti di Nord America, Europa, Australia meridionale

, Corea e Giappone - ha ora mostrato che dal 40 al 60 per cento

delle nuove emissioni, pari a circa 7000 tonnellate all'anno di

gas, proviene dalla Cina orientale, e in particolare dalle province

di Shandong e di Hebei.

Per l'individuazione dei responsabili specifici bisognerà chiedere

la collaborazione diretta delle autorità cinesi, che peraltro

proprio di recente hanno individuato e chiuso alcuni impianti

di produzione illegali.

I dati indicano peraltro che aumenti minori si siano verificati

anche in altri paesi o nelle regioni più occidentali della Cina,

tutte aree troppo lontane dagli attuali punti di monitoraggio

della rete di monitoraggio.

Purtroppo, anche la nuova rete non copre molte aree del globo,

specie nei paesi in via di sviluppo, ma quel che è peggio, osservano

i ricercatori, è che "probabilmente abbiamo rilevato solo una parte

del totale dei CFC prodotti. Il resto potrebbe essere incluso in

edifici e refrigeratori e verrà rilasciato nell'atmosfera nei prossimi

decenni", ritardando il tempo necessario allo strato di ozono e al

"buco" dell'ozono antartico per riprendersi. (red)

 
 
 

I primi cereali di Homo sapiens

Post n°2213 pubblicato il 29 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

18 dicembre 2009

I primi cereali di Homo sapiens

I primi cereali di  Homo sapiens

Scoperte le più antiche testimonianze del consumo

di cereali selvatici della storia.

Questi dati archeologici sono in accordo con altri

rinvenuti in ogni parte del mondo, risalenti alla fine

dell'ultima Era glaciale, circa 12.000 anni fa.

In questo caso però  i reperti sono datati all'inizio di

quell'era, cioè a circa 90.000 anni prima(red)

archeologiaantropologiaalimentazione

Il consumo di cereali selvatici tra le popolazioni di

cacciatori e raccoglitori potrebbe essere molto più

antica di quanto ritenuto finora, stando a una recente

ricerca dell'Università di Calgary, in Canada, nell'ambito

della quale gli archeologi hanno trovato il più antico

esempio di dieta basata in buona parte su cereali e

radici in una popolazione di Homo sapiens più di

100.000 anni fa.

Julio Mercader, ricercatore del Dipartimento di

archeologia dell' Università di Calgary ha recuperato

infatti decine di strumenti di osso in una profonda

grotta in Mozambico che mostra come il sorgo selvatico,

antenato del principale cereale consumato tutt'oggi

nell'Africa sub-sahariana per produrre farina, pane,

pappe e bevande alcoliche era presente nella "dispensa"

di Homo sapiens insieme con palma, falsa banana

(Enset ventricosum), il legume della specie Cajanus

cajan e la patata africana.Si tratta della prima e più

antica diretta evidenza di cereali pre-domesticati

ovunque nel mondo.

"Il risultato retrodata notevolmente l'inizio dell'utilizzo

dei semi da parte delle specie umane e rappresenta una

prova di una dieta estesa e sofisticata molto prima di

quanto ritenuto", ha spiegato Mercader.

"Ciò avvenne durante l'Età della pietra quando la raccolta

di cereali selvatici è stata percepita come attività irrilevante

se non altrettanto importante di radici, frutti e frutta secca."
In 2007, Mercader e colleghi dell'Università del Mozambico

effettuarono alcuni scavi nella grotta di calcare nei pressi del

Lago Niassa che venne utilizzata in modo intermittente da

antichi raccoglitori nel corso di 60.000 anni.

Nel fondo della grotta, i ricercatori hanno scoperto decine

di strumenti di osso, ossa animali e resti di piante, tutti segni

indicativi di pratiche alimentari preistoriche.

La scoperta di diverse migliaia di particelle di amido e di

strumenti per raschiare e molare il sorgo selvatico dimostrano

come tale cereale venisse portato nella grotta e lavorato in

modo sistematico.

