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Messaggi del 23/05/2019

Una mappa globale delle resistenze batteriche

Post n°2207 pubblicato il 23 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

11 marzo 2019

Una mappa globale delle resistenze batteriche

La prima analisi mondiale della diffusione

dei geni della resistenza batterica agli antibiotici,

ottenuta analizzando le acque reflue di

decine città di tutto il mondo, ha evidenziato

che questo fenomeno è correlato più alle

condizioni sanitarie del paese e allo stato di

salute generale della popolazione che

all'uso di antibiotici

geneticamicrobiologiaepidemiologia

A livello globale, i geni della resistenza

batterica agli antibiotici sono molto più

diffusi nei paesi in cui le condizioni sanitarie

sono scadenti e lo stato di salute generale

della popolazione è peggiore.

È il risultato di un'analisi che ha prodotto

anche la prima mappa mondiale della

diffusione dei geni che causano antibiotico-

resistenza.

Lo studio, effettuato da un gruppo internazionale

di ricercatori coordinato da Rene S. Hendriksen

e Frank M. Aarestrup della Technical University

of Denmark a Lyngby, è stato illustrato 

su "Nature Communications".

Una mappa globale delle resistenze battericheIl campionamento delle acque reflue in una

conduttura a cielo aperto del Ghana.

(Cortesia Courage Kosi Setsoafia Saba,

University for Development Studies, Ghana)

Finora lo studio delle resistenze batteriche

si era concentrato solo su pochi agenti patogeni,

per lo più isolati da infezioni cliniche umane,

e questo ha portato a individuare nella riduzione

dell'uso degli antibiotici la principale strategia

per il contenimento dello sviluppo delle resistenze.

Tuttavia è noto che altri fattori possono concorrere

alla loro insorgenza e diffusione, a partire dalla

trasmissione di geni fra batteri anche di specie

diverse (la cosiddetta "trasmissione orizzontale").

Lo studio della prevalenza dei geni

dell'antibioticoresistenza in una popolazione

umana è però ostacolato dalla necessità di

chiedere il consenso al prelievo di materiale

biologico anche a persone sane, che possono

essere restie a fornirlo, e dalla carenza di

strutture sanitarie adeguate in molti paesi poveri.

I ricercatori hanno così pensato di effettuare

un'analisi metagenomica di quei geni nelle

acque reflue, che, spiega Aarestrup, "mostra

in modo rapido e relativamente economico

quali batteri abbondano in un'area e non

richiede un consenso informato, poiché non

è possibile risalire dai dati a specifici individui".

Gli studi di metagenomica analizzano infatti

l'insieme dei genomi di un ambiente nel loro

complesso.

I dati ottenuti dalle acque reflue prelevate in

74 città di 60 paesi hanno mostrato che la

resistenza agli antibiotici ha una diffusione

bassa in Nord America, Europa occidentale,

Australia e Nuova Zelanda, mentre è elevata

in Asia, Africa e Sud America.

I minimi sono stati registrati in Paesi Bassi, Nuova

Zelanda e Svezia, e i massimi in Tanzania, Vietnam

e Nigeria. Inoltre in Brasile, India e Vietnam è stata

registrata la maggiore diversità di geni di resistenza.

Una mappa globale delle resistenze batteriche

L'intensità dei colori sulla mappa indica l'abbondanza

di ceppi batterici resistenti, a partire dal blu chiaro

(bassa abbondanza) fino al blu scuro (alta abbondanza).

Confrontando questi risultati con una dati

ambientali e indicatori socio-economici forniti

dalla Banca mondiale, Hendriksen e colleghi

hanno mostrato che diffusione e varietà delle

resistenze batteriche sono correlate in primo

luogo alle condizioni sanitarie del paese e allo

stato di salute generale della popolazione.


I ricercatori sperano che questo studio e la

tecnica da loro usata permetta di avviare lo

sviluppo di un sistema di sorveglianza mondiale

in grado di monitorare continuamente l'insorgenza

e la diffusione di microrganismi che causano

malattie e la resistenza agli antibiotici. (red

 
 
 

La morale delle grandi religioni è figlia dell'energia disponibile

Post n°2206 pubblicato il 23 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

12 dicembre 2014

La morale delle grandi religioni è figlia dell'energia disponibile

Lo sviluppo degli aspetti morali delle religioni

- un fenomeno storicamente abbastanza recente

- sarebbe legato al raggiungimento di una

disponibilità energetica minima per le persone.

Solo il benessere che essa ha portato ha infatti

permesso di passare da strategie di vita a breve

termine basate sull'acquisizione delle risorse e

su interazioni coercitive, a strategie di lungo

periodo che puntano su interazioni cooperative(red)

storiasocietàeticafilosofia

L'etica delle grandi religioni moraleggianti nasce

dalla ricchezza.

E' così che si potrebbe riassumere la tesi di un

gruppo di ricercatori dell'Ecole Normale Supérieure

di Parigi, dell'Università della Pennsylvania a

Filadelfia, della Stanford University e dell'Università

di Lione, secondo i quali la nascita e la diffusione

delle grandi religioni che pongono l'accento sui

comportamenti morali sono il frutto del miglioramento

delle condizioni di vita e di una maggiore "capacità

energetica" delle società. 

Nicolas Baumard e colleghi, che pubblicano i loro

risultati su "Current Biology", hanno cercato di dare

una risposta dotata di  qualche supporto sperimentale

a un quesito che ha assillato molti storici: perché le

religioni moraleggianti sono tutte sorte in un arco di

tempo ben definito che va dal 500 a.C. al 300 a.C.? 

(E' in questo periodo -che gli autori indicano come 

"Periodo Assiale", riprendendo un termine introdotto

dal filosofo Karl Jaspers - che nascono buddismo,

giainismo, brahmanesimo, taoismo, giudaismo del

secondo tempio e stoicismo, di cui altre religioni,

come cristianesimo, manicheismo e islam, sono

storicamente filiazioni). 

La morale delle grandi religioni è figlia dell'energia disponibile

Sciamano di Papua.

Oggi diamo per scontato che le preoccupazioni

spirituali e morali siano un elemento essenziale

delle religioni, ma in realtà per lunga parte della

storia dell'umanità non è stato così.

Nelle società di cacciatori-raccoglitori, ma non

solo, la tradizione religiosa si concentrava sui

rituali, sulle offerte sacrificali e su tabù progettati

per allontanare la sfortuna e il male.

Senza contare che - osserva Baumard, alludendo

all'antico Egitto, all'impero romano e agli Aztechi

- "anche antichi imperi di grande successo

avevano divinità dotate di un senso morales

orprendentemente ridotto".

E' soltanto dal Periodo Assiale - scrivono gli

autori - che le religioni iniziano a "sottolineare il

valore della trascendenza personale, l'idea che

l'esistenza umana ha uno scopo, distinto dal

successo materiale, che si trova in una vita morale

e che richiede il controllo dei propri desideri

materiali, attraverso la moderazione (rispetto a cibo,

sesso, ambizione, eccetera), l'ascetismo (digiuno,

astinenza, distacco), e la compassione (aiutare,

soffrire con gli altri)".

Baumard e colleghi hanno testato varie teorie,

combinando modelli statistici con le teorie

psicologiche basate su approcci sperimentali, e

sono giunti a una conclusione differente da quelle

attualmente più accreditate, secondo le quali a

determinare i cambiamenti del fenomeno religioso

sarebbero la complessità politica o le dimensioni

demografiche delle società.

Dalle loro analisi è infatti emerso che il modello

di sviluppo più rispondente alla realtà storica è

quello che vede al proprio centro il concetto di 

energy capture, che misura la disponibilità energetica

complessiva di una persona, sotto forma di cibo,

combustibili, e materiali vari (manufatti, costruzioni,

vestiti). 

Il modello energy capture mostra una brusca

transizione verso le religioni moraleggianti quando

gli individui hanno iniziato ad avere una disponibilità

complessiva di 20.000 chilocalorie al giorno,

corrispondente a un buon livello di benessere,

tale cioè da garantire una certa sicurezza, un

tetto sulla testa e cibo sufficiente non solo per

l'immediato ma anche per il prossimo futuro.

La morale delle grandi religioni è figlia dell'energia disponibile© Hugh Sitton/CorbisLa transizione alle religioni

moraleggianti - dicono i ricercatori - è coerente

con il passaggio da strategie di vita a breve

termine (basate sull'acquisizione delle risorse e

su interazioni coercitive) a strategie di lungo periodo,

che puntano sull'autocontrollo e su interazioni

cooperative). 

"Una conseguenza di questa conclusione - dice

Nicolas Baumard - è che le religioni mondiali e le

spiritualità secolari probabilmente condividono più

di quanto pensiamo. Al di là delle dottrine molto

diverse, probabilmente tutte attingono agli stessi

sistemi di ricompensa [nel cervello umano]."

Ora i ricercatori vorrebbero verificare se anche

altre caratteristiche della società umana moderna,

come l'elevato investiimento parentale di entrambi i

genitori o la monogamia a lungo termine, possano

derivare dallo stesso tipo di cambiamento storico.

 
 
 

Il segreto dell'influenza A per assemblare il genoma

Post n°2205 pubblicato il 23 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

Il segreto dell'influenza A per assemblare il genoma

Il virus dell'influenza A, responsabile di

pandemie come l'influenza aviaria e la

febbre suina, durante il processo di r

eplicazione nell'organismo infettato produce

nella cellula ospite speciali compartimenti

per assemblare i segmenti del suo genoma

microbiologiaepidemiologia 

Il virus dell'influenza A si presenta sempre

sotto forma di ceppi diversi, evitando così

di essere riconosciuto dal sistema immunitario

degli animali, in particolare uccelli e mammiferi. 