"Si è ipotizzato che l'uso dell'amido abbia rappresentato un

passo cruciale nell'evoluzione umana, poiché migliorò la qualità

della dieta nelle savane e nelle foreste africane, in cui si è

evoluta la prima linea di esseri umani moderni", ha commentato

Mercader.

"L'inclusione dei cereali nella nostra dieta è considerato un passo

importante in virtù della complessità tecnica della manipolazione

culinaria richiesta per convertire i cereali in alimenti."

Mercader sostiene che questo tipo di evidenze archeologiche sono

in accordo con altre dello stesso tipo rinvenute in ogni parte del

mondo, durante gli ultimi stadi dell'ultima Era glaciale,

approssimativamente 12.000 anni fa. In questo caso i reperti sono

datati all'inizio dell'Era Glaciale, cioè a circa 90.000 anni prima. 

 
 
 

Acqua salata e ossigeno, gli ingredienti per la vita su Marte

Post n°2212 pubblicato il 29 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

23 ottobre 2018

Acqua salata e ossigeno, gli ingredienti per la vita su Marte

Acqua salata e ossigeno, gli ingredienti per la vita su Marte

Nuovi calcoli e simulazioni hanno dimostrato che l'ossigeno

molecolare disciolto nell'acqua salmastra che si trova sulla

superficie del Pianeta Rosso è sufficiente a supportare la

presenza di batteri aerobici o, in alcuni casi, di animali semplici

come le spugne(red)

planetologia

In varie regioni della superficie di Marte, e più spesso negli

strati sotterranei meno profondi, si trova acqua salmastra, come

hanno documentato nel 2015 le analisi dei dati della sonda

Curiosity della NASA.

Ora una serie di calcoli e simulazioni descritti su "Nature Geoscience"

 da un gruppo di ricercatori del Jet Propulsion Laboratory del

California Institute of Technology di Pasadena, guidati da Vlada

Stamenkovic, ha dimostrato che questa acqua salmastra è in grado

di contenere una quantità di ossigeno molecolare sufficiente a

sostenere la vita di batteri aerobici e, in alcuni casi, di animali

semplici come le spugne. 

Acqua salata e ossigeno, gli ingredienti per la vita su Marte

Vista globale della superficie di Marte ottenuta componendo

circa 100 immagini catturate dalla sonda Viking

Il risultato è un ulteriore, importante passo avanti per arrivare

a chiarire se e come il Pianeta Rosso può ospitare qualche forma

di vita, o possa averlo fatto nel suo lungo passato.

Sulla Terra, tutte le forme di vita multicellulare hanno un

metabolismo basato sulla respirazione aerobica, che è la più

efficiente tra quelle note (le forme di respirazione anaerobica

sono riservate a rare specie di batteri e funghi).

Per vivere, gli organismi multicellulari hanno bisogno di un'atmosfera

ricca di ossigeno, come quella terrestre, in cui questo gas raggiunge

una percentuale del 21 per cento circa in volume grazie al processo

di fotosintesi clorofilliana dei vegetali.

Su Marte, tuttavia, le condizioni sono molto differenti, anche

nell'atmosfera, che ha una pressione di 6,1 millibar, cioè appena 6

millesimi circa di quella terrestre.

E le misurazioni condotte da Terra e con i rover che hanno percorso

la superficie del Pianeta Rosso indicano che l'ossigeno vi si trova

solo in tracce, per effetto della dissociazione dell'anidride carbonica

prodotta dalla radiazione solare.

A causa della sua scarsità, l'ossigeno marziano ha ricevuto poca

attenzione, ma ora le cose sono cambiate per diversi motivi.

Il primo è la scoperta di brine sulla superficie di Marte, che

occasionalmente può dare vita a flussi di acqua liquida, ricca di sali.

Il secondo è che alcuni studi hanno provato che la concentrazione

di ossigeno nei liquidi in grado di sostenere forme di vita è

inferiore di quella stimata finora.