Occasionalmente, il contagio si può trasmettere

agli esseri umani causando vaste e pericolose

epidemie e pandemie, com'è avvenuto nel

2009 con il ceppo H1N1 nelle due varianti

responsabili dell'influenza aviaria e della

febbre suina.

Il segreto dell'influenza A per assemblare il genoma

Immagine al microscopio elettronico di cellula

infettata dal virus dell'influenza A.

La tecnica di fluorescenza mette in evidenza le

inclusioni virali (in verde, Credit: Sílvia Vale-Costa

and Ana Laura Sousa)Maria João Amorim e colleghi

del Gulbenkian Institute of Science a Oeira, in

Portogallo, annunciano ora sulla rivista "Nature

Communication" di aver scoperto il sito all'interno

delle cellule infette dove vengono assemblati i

genomi di questo virus, un risultato che potrebbe

aiutare a prevenire e combattere questo tipo di

influenza.

I virus, e in particolare quello dell'influenza A,

sono costituiti da materiale genetico (DNA o RNA)

e da un involucro proteico, chiamato capside.

Durante l'infezione di una cellula ospite, il virus

inietta il suo materiale genetico nel nucleo cellulare,

dove può sfruttare il macchinario molecolare della

cellula per replicarsi.

Il virus dell'influenza A è particolare perché ha

un genoma suddiviso in otto segmenti, che

codificano per 11 differenti proteine.

Durante la moltiplicazione del virus, questi otto

segmenti vengono replicati molte volte e poi

assemblati, il che implica una selezione molto

precisa di migliaia di molecole.

Amorim e colleghi hanno scoperto che la selezione

del materiale genetico è fatta in compartimenti

prodotti dal virus nella cellula ospite chiamati

inclusioni virali.

Un dato particolarmente interessante è che

questi compartimenti non sono delimitati da

una membrana, come avviene per esempio

nel caso degli organelli cellulari.

Invece, le inclusioni virali sono separate

dall'ambiente da un processo chiamato

separazione di fase liquido-liquido, un po' come

avviene quando si produce una macchia di olio

sull'acqua: i due liquidi non si mescolano.

Grazie a questo fenomeno fisico di non

mescolanza, il materiale genetico del virus

rimane segregato in un piccolo spazio:

qui risulta più agevole l'assemblaggio successivo

delle otto unità che formano il genoma.

"I nostri risultati aprono la strada a terapie

alternative che potrebbero avere come bersaglio

il processo di sintesi del genoma o il luogo in cui

si forma", ha spiegato Amorim.

"Questo lavoro è innovativo perché è una delle

prime osservazioni che dimostra che le infezioni

virali utilizzano processi di separazione di fase".

Il risultato è dunque rilevante non solo a fini

terapeutici, ma anche perché, dimostrando il

ruolo della separazione di fase nelle infezioni

virali, getta un ponte verso altre branche della

ricerca biomedica: la separazione di fase è un

fenomeno che si sta rivelando cruciale in molti

ambiti, tra cui quello delle malattie neurologiche.

 
 
 

Neuroni artificiali più veloci del cervello umano

Post n°2204 pubblicato il 23 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

31 gennaio 2018

La recente realizzazione di microprocessori

simili ai neuroni che elaborano le informazioni

in modo molto più rapido ed efficiente del

nostro cervello segna un importante passo

avanti nello sviluppo di hardware "neuromorfico"

per fornire la necessaria potenza di calcolo ai

sistemi di intelligenza artificiale che si ispirano

al cervello umanodi Sara Reardon/Nature

computer scienceneuroscienze

Microchip di calcolo a superconduttori realizzati

imitando i neuroni sono in grado di elaborare le

informazioni in modo più rapido ed efficiente del

cervello umano.

Il risultato, descritto sul numero del 26 gennaio

di "Science Advances", è una pietra miliare nello

sviluppo di dispositivi informatici avanzati progettati

per imitare i sistemi biologici.

E potrebbe aprire la strada a un software di

apprendimento automatico più naturale, anche se

rimangono molti ostacoli prima che possa essere

usato commercialmente.

Il software di intelligenza artificiale imita sempre

più spesso il cervello.

Algoritmi come quelli realizzati da Google per i

programmi automatici di classificazione delle immagini

e di apprendimento delle lingue utilizzano reti di

neuroni artificiali per svolgere compiti complessi.

Ma poiché l'hardware dei computer convenzionali

non era progettato per eseguire algoritmi simili a

quelli del cervello, questi compiti di apprendimento

automatico richiedono una potenza di calcolo di alcuni

ordini di grandezza superiore a quella del cervello

umano.

"Ci deve essere un modo migliore per farlo,

perché la natura l'ha trovato", dice Michael

Schneider, fisico del National Institute of Standards

and Technology (NIST) degli Stati Uniti a Boulder,

Colorado, coautore dello studio.

ALFRED PASIEKA/SPL/AGFIl NIST è uno dei pochi

gruppi che cercano di sviluppare l'hardware "neuromorfico"

che imita il cervello umano, nella speranza che esegua

il software simile a quello del cervello in modo più efficiente.

Nei sistemi elettronici convenzionali, i transistor

elaborano le informazioni a intervalli regolari e in

quantità precise: bit che assumono i valori 1 o 0.

Ma i dispositivi neuromorfici possono accumulare

piccole quantità di informazioni da più fonti,

alterarle per produrre un diverso tipo di segnale

e far partire una scarica elettrica solo quando

necessario, proprio come i neuroni biologici.

Di conseguenza, i dispositivi neuromorfici richiedono

meno energia per funzionare.

Gestire le sinapsi
Eppure questi dispositivi sono ancora inefficienti,

specialmente quando trasmettono informazioni

attraverso lo spazio, o sinapsi, tra i transistor.

Così il gruppo di Schneider ha creato elettrodi

simili a neuroni con superconduttori a niobio, che

conducono elettricità senza resistenza, riempiendo

gli spazi tra i superconduttori con migliaia di

nanocluster di manganese magnetico.

Variando la quantità di campo magnetico nella

sinapsi, i nanocluster possono essere allineati per

puntare in diverse direzioni.

Ciò consente al sistema di codificare le informazioni

sia nel livello di elettricità sia nella direzione del

magnetismo, garantendo una potenza di calcolo

molto maggiore rispetto ad altri sistemi neuromorfici,

senza occupare spazio fisico aggiuntivo.

Le sinapsi possono trasmettere impulsi fino a

un miliardo di volte al secondo - vari ordini di

grandezza più velocemente dei neuroni umani -

e usare un decimillesimo della quantità di energia

usata da una sinapsi biologica.

Micrografia di una delle sinapsi artificiali realizzate

al NIST (Cortesia NIST)Nelle simulazioni al computer,

i neuroni sintetici potevano raccogliere l'input da

un massimo di nove fonti prima di trasmetterlo

all'elettrodo successivo.

Ma sarebbero necessarie milioni di sinapsi prima

che un sistema basato su questa tecnologia possa

essere utilizzato per il calcolo complesso, afferma

Schneider, e resta da vedere se sarà possibile

riprodurlo a quella scala.

Un altro problema è che le sinapsi possono

funzionare solo a temperature prossime allo

zero assoluto e devono essere raffreddate con

elio liquido.

Steven Furber, ingegnere informatico dell'Università

di Manchester, nel Regno Unito, che studia il calcolo

neuromorfico, afferma che questo potrebbe rendere

i chip poco pratici per l'uso in piccoli dispositivi, anche

se un grande centro dati potrebbe riuscire a gestirli.

Ma Schneider afferma che il raffreddamento dei

dispositivi richiede molta meno energia rispetto

al funzionamento di un sistema elettronico

convenzionale con una quantità equivalente di

potenza di calcolo.

Un approccio alternativo
Carver Mead, ingegnere elettronico del California

Institute of Technology di Pasadena, elogia la ricerca,

definendola un nuovo approccio al calcolo neuromorfico.

"Il campo è pieno di esagerazioni propagandistiche,

ed è bello vedere un lavoro di qualità presentato in

modo obiettivo", afferma.

Ma aggiunge che ci vorrà molto tempo prima che i chip

possano essere utilizzati per il vero calcolo, e sottolinea

che si trovano ad affrontare una forte concorrenza da

parte di molti altri dispositivi di calcolo neuromorfici in

fase di sviluppo.

Anche Furber sottolinea che le applicazioni pratiche

sono di là da venire.

"Le tecnologie dei dispositivi sono potenzialmente

molto interessanti, ma non sappiamo ancora abbastanza

sulle proprietà cruciali delle sinapsi biologiche per

capire come usarle efficacemente", dice.

Per esempio, ci sono interrogativi aperti su come le

sinapsi si rimodellano in modo autonomo quando si

codifica un ricordo, rendendo difficile ricreare il

processo in un chip di memoria.

Tuttavia, poiché ci vogliono 10 anni o più perché

i nuovi dispositivi di calcolo raggiungano il mercato,

afferma Furber, vale la pena di sviluppare il maggior

numero di approcci tecnologici possibili, anche se

i neuroscienziati lottano ancora per comprendere

il cervello umano.

(L'originale di questo articolo è stato pubblicato su

Nature il 26 gennaio 2018. Traduzione ed editing a

cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i

diritti riservati.)

 
 
 

Le piogge invernali in Groenlandia sono sempre più comuni

Post n°2203 pubblicato il 23 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

fonte: Le Scienze

13 marzo 2019

Le piogge invernali in Groenlandia sono sempre più comuni

L'incremento della fusione dei ghiacciai in

Groenlandia è legato in parte significativa

alle piogge invernali che interessano

sempre più spesso le regioni meridionali

dell'isola.

Le precipitazioni innescano un meccanismo

che influisce anche sulla velocità di fusione

dei ghiacci in estate

climaambiente

L'aumento della frequenza, della durata e

dell'estensione dell'area di fusione dei

ghiacciai della Groenlandia è legato in parte

significativa all'aumento degli episodi di

pioggia durante il periodo invernale, causati

dal riscaldamento globale.

Lo ha stabilito uno studio pubblicato sulla rivista

"The Cryosphere",  condotto da un gruppo di

ricercatori fra cui gli italiani Fiammetta Straneo

e Marco Tedesco, rispettivamente della Scripps

Institution of Oceanography a La Jolla, in

California, e della Columbia University.

Le piogge invernali in Groenlandia sono sempre più comuni

Un ruscello di acqua di fusione attraversa il

ghiacciaio Russell in Groenlandia. (Cortesia

Kevin Krajick/Earth Institute)Si stima che la

Groenlandia stia perdendo circa 270 miliardi

di tonnellate di ghiaccio ogni anno.

Fino a poco tempo fa si riteneva che gran parte

di questa perdita fosse legata al distacco di

grandi iceberg dai margini dei ghiacciai, ma

studi recenti hanno mostrato che ben il 70

per cento di essa è in realtà dovuta al deflusso

delle acque di fusione.

Anche se il progressivo aumento di questo

deflusso nel corso degli ultimi decenni è imputabile

al riscaldamento dell'atmosfera - che ha portato

a un aumento della temperatura superficiale

del ghiaccio di 1,8 °C in estate, e fino a 3 °C

in inverno - l'entità di questo aumento non è in

grado da sola di giustificare il forte incremento

del deflusso.

I ricercatori hanno preso in esame 313 eventi di

accelerazione della fusione avvenuti fra il 1979

e il 2012, analizzando le immagini satellitari e i

dati relativi a temperatura, vento e precipitazioni

rilevati da 20 stazioni meteorologiche installate

sui ghiacciai groenlandesi.

E' risultato che, per quanto l'entità complessiva

delle precipitazioni non sia cambiata nel periodo

in esame, è cambiata la loro struttura, con un

aumento degli eventi di pioggia anche d'inverno,

a latitudini e altitudini progressivamente maggiori.

Oltre a ridurre l'apporto di neve fresca, le piogge

fanno sciogliere gli strati superficiali di quella che

si era depositata, innescando un fenomeno di

deflusso fuori stagione, che resta comunque

piuttosto contenuto.

Le piogge invernali in Groenlandia sono sempre più comuni

Uno scorcio del ghiacciaio Russell.

L'effetto principale di queste piogge infatti è

ritardato: gran parte della neve fusa per la

pioggia torna a gelare rapidamente, ma questa

volta sotto forma di uno strato di ghiaccio.

Poiché il ghiaccio riflette la radiazione solare

molto meno della neve, quando arriva l'estate

questo strato si scioglie molto più rapidamente,

dando origine a una imponente massa di acqua

di fusione, che accelera lo scioglimento anche

del ghiaccio sottostante.

L'aumento delle precipitazioni piovose anche

d'inverno è dovuto alla maggiore frequenza con

cui la Groenlandia meridionale e sud-occidentale

è interessata da venti oceanici umidi e relativamente

caldi provenienti dal sud - che le popolazioni locali

chiamano neqqqajaaq - legata ai mutamenti nelle

correnti a getto stratosferiche indotti dai cambiamenti

climatici. (red)

 
 
 

Autismo e pesticidi, i dati di una correlazione

Post n°2202 pubblicato il 23 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

fonte: Le Scienze

Autismo e pesticidi, i dati di una correlazione

In uno studio statunitense, soggetti

esposti a pesticidi prima della nascita

hanno mostrato un rischio di autismo

più alto rispetto a soggetti che invece

non ne erano stati esposti a questi prodotti

chimici.

Questa correlazione però non dice che

l'autismo è collegato in maniera certa

all'esposizione ai pesticidi sebbene faccia

suonare un forte campanello di allarmedi

Salvo Di Grazia

neuroscienzeagricolturaautismo

Chi conosce il linguaggio della scienza sa

che c'è un concetto fondamentale, utile

per non incorrere in errori clamorosi e

conclusioni affrettate: correlazione non

è causalità.

Non tutto ciò che è collegato a qualcosa

è causato da questa cosa.

Di esempi se ne potrebbero fare tanti e

uno spunto proviene da uno studio recente

che si occupa di due argomenti attuali e

molto interessanti.

I disturbi del neurosviluppo (l'autismo è

uno di essi) e l'uso di pesticidi.

Partiamo da due presupposti: l'autismo è

un disturbo molto complesso (non per niente

si parla di "spettro autistico") con molte

varianti, caratteristiche diverse e difficile da

definire.

Sembra sempre più evidente che la sua

origine sia genetica, legata alla fase di sviluppo

embrionale ma sembra esserci anche una piccola

componente ambientale.

Il secondo presupposto è che sono pochissime

le sostanze "veramente" tossiche per l'uomo.

Tutto può essere tossico ma anche la cosa

più tossica del mondo, in piccolissime dosi,

può essere innocua o addirittura utile alla

salute umana (vedi alcuni farmaci).

Questi concetti bisogna tenerli presenti per

capire di cosa parliamo.

Lo studio recente di cui parlavo all'inizio si

collega a questi due concetti.

Pubblicato sul "British Medical Journal" 

(non è un particolare secondario, si tratta

di una delle riviste mediche più importanti al

mondo), lo studio trova una correlazione tra

i disturbi del neurosviluppo e l'uso di pesticidi.

Si tratta di un classico "studio osservazionale",

i ricercatori cioè, hanno preso dei dati, li hanno

studiati e collegati, ottenendo dei risultati e

si sono fermati a questi.

Gli autori, americani, hanno analizzato i registri,

che negli Stati Uniti sono obbligatori, sull'uso di

diserbanti e pesticidi in una precisa regione

agricola.

Hanno studiato 2961 persone con diagnosi di

autismo, (445 delle quali con disabilità intellettiva)

e 35.370 controlli (cioè persone in salute dello

stesso sesso ed età).

Hanno calcolato, con una stima, l'esposizione di

queste persone ai pesticidi: tramite i registri si

stimavano le quantità di pesticida usate nei due

chilometri di superficie attorno a ciascun individuo

e quindi si poteva risalire a quanto pesticida era

stato esposto ognuno di essi prima della nascita.

Sono stati testati 11 pesticidi (i più usati, tra

i quali glifosato, chlorpyrifos, avermectin e

diazinone).

I risultati finali hanno mostrato come le persone

esposte prima della nascita (quindi le cui madri,

in gravidanza, abitavano vicino ai campi trattati)

a questi pesticidi mostravano un rischio di autismo

più alto delle persone che invece non ne erano

state esposte.

Questo rischio era (in generale) minore nel periodo

del concepimento e un anno dopo la nascita.

La correlazione più forte è stata quindi quella

durante la gravidanza, in particolare per glifosato

e avermectin.

Autismo e pesticidi, i dati di una correlazione()

Come leggere questi dati?

L'autismo è causato dai pesticidi?
Il risultato può suonare allarmante (quei

pesticidi sono usati anche da noi e ormai le

zone agricole sono spesso densamente

abitate) anche perché non è nuovo e conferma

osservazioni precedenti, ma probabilmente

basta fare un po' di chiarezza per capirlo

meglio e non vedere tutto nero.

Intanto possiamo dire che, per le caratteristiche

dello studio, ci troviamo davanti a una correlazione

non per forza indice di causalità.

Questi dati, infatti, non ci dicono che l'autismo sia

collegato in maniera certa all'esposizione ai

pesticidi ma fa suonare un campanello di allarme

che inizia a essere forte.

Mai però trarre conclusioni da una semplice

correlazione, sarebbe ingenuo.

Negli anni, infatti, l'autismo è stato correlato

(anche in maniera importante) con moltissime

cose.

Sono correlati autismo e aumento di peso

materno in gravidanza, lo è l'uso di antibiotici

in gravidanza e la nonna del nascituro fumatrice,

l'età paterna e persino la carenza di ferro, e

questa è solo una parte dell'elenco di ciò che

le ricerche hanno correlato con i disturbi dello

spettro autistico.

Correlare freddamente due dati può quindi

farci arrivare a conclusioni inutili.

Che peso dobbiamo dare allora a questa

ulteriore correlazione? Quello giusto.

Lo studio è certamente interessante, conferma

alcune ipotesi (per esempio quella che l'origine

dell'autismo risalga al periodo di gestazione)

e ne rafforza altre (per esempio che una piccola

ma quasi certa porzione dei casi di autismo

abbia causa ambientale) ma ha sicuramente

parecchie limitazioni.

Per esempio la correlazione, seppur presente,

è molto bassa, per alcuni tipi di pesticida

bassissima, cosa che fa pensare a un alto rischio

di errore, anche perché l'esposizione ai pesticidi

è stata solo stimata (tramite i dati registrati negli

archivi statunitensi), non sappiamo cioè quale

quantità di pesticidi abbia raggiunto veramente

quelle persone in epoca gestazionale ma possiamo

solo "immaginarlo".

Altro dato importante è che quelle aree

studiate hanno un altissimo utilizzo di pesticidi

e si tratta di aree agricole e rurali dove già può

esserci un più alto rischio di problemi dello

sviluppo neurologico, indipendentemente quindi

dall'uso di pesticidi.

Gli studiosi inoltre non hanno seguito i bambini

nel loro sviluppo (si sono fermati alla diagnosi di

autismo).

I soggetti con questa diagnosi analizzati nello

studio sono in maggioranza maschi (e l'autismo

ha un'incidenza maggiore proprio nel sesso

maschile) e hanno madri di età più avanzata

(e questo è un ulteriore fattore di rischio).