Stamenkovic e colleghi hanno condotto una serie di simulazioni

per calcolare la quantità di ossigeno molecolare che può essere

disciolto in salamoie liquide composte di sale e acqua in varie

condizioni di pressione e temperatura che si possono trovare

sulla superficie di Marte o poco al di sotto di essa.

Hanno così scoperto che le concentrazioni di ossigeno molecolare

sono particolarmente elevate nelle regioni polari.

Inoltre, alcuni dei depositi di acqua salmastra nel sottosuolo

marziano potrebbero contenere abbastanza ossigeno per supportare

la vita aerobica.

Questi risultati possono anche spiegare in che modo potrebbero

essersi formate le rocce ossidate viste dai rover durante l'esplorazione

della superficie di Marte.

 
 
 

Un piccolo testimone della formazione del sistema solare

Post n°2211 pubblicato il 29 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

30 gennaio 2019

Un piccolo testimone della formazione del sistema solare

Un piccolo testimone della formazione del sistema solare

Nella remota fascia di Kuiper, oltre i confini dell'orbita

di Nettuno, è stato individuato per la prima volta un

asteroide con un diametro di appena 1,3 chilometri.

La presenza in quella regione del sistema solare di

corpi celesti così piccoli, che risalgono alle prime fasi

di formazione dei pianeti, era stata prevista 70 anni fa,

ma finora la loro ricerca era andata a vuoto(red)

planetologiaastronomia

Un asteroide di appena 1,3 chilometri di diametro è stato

scoperto per la prima volta nella fascia di Kuiper, agli

estremi margini del sistema solare.

La scoperta, illustrata su "Nature Astronomy", suggerisce

che oggetti di dimensioni analoghe o poco superiori -

risalenti all'inizio dell'epoca di formazione dei pianeti -

siano molti di più di quanto si credesse.

Un piccolo testimone della formazione del sistema solare

Raffigurazione artistica del corpo celeste appena scoperto.

La fascia di Kuiper è un insieme di piccoli corpi celesti situati

oltre l'orbita di Nettuno, fra i quali si annovera anche Plutone,

dopo il suo declassamento, nel 2006, da pianeta a pianeta nano.


Come gli asteroidi che si trovano fra Marte e Giove, si ritiene

che anche quei corpi siano residui della fase di formazione del

sistema solare, quando, aggregandosi in gran numero, diedero

origine ai pianeti.

Tuttavia, a differenza degli oggetti della fascia interna, che sono

stati alterati dal costante bombardamento di radiazioni provenienti

dal Sole e dalle frequenti collisioni, quelli della fascia di Kuiper -

sparsi in un volume di spazio immenso e lontani dal Sole  - 

devono essere rimasti sostanzialmente nelle condizioni originarie.

I modelli di formazione dei pianeti prevedono da oltre  70 anni

l'esistenza di oggetti di diametro compreso fra uno e pochi

chilometri oltre l'orbita di Nettuno, oggetti però troppo piccoli

e poco visibili per essere osservati direttamente anche dai

telescopi più potenti.

Ko Arimatsu dell'Osservatorio astronomico nazionale del

Giappone, e colleghi sono ora riusciti a scoprirne uno ricorrendo

a un metodo indiretto, detto delle occultazioni, che misura la

variazione della luce proveniente da una stella quando un oggetto

passa davanti a essa.

Usando solo due piccoli telescopi e monitorando 2000 stelle per

60 ore, i ricercatori sono riusciti a individuare un evento di 

occultazione coerente con il passaggio davanti a una stella di un

oggetto di 1300 metri di diametro.

Considerato il numero ridotto di stelle prese in esame e di ore

di osservazione, osservano gli autori, le probabilità di registrare

un evento simile sembravano molto basse.

Il successo dell'impresa suggerisce quindi che il numero di corpi

celesti di quelle dimensioni sia molto superiore a quello finora

stimato.