Prendere per oro colato la conclusione di

questo studio, insomma, rischia di portarci in

una strada senza uscita. Se è vero (e anche

scientificamente plausibile) che pesticidi (e

inquinamento in generale), insetticidi e smog

siano fattori di rischio per i disturbi dello

spettro autistico non possiamo ancora dire

fino a che punto lo siano, per quali motivi e

per quali quantità e d'altronde sono centinaia

le sostanze considerate potenzialmente

dannose in gravidanza. Però il dato c'è e

conferma dati simili.

La "lezione" che quindi dobbiamo conservare

è la conferma di un fatto di buon senso quasi

proverbiale: in gravidanza bisogna essere cauti.

Se già è bene vivere in un ambiente pulito e

salubre, questo deve valere ancora di più nel

periodo della gestazione. Un dato che sembra

ovvio ma che non sarà mai ripetuto a sufficienza

e l'Italia, nazione con tradizione agricola

secolare, deve ricordarsene.

 
 
 

Un nuovo sguardo alle rocce lunari dell'Apollo 17

Post n°2201 pubblicato il 23 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

fonte: Le Scienze

28 marzo 2019

Un nuovo sguardo alle rocce lunari dell'Apollo 17

Nei prossimi mesi è in programma un'analisi

con tecniche all'avanguardia di un campione

di rocce lunari raccolto nel 1972 dalla missione

Apollo 17 - l'ultima a visitare la Luna e l'unica

che aveva a bordo un geologo - e rimasto

sigillato da allora.

Sarà una nuova occasione per carpire i segreti

della formazione del sistema solaredi Alexandra

Witze/Nature

planetologiaagenzie spaziali

Il prossimo anno, i curatori del Johnson Space

Center della NASA a Houston, in Texas,

indosseranno tute e guanti protettivi, entreranno

nel laboratorio high-tech che ospita la raccolta

statunitense delle rocce lunari e apriranno un

lungo tubo metallico che è rimasto sigillato dal

1972, cioè da quando gli astronauti dell'Apollo

17 lo affondarono nel terreno nella Valle Taurus

-Littrow della Luna per raccogliere campioni.

Sarà la prima volta da decenni che qualcuno

apre un campione di roccia incontaminato

raccolto dalle missioni Apollo.

"Questa dovrebbe essere considerata come una

nuova missione sulla Luna", dice Chip Shearer,

geologo dell'Università del New Mexico, che

studierà il campione usando le più recenti

tecniche di laboratorio.

Ottenere informazioni da un campione vecchio

di decenni "è in realtà una continuazione delle

missioni Apollo e un ponte verso il nostro futuro",

ha affermato il 20 marzo alla Lunar and Planetary

Science Conference di The Woodlands, in Texas.

Un nuovo sguardo alle rocce lunari dell'Apollo 17

Il geologo Harrison H. Schmitt, qui ripreso dal

comandante Gene Cernan accanto al modulo

lunare dell'Apollo 17, è stato l'unico scienziato

a partecipare alle missioni del programma

(Credit: NASA)Nuovi studi su campioni dell'era

Apollo potrebbero aiutare a definire la prossima

generazione di scoperte geologiche lunari,

hanno detto i ricercatori all'incontro.

Gli scienziati stanno usando tecniche moderne

per analizzare i 382 chilogrammi di rocce lunari

che gli astronauti raccolsero tra il 1969 e il 1972,

e si servono delle informazioni degli studi Apollo

storici e moderni per decidere la prossima serie

di siti da esplorare sulla superficie lunare.

Per puro caso, il momento è particolarmente

opportuno, perché la NASA intende iniziare a

portare strumenti scientifici sulla superficie della

Luna già dal prossimo anno, nel suo primo

ritorno lassù dal 1972.

I ricercatori dovrebbero fare pressione per

ottenere la maggiore quantità possibile di dati

scientifici da quelle missioni, per esempio

insistendo che si rivolgano a obiettivi per lo più

inesplorati, come per esempio il lato più lontano

della Luna, ha spiegato David Kring, planetologo

del Lunar and Planetary Institute di Houston,

durante la riunione. Anche altre nazioni corrono

verso la Luna: a gennaio, una sonda cinese ha

effettuato un atterraggio storico sul lato più

lontano della Luna, e il mese scorso una società

israeliana ha lanciato il primo lander privato per

la Luna.

Sondare il passato
Le rocce lunari hanno aiutato gli scienziati a

determinare le date degli eventi chiave dei 4,5

miliardi di anni di storia del sistema solare,

come il bombardamento di asteroidi che si ritiene

sia avvenuto circa mezzo miliardo di anni dopo

la formazione della Terra.

"La crosta lunare è un vero e proprio museo di

scienza planetaria", ha detto Juliane Gross,

planetologa della Rutgers University di Piscataway,

nel New Jersey.

Alcune informazioni arrivano dall'osservazione

delle rocce dell'era Apollo con nuovi metodi.

Alla conferenza, Beck Strauss, geofisico planetario

del National Institute of Standards and Technology

degli Stati Uniti a Gaithersburg, nel Maryland, ha

descritto la caccia a deboli campi magnetici in rocce

di 3,1 miliardi di anni raccolte dagli astronauti

dell'Apollo 12.

Lo studio di Strauss conferma precedenti indizi

che la forza del campo magnetico della Luna

raggiunse un picco tra 3,9 miliardi e 3,6 miliardi di

anni fa e poi crollò - il che suggerisce che qualcosa

deve essere cambiato nell'interno della Luna, dove

l'antico campo magnetico si è evoluto in modi

sconosciuti. "Nuove tecniche ci danno accesso a

cose che non erano possibili durante l'era Apollo".

Anche le inclusioni vetrificate in alcune delle rocce

lunari formatesi durante le eruzioni vulcaniche,

stanno portando ad alcune scoperte. Megan

Guenther, specializzando del Massachusetts

Institute of Technology di Cambridge, ha provato

a replicare le condizioni chimiche in cui probabilmente

si sono formate le inclusioni di vetro nero nelle

rocce prelevate dall'Apollo 14.

Ha scoperto che le inclusioni avrebbero potuto

formarsi fino a 900 chilometri nel sottosuolo, cioè

molto più in profondità di quanto gli scienziati

avessero sospettato.

Un nuovo sguardo alle rocce lunari dell'Apollo 17

Schmitt mentre raccoglie campioni con il

"rastrello lunare", uno strumento studiato

appositamente per gli studi di geologia lunare

(Credit: NASA)Anche le inclusioni vetrificate

verdi delle rocce dell'Apollo 15 raccontano

una storia sulla Luna primordiale, ha detto

Evelyn Füri, geochimica del CNRS a Vandœuvre

-lès-Nancy, in Francia.

Il suo gruppo ha analizzato il neon e altri gas

all'interno di 22 delle minuscole inclusioni e ha

scoperto che due di esse sono particolarmente

ricche di gas.

Quei gas potrebbero essere resti delle epoche

primordiali del sistema solare, il che sosterrebbe

l'idea che la Luna sia riuscita a catturare alcuni

dei materiali volatili che molti ricercatori

pensavano fossero andati completamente persi.

Apriti Sesamo
Shearer e colleghi cercheranno indizi di quei

composti volatili quando apriranno il campione

dell'Apollo 17. Gli astronauti lo riempirono con le

rocce ammassate da una frana alla base di una

piccola montagna nella Valle Taurus-Littrow.

Il tubo di carotaggio fu affondato abbastanza

in profondità da penetrare nel terreno gelato,

e il campione di roccia potrebbe ancora

contenere acqua o altre sostanze volatili intrap-

polate sotto la frana. Se fosse così, i ricercatori

saranno in grado di misurare le sostanze

volatili in modo molto più preciso di quanto

avrebbero potuto fare 50 anni fa e iniziare

a rispondere a domande ancora irrisolte su

come si formò la valle, che è profonda quanto

il Grand Canyon.

Aprire un campione lunare è sempre un emozione,

dice Andrea Mosie, tra i curatori del centro di Houston.

Ricorda ancora di aver analizzato il suo primo

campione Apollo decenni fa, indossando tre set

di guanti e lavorando in un vano riempito di azoto.

"Anche solo afferrarlo fu davvero emozionante",

dice, "perché stavo prendendo un pezzo di Luna".

(L'originale di questo articolo è stato pubblicato su

"Nature" il 25 marzo 2019. Traduzione ed editing

a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata,

tutti i diritti riservati.)

 
 
 

La violenza alimenta l'epidemia di Ebola

Post n°2200 pubblicato il 23 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

fonte: Le Scienze

12 marzo 2019

La violenza alimenta l'epidemia di Ebola

L'intensificarsi dei conflitti nella Repubblica

Democratica del Congo ostacola gli sforzi

per debellare il virus, che si sta diffondendo

al di fuori delle catene di trasmissione

conosciute e ha raggiunto un tasso di mortalità

del 60 per cento superiore a quello della crisi del

2014-2016 nell'Africa occidentaledi Amy Maxmen / Nature

medicinaepidemiologiapolitiche sanitarie

Più di 900 persone hanno contratto il virus

Ebola da quando ha iniziato a diffondersi nella

Repubblica democratica del Congo (RDC)

all'inizio di agosto.

L'epidemia, ora la seconda più diffusa mai

registrata, non mostra alcun segno di rallentamento,

alimentata, dicono gli operatori umanitari e i

funzionari governativi, da un cocktail tossico

di violenza e sfiducia.

Il conflitto nel nord-est della RDC, il centro

dell'epidemia di Ebola, negli ultimi mesi si è

intensificato. Alla fine di dicembre - dopo che il

governo della RDC aveva impedito a più di un

milione di persone nelle zone colpite dall'Ebola

di votare per le elezioni presidenziali del paese

- gruppi di manifestanti hanno assaltato e

bruciato un centro per la cura dell'Ebola a Beni.

E il mese scorso, assalitori armati hanno

incendiato i centri di cura a Butembo e Katwa.

Le persone impegnate in prima linea per

combattere l'Ebola in quelle città - che diffondono

appelli sanitari, identificano i casi potenziali e

seppelliscono i morti - affrontano minacce e

aggressioni quasi quotidianamente.

La violenza alimenta l'epidemia di Ebola

Il numero di vittime di Ebola nella Repubblica

democratica del Congo continua a salire.

(ZUMAPRESS.com / AGF)Le continue violenze

hanno ostacolato gli sforzi per contenere il virus.

"Qui ci sono così tanti gruppi armati che non si

sa dove capiterà il prossimo problema", dice

uno di loro, che ha chiesto di restare anonimo

perché non è autorizzato a parlare con la stampa.

"Siamo gettati nel fuoco".

Altrettanto preoccupanti, dicono gli epidemiologi,

sono i dati dell'Organizzazione Mondiale della

Sanità (OMS) che indicano che il virus si sta

diffondendo inosservato.

Durante le ultime tre settimane di febbraio, il

43 per cento delle persone morte per Ebola a

Katwa e Butembo sono state trovate già

decedute nelle loro comunità, senza che fossero

state isolate negli ospedali durante le ultime

fasi della malattia, quando è più contagiosa.

E tre quartidi coloro ai quali è stata diagnosticato

l'Ebola non erano stati precedentemente

identificati come persone a contatto di soggetti

che avevano contratto il virus.

Nel complesso, le statistiche suggeriscono che

il virus si stia diffondendo al di fuori delle catene

di trasmissione conosciute, rendendo più difficile

contenerlo e facendo salire il tasso di mortalità

rispetto ai focolai precedenti.

L'attuale tasso di mortalità, il 60 per cento circa,

è superiore a quello registrato durante la crisi

dell'Ebola del 2014-16 in Africa occidentale, e

questo nonostante i miglioramenti ottenuti nella

cura delle persone colpite, compresa l'introduzione

di diversi farmaci sperimentali.

"Possiamo avere a disposizione i migliori

trattamenti al mondo, ma la mortalità non

diminuirà se i pazienti non si presentano o

arrivano troppo tardi", dice Chiara Montaldo,

coordinatrice medica del gruppo di soccorso di

Médecins Sans Frontières (MSF, noto anche

come Medici Senza Frontiere) nella provincia

del Nord Kivu della RDC.

Territorio inesplorato

Questo focolaio di Ebola è il decimo nella RDC

da quando il virus è stato scoperto nel 1976.

È di gran lunga la più grande e più lunga

epidemia che abbia mai colpito il paese, con

circa 907 casi e 569 decessi, al 5 marzo.

[Saliti a 921 casi e 582 decessi all'11 marzo.

N.d.R.] A differenza delle precedenti, è iniziata

nella regione nord-orientale della RDC

devastata dalla guerra, dove le ondate di

conflitti che si susseguono dal 1997 hanno

causato fino a sei milioni di vittime.

La regione ospita decine di gruppi armati ed

è anche una roccaforte degli oppositori del

partito politico al potere nella RDC.

Molti abitanti guardano con sospetto alle

iniziative per debellare l'epidemia di Ebola,

perché le considerano collegate alla lotta

del governo ai suoi nemici politici.

La decisione presa l'anno scorso dall'ex

presidente Joseph Kabila di impedire il voto

agli abitanti delle città di Beni, Butembo e

Yumbi - per prevenire la diffusione di Ebola - ha aggravato i sospetti.

l 24 e il 27 febbraio a Katwa e a Butembo sono

stati dati alle fiamme i centri di MSF per la cura

di Ebola. (Cortesia WHO)La risposta costante

del Ministero della sanità della RDC, dell'OMS

e di MSF (Médecins Sans Frontières), tra gli altri

gruppi, ha arginato l'epidemia nelle comunità in

cui il virus è comparso per la prima volta, come

Mabalako, Komanda e Beni.

Ma quando la gente si sposta, si sposta anche Ebola.

Il virus si è diffuso in nuove aree, tra cui Butembo e Katwa.

Le continue violenze hanno indotto MSF a

sospendere le attività nelle due città il 28 febbraio.

Le principali agenzie sanitarie pubbliche non congolesi

- come i Centers for Disease Control and Prevention

degli Stati Uniti - hanno ritenuto la provincia del Nord

Kivu, dove si trovano Butembo e Katwa, troppo

rischiosa per andarci. Così, gli epidemiologi degli Stati

Uniti e di altri paesi occidentali stanno monitorando la

situazione da lontano.

L'OMS ha mantenuto in zona il proprio personale, ma

sta valutando se utilizzare le truppe di pace delle

Nazioni Unite per cercare di rendere sicure le cliniche

e le strutture in cui lavorano i suoi dipendenti.

"Siamo preoccupati per la nostra gente", dice

Ibrahima Socé-Fall, vicedirettore generale dell'OMS

per gli interventi di emergenza, che ha sede a

Brazzaville, nella Repubblica del Congo, che si affaccia

sul fiume che la separa dalla RDC.

Nel frattempo, l'OMS ha intensificato i colloqui con

i leader della comunità e sta preparando i residenti

a contribuire alla realizzazione della risposta a Ebola.

"Vogliamo ridurre la dipendenza dai partner internazionali",

dice Socé-Fall.

Lanciare l'allarme

Per contribuire ad arrestare la diffusione dell'Ebola,

alcuni analisti esperti in politica sanitaria vorrebbero

che l'OMS definisse l'epidemia nella RDC come

un'emergenza sanitaria pubblica di portata internazionale.

Questo potrebbe aumentare la cooperazione

internazionale e mobilitare gli aiuti, come avvenne

quando l'OMS dichiarò l'emergenza sette mesi dopo

lo scoppio dell'epidemia di Ebola nell'Africa occidentale nel 2014-16.

L'OMS stima che eradicare l'attuale epidemia di Ebola

nella RDC costerebbe 148 milioni di dollari.

Secondo il direttore generale dell'agenzia, Tedros

Adhanom Ghebreyesus, al 26 febbraio i paesi membri

dell'OMS avevano impegnato meno di 10 milioni di

dollari.

La violenza alimenta l'epidemia di Ebola

Avvisi sulle modalità di trasmissione del virus

affissi per sensibilizzare la popolazione.

(Cortesia WHO/L. Gutcher)"Se questa non è

un'emergenza sanitaria globale, che cosa lo è?",

dice Lawrence Gostin, specialista in diritto e

politica sanitaria della Georgetown University a

Washington DC: il conflitto in corso nel nord-est

della RDC, osserva, rende l'epidemia eccezionale

e le migliaia di persone che si spostano

regolarmente dal nord-est della RDC in Sud Sudan,

Uganda e Ruanda aumentano il rischio che il virus

si diffonda.

I sostenitori di una dichiarazione di emergenza

affermano che permetterebbe all'OMS di denunciare

le azioni governative che potrebbero danneggiare

la risposta dell'Ebola, come le restrizioni di voto

della RDC dell'anno scorso o la decisione degli

Stati Uniti di non entrare nella zona di diffusione

del virus.

Una dichiarazione potrebbe anche far pressione

sulla RDC perché migliori i servizi sanitari e la

sicurezza nelle comunità colpite da Ebola e dalla

violenza, dice Oyewale Tomori, un virologo

indipendente di Ibadan, in Nigeria.

Da ottobre, l'OMS ha ripetutamente deciso

di non dichiarare un'emergenza sanitaria pubblica,

affermando che è improbabile che Ebola si diffonda

a livello globale e che i gruppi di aiuto stanno

fornendo un aiuto sufficiente a limitare l'epidemia.

Alcuni esperti di problemi sanitari globali ipotizzano

che la riluttanza dell'OMS a dichiarare l'emergenza

sia influenzata anche da questioni geopolitiche.

Dichiarare un'emergenza potrebbe indurre i

paesi confinanti con la RDC a chiudere le frontiere,

per esempio, e questo potrebbe deprimere

l'economia della regione e rendere ancora più difficile

sapere quando le persone con Ebola entrano in

altri paesi.

E David Heymann, epidemiologo della London

School of Hygiene and Tropical Medicine, afferma

che i leader dei gruppi armati della regione potrebbero

usare una dichiarazione di emergenza come leva per

negoziare il controllo del territorio o delle risorse in

cambio del permesso ai soccorritori di fare il loro lavoro.

"Gli agenti infettivi possono essere usati come ostaggi",

dice.

C'è poi il problema di sapere se una dichiarazione

di emergenza serva effettivamente a qualcosa.

Adia Benton, antropologa della Northwestern

University a Evanston, in Illinois, dice che la svolta

nell'epidemia dell'Africa occidentale potrebbe

essere stata la notizia di una manciata di casi di

Ebola negli Stati Uniti, e non la decisione di

dichiarare lo stato di emergenza.

E teme che - ci sia o meno la dichiarazione di

emergenza dell'OMS - la situazione continuerà

a peggiorare, proprio come gli incendi dolosi, la

fame e la violenza che da un quarto di secolo

affliggono la Repubblica Democratica del Congo,

ampiamente ignorati dal resto del mondo.

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(L'originale di questo articolo è stato pubblicato

su "Nature" l'8 marzo 2019. Traduzione ed

editing a cura di Le Scienze.

Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)

 
 
 

Protezione dai virus

Post n°2199 pubblicato il 23 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

Il virus West Nile si trova raramente in Cina.

Ma la proteina CCR5 interagisce anche con

le proteine chiamate beta-chemochine che

aiutano il corpo a predisporre una risposta

immunitaria contro un gruppo di virus chiamati

flavivirus. Questi includono virus trasmessi da

zecche e virus che causano dengue e febbre

gialla, così come il virus West Nile, dice Marcus

Kaul, immunologo dell'Università della California

a Riverside.