Inoltre, commenta Arimatsu, "questa è una vera vittoria per piccoli

progetti.

Il nostro team aveva meno dello 0,3 per cento del budget dei grandi

progetti internazionali, eppure siamo riusciti a fare una scoperta che

non era riuscita a progetti ben più grandi.

Ora che sappiamo che il nostro sistema funziona, studieremo più in

dettaglio la fascia di Kuiper, ma abbiamo gli occhi puntati anche

sulla Nube di Oort".

 
 
 

Un culto dei teschi nella Turchia del Neolitico

Post n°2210 pubblicato il 29 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

30 giugno 2017

Un culto dei teschi nella Turchia del Neolitico

Nel più antico sito monumentale neolitico, quello di Göbekli

Tepe, vicino al confine turco con la Siria, sono stati rinvenuti

dei crani che portano tracce di incisioni, fori e pitture.

Queste alterazioni intenzionali probabilmente erano legate

al culto degli antenati o alla credenza di poter acquisire

particolari capacità del defunto(red)

archeologiaantropologia

A Göbekli Tepe, un sito archeologico nella Turchia sud-

orientale famoso perché nel 1995 vi fu scoperto il primo

complesso monumentale megalitico, datato fra il 9600 e

l'8000 a.C., sono state ritrovate le prove dell'esistenza di

un "culto dei teschi" risalente agli inizi del Neolitico.

Le analisi di una serie di crani che hanno portato a questa

conclusione sono state condotte da ricercatori dell'Istituto

archeologico tedesco di Berlino, che firmano un articolo

su "Science Advances".

Un culto dei teschi nella Turchia del Neolitico

Veduta aerea di Göbekli Tepe.

Gli studi antropologici registrano numerosi casi di culto dei

teschi, che possono essere venerati per vari motivi, dal culto

degli antenati alla credenza nella trasmissione di particolari

abilità del defunto al vivente.

Questo culto può assumere forme diverse, dalla deposizione

dei teschi in luoghi speciali, alla loro decorazione con diversi

colori fino alla ricostruzione dei tratti del volto con la malta.

Un culto dei teschi nella Turchia del Neolitico

Pilastro di un edificio di Göbekli Tepe.Non è chiaro se

Göbekli Tepe fosse un complesso di templi, come ritiene la

maggioranza degli archeologi, o di un insediamento anche

abitativo, come suggerito da altri, ma gli scavi condotti a

Göbekli Tepe finora non hanno portato alla luce alcuna tomba.

Tuttavia è stato rinvenuto un numero considerevole di ossa

umane, gran parte delle quali (408 su 691) sono frammenti di

ossa del cranio.

La frammentazione dei crani e le tracce e scalfitture presenti

su di essi finora erano stati  attribuiti a processi di degradazione

naturali, tanto più che tutto il sito era stato ricoperto con terra

e sassi fino a formare una vera e propria collina artificiale.

Grazie a una più attenta analisi dei resti, Julia Gresky e

colleghi ora hanno identificato in tre crani parziali delle

profonde incisioni praticate con utensili litici, dimostrandone

cosi l'origine intenzionale. 

Ulteriori analisi hanno escluso che le incisioni fossero una

conseguenza secondaria di un'asportazione dello scalpo.

Uno dei crani, inoltre, mostra anche un foro nell'osso

parietale sinistro e residui di ocra rossa.

Secondo gli autori, probabilmente i teschi furono scolpiti, e

forse adornati, per venerare gli antenati o per esibire nemici

uccisi.

 
 
 

Dal genoma delle mummie la storia degli antichi Egizi

Post n°2209 pubblicato il 29 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

30 maggio 2017

Dal genoma delle mummie la storia degli antichi Egizi

Dal genoma delle mummie la storia degli antichi Egizi

30/05/2017

L'analisi del DNA ricavato da mummie egizie mostra

che il flusso genetico proveniente dalle popolazioni

sub-sahariane presente nella popolazione odierna è

piuttosto recente.