Gli studi hanno rilevato che le persone con

CCR5-Δ32 hanno maggiori probabilità di contrarre

l'encefalite grave da malattie trasmesse da zecche

e di avere una reazione grave al vaccino per la

febbre gialla.

"L'assenza di CCR5 può avere gravi svantaggi",

afferma Kaul.

Anche l'influenza potrebbe rappresentare un

rischio maggiore per le gemelle.

Il lavoro sui topi ha dimostrato che la proteina

CCR5 aiuta a reclutare le cellule immunitarie

cruciali per combattere il virus nei polmoni.

Senza il gene, questo sistema di difesa fallisce.

Uno studio in Spagna ha rilevato che le persone

con la delezione CCR5-Δ32 hanno una probabilità

quattro volte superiore alla media di morire per

influenza. E la Cina è un hot-spot per le epidemie

d'influenza.

Gli scienziati hanno anche scoperto che, tra le

persone con sclerosi multipla, quelle con delezione

CCR5-Δ32 hanno il doppio delle probabilità di

morire precocemente rispetto a quelle senza la

mutazione. Quale ruolo potrebbe avere CCR5 in

altre condizioni croniche, come epatite C e

diabete, non è chiaro: gli studi non sono concordi

nel dimostrare se aiuta, danneggia o non fa

differenza rispetto a queste condizioni.

Sulla base delle informazioni contenute nel

modulo di consenso informato, nessuno di questi

effetti sembra essere stato comunicato ai genitori

delle ragazze né ad altre coppie che hanno

partecipato agli esperimenti di He.

La sua procedura di consenso informato "era un

disastro", afferma Megan Allyse, esperta di bioetica

della Mayo Clinic di Rochester, nel Minnesota.

He non ha risposto alle molteplici richieste di commento

da parte di "Nature".

Miglioramenti del cervello?
Alcuni studi hanno dimostrato che il gene CCR5 difettoso

può avere un effetto positivo, almeno nei topi.

 I roditori senza il gene hanno imparato a orientarsi

nei labirinti e a ricordare stimoli dolorosi più velocemente

dei roditori con il gene.

Complessivamente, la delezione del gene ha

migliorato la capacità cognitiva degli animali del

30-60 per cento, afferma Kevin Fox, neuroscienziato

dell'Università di Cardiff, nel Regno Unito, e coautore

dello studio.

"L'effetto era notevole ed evidente", dice.

Fox si chiede se le gemelle impareranno più

velocemente di quanto avrebbero fatto senza la

mutazione, mentre altri scienziati dubitano che

la delezione del gene avrà un effetto significativo

sull'apprendimento delle bambine.

Centinaia e forse migliaia di geni contribuiscono

all'intelligenza umana, afferma Kevin Mitchell,

genetista del Trinity College di Dublino, in Irlanda.

E l'effetto osservato nei topi potrebbe non

tradursi negli esseri umani.

La mutazione potrebbe anche avere un effetto

negativo sulla cognizione, dice Mitchell: per

esempio, se accelera la formazione della memoria,

ma rende difficile filtrare i ricordi non importanti.

"Anche se questa mutazione avesse un effetto

cognitivo negli esseri umani così come nei topi,

il che non è detto, non significa che sarebbe

una buona cosa", dice Mitchell.

Silva Alcino, neuroscienziata dell'Università

della California di Los Angeles e coautrice di Fox,

concorda sul fatto che qualsiasi effetto sarà

probabilmente imprevedibile.

"Nelle neuroscienze la delezione di questo recettore

conferisce alcuni vantaggi e molto probabilmente

porta anche a deficit in alcune forme di funzione

cognitiva", dice.

Murphy pensa che nonostante il numero sempre

più grande di studi sulla mutazione, sia difficile

trarre conclusioni sui suoi effetti complessivi.

Solo un piccolo numero di persone ha la mutazione,

il che rende difficile reclutare un gran numero di

soggetti per gli studi.

Tuttavia, le potenziali conseguenze della mancanza

di un gene CCR5 funzionante sono probabilmente

maggiori di quanto abbiamo stabilito finora, afferma

Murphy. "Quello che sappiamo potrebbe essere la

punta dell'iceberg", dice.

(L'originale di questo articolo è stato pubblicato

su "Nature" il 12 dicembre 2018. Traduzione ed

editing a cura di Le Scienze.

Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)  

 
 
 

IIT- L'umanoide WALK-MAN è più leggero....

Post n°2198 pubblicato il 23 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

IIT- L'umanoide WALK-MAN è più leggero

ed è stato testato come avatar robotico in

supporto alle squadre di emergenza

Comunicato stampa -

Più leggero di 31 chili, WALK-MAN ha

affrontato uno scenario che ricrea un

impianto industriale danneggiato da

un terremoto in cui sono presenti detriti,

fughe di gas e fuoco

tecnologiarobotica

Genova, 22 febbraio 2018 -

Spegnere gli incendi e supportare le squadre

di emergenza come un "avatar" robotico sono

i compiti per cui è stata testata una nuova

versione del robot umanoide WALK-MAN

all'IIT-Istituto Italiano di Tecnologia di Genova.

Il robot è in grado di localizzare le fiamme di

un incendio, camminare verso di esse, e

attivare un estintore per spegnerle, mentre

un operatore lo guida da lontano.

L'ultima versione di WALK-MAN ha un nuovo

design, più leggero di 31 chili grazie all'utilizzo

di leghe di magnesio, e nuove mani più abili

nelle manipolazioni.

Il nuovo design è stato pensato per ridurre

i costi di costruzione e migliorare le prestazioni

in termini energetici.
 
Il robot WALK-MAN è l'umanoide per le emergenze

progettato e realizzato dall'IIT, in collaborazione

con altri partner internazionali, nell'ambito di un

progetto finanziato dalla Commissione Europea

dal 2013 e in fase di conclusione.

Nel giugno 2015, WALK-MAN era stato l'unico

progetto italiano e finanziato dall'UE a partecipare

a Los Angeles alla gara internazionale di robotica

DARPA Robotics Challenge (DRC), promossa per

definire gli standard tecnologici dei robot capaci

di fornire assistenza in caso di disastri naturali

o provocati dall'uomo. Durante la sfida il robot

aveva affrontato uno scenario ispirato all'incidente

nucleare di Fukushima. Nel 2016 WALK-MAN è

stato testato in uno scenario reale, in seguito

al terremoto ad Amatrice, all'interno di edifici

danneggiati per eseguire un'ispezione della

struttura e fornire informazioni sulla stabilità

dell'edificio.
 
Nella sua ultima prova il robot WALK-MAN ha

affrontato uno scenario definito dai ricercatori

insieme alla Protezione Civile di Firenze: un im

pianto industriale danneggiato da un terremoto

in cui sono presenti detriti, fughe di gas e fuoco,

quindi una situazione pericolosa per l'uomo.

Lo scenario è stato ricreato in laboratorio

attraverso la costruzione di un ambiente fittizio,

dove WALK-MAN è stato in grado di muoversi

ed eseguire quattro compiti specifici: aprire e

attraversare una porta per entrare nella zona;

localizzare una valvola di tipo industriale e

chiuderla, così da simulare l'interruzione della

perdita di gas; rimuovere gli ostacoli sul suo

percorso; e infine identificare la posizione

delle fiamme e attivare l'estintore.
 
Durante l'operazione WALK-MAN è stato

controllato a distanza da un operatore umano

tramite un'interfaccia virtuale e una tuta sensorizzata,

vestita dall'operatore, che consente di

azionare il robot in modo naturale, controllandone

la manipolazione e la locomozione, come un avatar.

L'operatore riceve in modo continuo immagini e

informazioni dai sistemi di percezione del robot.
 
La nuova versione di WALK-MAN presenta la

parte superiore del corpo (busto e braccia) più

leggera, la cui realizzazione ha richiesto 6 mesi,

coinvolgendo una squadra di circa 10 ricercatori

coordinata da Nikolaos Tsagarakis, ricercatore

presso IIT e coordinatore del progetto.
 
Il nuovo robot WALK-MAN è un robot umanoide

alto 1,85 metri, realizzato in metallo leggero,

come ergal (60%), leghe di magnesio (25%) e

titanio, ferro e plastica. I ricercatori hanno ridotto

il suo peso di 31 chili - dai 133 chili originari, a

102 chili - per rendere il robot più dinamico.

Le gambe possono muoversi più velocemente

avendo una massa superiore del corpo più

leggera da trasportare. Inoltre, il robot riesce

a reagire più velocemente a spinte esterne,

realizzando dei passi laterali per mantenere

l'equilibrio; una caratteristica che gli permette

di adattare il proprio passo a terreni accidentati

o a situazioni in cui l'interazione con l'ambiente

è variabile.

L'alleggerimento del busto ha permesso di

ridurre anche il suo consumo di energia,

utilizzando così  una batteria da 1 kWh per

operare circa due ore.
 
I nuovi busto e braccia sono realizzati in leghe

di magnesio e altri compositi, e presentano una

nuova versione di attuatori che hanno ottimizzato

le prestazioni: la capacità di carico è più elevata

(10 kg/braccio) rispetto alla prima versione

(7 kg/braccio), e può trasportare e sostenere

oggetti pesanti per un periodo di 10 minuti.

La nuova parte di corpo ha anche dimensioni

più compatte: la larghezza delle spalle è di 62

m e la profondità del busto è di 31 cm, conferendo

al robot un profilo più adeguato per passare

attraverso le porte e i passaggi stretti.
 