Le precedenti, floride colonie greche e romane in Egitto

non sembrano invece aver lasciato una traccia apprezzabile

di sé(red)

geneticaarcheologia

Gli antichi egizi erano strettamente legati alle popolazioni

del Medio Oriente e alle popolazioni neolitiche della penisola

anatolica e dell'Europa. Nel genoma degli egiziani di oggi si

trovano invece chiare tracce di significative interazioni con

popolazioni sub-sahariane, del tutto assenti negli egizi del

tempo dei faraoni.

A stabilirlo è uno studio condotto da ricercatori dell'Università

di Tübingen e del Max Planck Institut per la scienza della

storia umana a Jena, che sono riusciti a sequenziare il genoma

mitocondriale e nucleare tratto da antiche mummie.

La ricerca è descritta in un articolo su "Nature Communications".

Anche se questa non è la prima analisi condotta su antico DNA

ricavato da mummie egizie, gli autori osservano che si tratta dei

primi risultati veramente affidabili, grazie al ricorso alle più

avanzate tecniche di sequenziamento e all'uso sistematico di test

di autenticità per garantire l'origine effettivamente antica dei dati

ottenuti.

"Il clima caldo egiziano, i livelli elevati di umidità in molte tombe

e alcune delle sostanze chimiche usate nelle tecniche di mummificazione

contribuiscono al degrado del DNA.

Si riteneva quindi che fosse improbabile la sopravvivenza a lungo

termine del DNA nelle mummie egiziane", spiega Johannes

Krause, coautore dello studio.
A partire da 151 campioni prelevati da mummie conservate in

musei di Tübingen e Berlino, i ricercatori sono riusciti a estrarre e

sequenziare il genoma mitocondriale di 90 individui e quello

nucleare di tre.

Dal genoma delle mummie la storia degli antichi Egizi

Ricostruzione artistica del sito di Abusir (Heritage / AGF)

Le mummie prese in esame coprono un lasso di tempo di circa

1300 anni, e provengono tutte dal sito di di Abusir el-Meleq,

nel Medio Egitto.

Le analisi hanno mostrato una stretta continuità genetica nelle

popolazioni di Abusir el-Meleq vissute in epoca pre-tolemaica

(prima del 332 a.C.), tolemaica (fra il 332 e il 30 a.C.) e romana

(successiva al 30 a.C.), indicando che a dispetto della notevole

influenza culturale e politica esercitate nel periodo più tardo

da greci e romani, il loro contributo genetico alla popolazione

egizia fu trascurabile.

È tuttavia possibile - osservano i ricercatori - che l'impatto

genetico dell'immigrazione greca e romana sia stato più pronunciato

nel Delta nord-occidentale del Nilo, nella regione di Fayum, dove

risiedeva un'importante colonia greco-romana, oppure tra le classi

più alte della società egizia.

Probabilmente il mescolamento delle popolazioni fu limitato a causa

della politica di Roma di ostacolare i matrimoni fra romani e locali.

Sposandosi con un cittadino romano, si acquisiva infatti la

cittadinanza romana, ambita per i privilegi che comportava.

Dal genoma delle mummie la storia degli antichi Egizi

Sarcofago proveniente dal sito di Abusir Steiss)I dati suggeriscono

anche che il flusso genetico dalle regioni sub-sahariane - che nella

popolazione egiziana attuale costituisce l'8 per cento del genoma -

si è verificato ben più tardi. All'origine della mescolanza - ipotizzano

i ricercatori - vi fu forse il miglioramento della mobilità lungo il Nilo,

l'aumento dei commerci su lunga distanza tra l'Africa sub-sahariana e

l'Egitto e ancor più, la tratta degli schiavi lungo le vie carovaniere

che attraversano il Sahara e che iniziò solo 1300 anni fa.