Le mani sono una nuova versione delle mani

robotiche Soft-Hand sviluppate dal Centro

Ricerche E. Piaggio dell'Università di Pisa

(gruppo del Prof. A. Bicchi) in collaborazione

con IIT. Le dita sono state costruite con un

nuovo materiale composito leggero, e hanno

un migliore rapporto dita-palmo (più simile a

quello umano) che aumenta la varietà di forme

degli oggetti che il robot può afferrare.
 
L'intero corpo di WALK-MAN è controllato da

32 motori e schede di controllo, 4 sensori di

forza e coppia (2 ai piedi e 2 alle mani) e 2

accelerometri per il controllo del suo equilibrio.

Le sue articolazioni mostrano un movimento

elastico che consente al robot di essere

"morbido" nelle sue azioni e di avere interazioni

sicure con l'uomo e l'ambiente.

La sua architettura software è basata su

framework XBotCore, piattaforma YARP, ROS e

Gazebo.

Nella testa sono presenti telecamere, scanner

laser 3D e microfoni, e nel futuro potranno

essere aggiunti sensori per riconoscere la

presenza di sostanze tossiche.
Il progetto WALK-MAN ha coinvolto un consorzio

di istituti di ricerca composto da: l'Istituto Italiano

di Tecnologia (IIT) e il Centro Ricerche E. Piaggio

dell'Università di Pisa in Italia, l'École Polytechniq

ue Fédérale di Losanna (EPFL) in

Svizzera, il Karlsruhe Institute of Technology

(KIT) in Germania e l'Université catholique de

Louvain (UCL) in Belgio.

 
 
 

Nervi artificiali per imitare il senso del tatto

Post n°2197 pubblicato il 23 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

05 giugno 2018

Un esperimento è riuscito a produrre un

movimento riflesso in una zampa di blatta

in risposta a input sensoriali di diversa entità.

Per gli autori, potrebbe trattarsi di un primo

passo verso una pelle artificiale sensibile che

potrà essere integrata in futuro su arti protesici

per gli esseri umani(red)

roboticaneuroscienze

Per ora è in grado di restituire la sensibilità al

tatto alla zampa di una blatta.

Oppure, in un'applicazione del tutto diversa, l

eggere la scrittura Braille per non vedenti e

ipovedenti.

Ma in futuro, il sistema sensoriale artificiale 

descritto su "Science" potrebbe costituire la

base per realizzare pelle artificiale per arti

protesici per gli esseri umani, almeno secondo

le previsioni degli autori. 

Nervi artificiali per imitare il senso del tatto

Schema del nervo artificiale: il sensore tattile rileva

la pressione (freccia verde in alto a destra), il segnale

che viene così prodotto percorre il nervo

(nastro azzurro in diagonale) arriva al transistor

sintetico (cerchio punteggiato di rosso a sinistra).

Da qui il segnale è convertito in una tensione

elettrica che fa muovere la zampa della blatta

(destra). (Credit: Yeongin Kim/Stanford University;

Alex Chortos/Stanford University; Wentao Xu,

Seoul National University; Zhenan Bao, Stanford

University; Tae-Woo Lee/Seoul National University)

Lo studio s'inserisce nell'ambito di ricerca sui robot

che integrano apparati e funzionalità che sono 

tipici degli esseri viventi.

E il primo passo per ogni nuova realizzazione è

spesso l'imitazione di quello che si trova in natura.

Da alcuni anni, il gruppo di Zhenan Bao della Stanford

University studia la pelle per capire come si possa

riprodurre artificialmente la sua capacità di allungarsi,

riparare se stessa e infine agire come una rete

sensoriale intelligente che non solo sa come

trasmettere sensazioni piacevoli al cervello, ma

 sa anche quando ordinare ai muscoli di reagire

di riflesso e in modo tempestivo.

"La pelle è un organo che diamo per scontato:

si tratta invece di un sistema complesso di

rilevamento, segnalazione e decisione", ha

spiegato Bao.

"Questo sistema nervoso sensoriale artificiale è

un passo in avanti verso la creazione di reti neurali

sensoriali simili alla pelle per ogni tipo di applicazione."

Il nuovo dispositivo è composto essenzialmente

da tre parti.

La prima è un sensore tattile in grado di rilevare

una forza anche minuscola.

Una volta catturato questo input dal mondo esterno,

il suo compito è inviare un segnale attraverso il

secondo componente, un neurone elettronico

flessibile, verso il terzo componente, un transistor

sinaptico artificiale modellato sulle sinapsi del sistema

nervoso umano, ovvero i punti di contatto tra le

cellule nervose. 

Nervi artificiali per imitare il senso del tatto

Il nervo artificiale integrato nella blatta dello studio.

(Credit: Yeongin Kim/Stanford University; Alex

Chortos/Stanford University; Wentao Xu, Seoul

National University; Zhenan Bao, Stanford University;

Tae-Woo Lee/Seoul National University)Mentre il

sensore tattile e il neurone elettronico sono versioni

migliorate di dispositivi sviluppati in precedenza nel

laboratorio di Bao, il transistor sinaptico è una

novità assoluta, nata da un'idea di Lee Tae-Woo

della Seoul National University.

"Le sinapsi biologiche possono trasmettere segnali

e anche memorizzare le informazioni per prendere

decisioni semplici", ha sottolineato Tae-Woo.

"Il transistor sinaptico svolge queste funzioni nel

circuito formato dal nervo artificiale".

Nel corso della ricerca descritta su "Science", l

'obiettivo era dimostrare la capacità di questo

dispositivo di generare un tatto sensibile e con ciò

un movimento riflesso in risposta a questo input

sensoriale.

Gli autori hanno quindi collegato il loro nervo artificiale

a una zampa di blatta e hanno applicato piccoli

incrementi di pressione al sensore tattile. Il neurone

elettronico ha convertito il segnale del sensore in

segnali digitali e li ha trasmessi attraverso il transistor

sinaptico, causando una contrazione della zampa più

o meno vigorosa quando la pressione sul sensore

tattile aumentava o diminuiva.

Gli autori hanno anche dimostrato che il nervo

artificiale poteva rilevare diverse sensazioni tattili.

In un secondo esperimento, il nervo artificiale è

stato in grado di riconoscere alcune lettere Braille.

In un altro, infine, gli autori hanno fatto rotolare

un cilindro sul sensore in diverse direzioni e hanno

rilevato con precisione la direzione del movimento.

 
 
 

Federico II, Napoli: Modelli neuro-robotici della paura.

Post n°2196 pubblicato il 23 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

20 dicembre 2017

NAC - Federico II, Napoli: Modelli neuro-robotici della paura.

La gestione del rischio tra evoluzione e sistemi artificiali

Comunicato stampa -

Pubblicato su PLOS ONE uno studio di un team di psicologi

del NAC della Federico II di Napoli che ha sviluppato un

modello neurale computazionale in grado di osservare l'evoluzione

di diverse strategie di gestione del rischio attraverso generazioni

di popolazioni di robot

roboticapsicologia

"Essere freddo come un robot" potrebbe presto diventare un luogo

comune superato dai fatti. Anche i robot possono provare sentimenti e,

quindi, diventare più intelligenti.

Riuscire a instillare emozioni in sistemi di intelligenza artificiale non

serve infatti solo a renderli più "umani", serve innanzitutto a renderli

più efficienti.

La psicologia evoluzionistica ha dimostrato da tempo la stretta

correlazione tra processi neuro-cognitivi e gli stati emotivi, segnalando

in particolare come i sentimenti più profondi, come per esempio

rabbia o paura, svolgano un ruolo fondamentale nelle scelte e nelle

decisioni degli individui, salvaguardandoli da situazioni di pericolo

e aumentandone così le possibilità di sopravvivenza.

La paura segnala una situazione di rischio e "addestra" alle condizioni

di emergenza.
    
Un team di ricercatori del Natural and Artificial Cognition(Nac)

Laboratory del Dipartimento di Studi Umanistici della Federico II

di Napoli e del Centre for Robotics and Neural Systems (Crns)

dell'Università di Plymouth (UK) ha sviluppato un modello neurale

computazionale in grado di osservare come emergono diverse

strategie di gestione del rischio attraverso generazioni di

popolazioni di robot.

Il modello è stato descritto nello studio "Basic emotions and

adaptation.

A computational and evolutionary model" in corso di pubblicazione

sulla rivista PLOS ONE (qui il link) a firma di Daniela Pacella ,

Michela Ponticorvo, Onofrio Gigliotta e Orazio Miglino.

"Nonostante numerosi modelli abbiano provato a incorporare

emozioni di base nel comportamento di robot e agenti intelligenti

- spiega Orazio Miglino, direttore del Nac e ordinario di Psicologia

evolutiva alla Federico II - in pochi hanno approcciato il problema

da un punto di vista evolutivo.

Questo lavoro rappresenta un modello neurale computazionale 

ispirato alla biologia umana e animale di come la gestione del rischio

può emergere dall'apprendimento attraverso l'evoluzione, e di come

ciò influisca in particolare sulla fitness in robot simulati controllati

da una rete neurale evoluta con algoritmi genetici.

I robot sono evoluti e testati in ambienti con livelli diversi di pericolo

e le loro performance sono analizzate e comparate".

I risultati della ricerca vanno in due direzioni.

Innanzitutto, un agente artificiale in grado di gestire adeguatamente

il rischio può essere di supporto all'uomo in situazioni improvvise

di pericolo o ansiogene, può essere di aiuto nel prendere delle

decisioni in situazioni quotidiane di incertezza, come quando

guidiamo, quando attraversiamo la strada, quando scegliamo un

percorso o abbiamo necessità di acquistare un articolo.

Accanto all'utilità pratica c'è tuttavia un altro risvolto.

Una rete neurale artificiale in grado di isolare i circuiti emotivi dalle

altre funzioni cognitive potrà dare informazioni importanti e chiare

su quali aree del cervello sono implicate nella genesi della paura, e

potrà quindi guidare i ricercatori nei prossimi studi da applicare

all'uomo.