 
 
 

Genomi umani antichi senza fossili

Post n°2208 pubblicato il 29 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

28 aprile 2017

Genomi umani antichi senza fossili

Una tecnica innovativa è riuscita a

identificare DNA di specie umane

estinte da sedimenti di siti archeologici

in cui erano assenti resti fossili.

Il risultato permetterà di individuare la

presenza di antichi gruppi umani dove

non è possibile stabilirla con le tecniche

attuali(red)

antropologiaarcheologiagenetica

DNA di uomini di Neanderthal e di Denisova

è stato rinvenuto nei sedimenti di quattro

siti archeologici contenenti reperti attribuibili

a questi nostri antichi cugini, dei quali però

non c'è traccia sotto forma di resti fossili.

La scoperta è opera di ricercatori del Max-

Planck-Institut per l'antropologia evolutiva a

Lipsia in collaborazione con studiosi di altri

centri di ricerca, ed è illustrata in un articolo

pubblicato su "Science".

In Europa e in Asia i siti preistorici che

contengono strumenti e altri manufatti sono

numerosi, tuttavia i resti scheletrici degli

antichi umani sono rari, rendendo difficile

e lacunosa la ricostruzione dei loro spostamenti

e delle relazioni fra i diversi gruppi.

Genomi umani antichi senza fossili

La grotta di El Sidrón, in Spagna.

(Cortesia Joan Costa / CSIC)La possibilità

di analizzare i sedimenti in cerca di DNA antico

aiuterà quindi a completare la mappa degli i

nsediamenti umani del remoto passato, e a

identificare le regioni in cui le diverse specie

umane possono avere convissuto, e interagito.

Questa opportunità potrebbe essere particolar-

mente importante per l'uomo di Denisova,

finora identificato in una sola grotta sui Monti

Altai, nella Siberia meridionale, ma di cui

persistono tracce genetiche in popolazioni

odierne, suggerendo che un tempo questa

specie fosse diffusa in molte regioni dell'Asia.

Ma non si sa esattamente dove e quando.

La capacità del DNA di resistere, almeno in

tracce, nei sedimenti antichi è nota dal 2003,

quando il genetista danese Eske Willerslev è

riuscito a sequenziare parte dei genomi di

antichi mammut, cavalli e piante rilevati in

sedimenti prelevati non solo dal freddo

permafrost, ma anche in grotte situate in

regioni dal clima temperato.

Finora tuttavia non si era riusciti a trovare il

modo per distinguere le sequenze umane

antiche dalle possibili contaminazioni dei

campioni con materiale biologico umano

moderno.

Viviane Slon, Svante Pääbo, Matthias Meyer

e colleghi sono riusciti a sviluppare una

"sonda" genetica costruita su frammenti di

DNA mitocondriale, ovvero il DNA che è presente

solo negli organelli mitocondri delle cellule,

che permette di filtrare i possibili contaminanti

attribuibili a esseri umani odierni e isolare così

i frammenti antichi.

I ricercatori hanno quindi raccolto 85 campioni

in sette siti archeologici in Belgio, Croazia,

Francia, Russia e Spagna, che coprono un intervallo

di tempo compreso fra 14.000 e 550.000 anni fa.

Otto di questi campioni - provenienti dai quattro

siti di Trou Al'Wesse in Belgio, El Sidrón in Spagna,

Chagyrskaya in Russia e Denisova, sempre in

Russia - contenevano DNA mitocondriale di uno

o più Neanderthal, specie umana scomparsa

circa 40.000 anni fa, mentre uno conteneva

DNA dell'uomo di Denisova, vissuto tra 70.000

e 40.000 anni fa, per quel poco che ne sanno

i ricercatori.

"Ricavando il DNA dai sedimenti, possiamo

individuare la presenza di gruppi di antichi

umani nei siti e nelle aree in cui non è possibile

stabilirla con altri metodi", ha detto Pääbo,

coautore dello studio.

"Questo dimostra che l'analisi dei DNA dei

sedimenti è una procedura archeologica molto

utile, che in futuro potrà diventare di routine".

 
 
 

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