La paura come indispensabile strumento di sopravvivenza

Le teorie evoluzionistiche hanno mostrato come le emozioni di base,

come la paura, siano manifestazioni per lo più innate, prive di

mediazione cognitiva e modellate nel corso di generazioni dalla

selezione naturale.

"E' proprio la semplicità e l'immediatezza di queste risposte -

mette in evidenza Daniela Pacella,  research fellow all'Università

di Plymouth e ricercatrice del Nac -  che ne determina l'efficacia,

e di conseguenza aumenta le probabilità di sopravvivenza di un

organismo o individuo in situazioni di rischio o pericolo.

Grazie alle reti neurali artificiali e agli algoritmi genetici siamo

in grado di riprodurre ed evolvere questi comportamenti anche

nei robot, studiando il modo in cui emergono e si consolidano".

Laddove la capacità di gestione del rischio non sia funzionale

possono emergere comportamenti disorganizzati, per esempio

stati di ansia, di shock o disturbo post-traumatico da stress.

Osservare l'evoluzione della paura
Nel processo di elaborazione del modello neurale, i ricercatori

partenopei sono partiti da una semplice considerazione: in natura

i predatori sono un rischio variabile ma sempre presente per ogni

organismo vivente, specialmente durante l'esplorazione del territorio

alla ricerca di cibo. Come fanno gli animali a imparare a gestire questo

rischio in maniera efficace e a fare le giuste decisioni in situazioni di

stress? Grazie al modello neurale diventa ora possibile osservare come

evolve la capacità di gestione del rischio attraverso generazioni di

popolazioni di robot, proprio come è accaduto in passato nelle specie

umane e animali.
Acquisire nuove conoscenze sulla genesi ed evoluzione delle emozioni

serve a fornire contributi fondamentali alla conoscenza dei meccanismi

di apprendimento sia umani sia artificiali. "Le emozioni - conclude la

ricercatrice -  sono fortemente connesse alla memoria, alle decisioni,

alla motivazione, alla sopravvivenza. Se vogliamo che i nostri cervelli

artificiali diventino sempre più umani, integrare i circuiti delle emozioni

diventa non solo fondamentale ma imprescindibile".

 
 
 

La conquista della terraferma a colpi di coda

Post n°2195 pubblicato il 23 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

12 luglio 2016

La conquista della terraferma a colpi di coda

Quando i primi vertebrati sono usciti dalle

acque, la coda potrebbe avere avuto un

ruolo determinante nel permettere gli

postamenti sulla terraferma.

E' questo lo scenario emerso da una ricerca

che ha coniugato osservazioni naturalistiche,

ricostruzioni robotiche e modelli matematici.(red)

La conquista della terraferma da parte degli

animali acquatici - avvenuta fra i 385 e i 360

milioni di anni fa - sarebbe avvenuta a colpi di coda.

E' questa la conclusione a cui sono giunti gli

autori di un articolo pubblicato su "Science" 

che illustra una ricerca multidiscipliare che ha

coinvolto biologi, paleontologi, esperti di robotica

e matematici del Georgia Institute of Technology,

della Carnegie Mellon University e dell'Università

del Tennessee a Knoxville.

La conquista della terraferma a colpi di coda

Alcuni esemplari di pesce perioftalmo su un tratto di spiaggia.

Benjamin McInroe e colleghi hanno iniziato la loro

ricerca studiando il movimento del moderno

perioftalmo altlantico (Periophthalmus barbarus),

uno dei pochi organismi viventi la cui struttura

corporea è considerata simile a quella dei primi

vertebrati terrestri.

Questo pesce a volte esce dall'acqua per

spostarsi sul terreno, in parte con l'aiuto delle

pinne e in parte con piccoli balzi compiuti facendo

leva sulla coda.

I ricercatori hanno scoperto che quando il terreno

è in piano la coda dà un contributo minimo allo

spostamento, ed è usata soprattutto negli

spostamenti laterali.

Ma se la pendenza aumenta, come di solito

avviene lungo gli argini, il vantaggio dell'uso

della coda aumenta notevolmente: con una

pendenza di 10° la coda è coinvolta in un terzo

circa di tutti i "passi", mentre per pendenze

prossime ai 20° è usata in metà degli spostamenti.

Sulla base di queste osservazioni i ricercatori

hanno poi costruito "MuddyBot", un robot che

è una versione semplificata di Periophthalmus

nella quale però potevano varia

 
 
 

Il mistero delle origini

Post n°2194 pubblicato il 23 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

 

LE SCIENZEIl mistero delle origini 

Il rover cinese rivela le profondità

nascoste della Luna

Il rover cinese rivela le profondità nascoste della Luna

La missione Chang'e-4 sembra

aver scoperto del materiale

proveniente da un oceano di

magma congelato che si trova

molto al di sotto della superficie

lunare.

Ma solo future missioni in grado

di portare a terra dei campioni

potranno confermare la scopertadi

Jonathan O'Callaghan/Scientific American

planetologiaspazio

Negli anni sessanta e settanta, Stati

Uniti e Unione Sovietica condussero

programmi di esplorazione lunare

senza precedenti ancora senza eguali.

Gli allunaggi delle missioni Apollo furono

completati da sbarchi sovietici senza

equipaggio, ed entrambi hanno dati

contributi rivoluzionari dal punto di vista

scientifico, come le centinaia di chilogrammi

di roccia e suolo lunari che le missioni

hanno riportato sulla Terra.

Stranamente, però, a mancare tra tutti quei

campioni era del materiale che provenisse

indiscutibilmente dal mantello roccioso della Luna.

Trovandosi appena al di sotto della crosta

desolata e craterizzata, si pensa che il

mantello superiore della Luna sia il residuo

congelato di un vasto oceano di magma che

esisteva più di 4 miliardi di anni fa.

Studiare direttamente campioni del mantello

potrebbe svelare aspetti nascosti della storia

lunare, rimodellando forse la nostra comprensione

complessiva della formazione e dell'evoluzione

planetaria.

Ora, una missione cinese ha scoperto segni di

materiale del mantello sulla superficie della Luna,

ponendo di fatto una "X" sulle mappe lunari per

futuri esploratori alla ricerca di questo tesoro

geologico non così tanto sepolto.

Il rover cinese rivela le profondità nascoste della Luna

Chang'e-4 sulla superficie lunare

(Xinhua/China National Space Administration)

La missione Chang'e-4 cinese è arrivata vicino

al polo sud sul lato nascosto della Luna il 3

gennaio 2019, diventando la prima navicella

spaziale a scendere in questa regione in gran

parte inesplorata del satellite.

Composta da un lander e un rover, la missione

è ancora attiva, con il rover, chiamato Yutu-2,

che continua il suo percorso sulla superficie.

A bordo ci sono diversi strumenti e gli scienziati

dell'Accademia delle scienze cinese di Pechino

riportano su "Nature" i primi risultati scientifici

della missione, suggerendo che il materiale

del mantello lunare è stato finalmente localiz-

zato.

"Abbiamo scoperto che il materiale del sito

di allunaggio di Chang'e-4 è composto

principalmente da olivina e pirosseno a basso

contenuto di calcio", afferma Dawei Liu, uno

dei coautori dell'articolo.

"Questa combinazione di minerali è candidata

come materiale derivato dal mantello".

Chang'e-4 si trova all'interno del bacino di

South Pole-Aitken (SPA) che, con i suoi 2500

chilometri di diametro, è uno dei più antichi e

più grandi crateri d'impatto del sistema solare.

Nello specifico, la missione è atterrata nel

cratere Von Kármán, che ha un diametro di

186 chilometri, all'interno del bacino più

grande.

Il cratere Von Kármán è stato prodotto

miliardi di anni fa dall'impatto di una grande

cometa o di un asteroide; queste collisioni

possono far emergere dalle profondità del

sottosuolo del materiale del mantello, che si

disperde poi sulla superficie per effetto di

impatti successivi.

"Questi risultati sembrano rivelare che i

materiali del mantello lunare potrebbero

essere effettivamente esposti sulla superficie

della Luna", afferma Patrick Pinet, del Centro

nazionale francese per la ricerca scientifica

(CNRS) di Parigi, che ha scritto un articolo

di commento sui risultati.

Il rover cinese rivela le profondità nascoste della Luna

II cratere Von Kármán, dov'è avvenuto

l'atterraggio di Chang'e-4 materiale del

mantello è stato scoperto utilizzando lo

spettrometro Visible e Near Infrared montato

su Yutu-2, che può determinare la composizione

chimica delle rocce studiandone la luce riflessa.

Si ritiene che l'olivina e il pirosseno siano tra i

primi minerali che si sono congelati dal magma

oceanico della Luna in via di raffreddamento,

cadendo verso la sua solida base più in

profondità nel mantello.

Poiché precedenti osservazioni dall'orbita

hanno rivelato che gran parte del suolo del

cratere Von Kármán è composto da lava

proveniente da eruzioni vulcaniche anziché

dal mantello dissepolto, gli autori dell'articolo

sospettano che il materiale rilevato da Yutu-2

sia stato proiettato all'interno del cratere dal

mantello superiore che si trova sotto un altra

struttura da impatto vicina, il cratere di Finsen,

largo 72 chilometri.

Ci sono però alcune precisazioni da fare.

Non tutti sono convinti che Yutu-2 abbia

individuato definitivamente il materiale

proveniente dal mantello lunare.

Mark Wieczorek, dell'Osservatorio della Costa

Azzurra a Nizza, osserva che lo stesso colossale

impatto da cui è nato il bacino di South Pole-Aitken

avrebbe potuto portare alla formazione di

materiale che, per quanto simile a quello del

mantello, sarebbe stato piuttosto diverso dal

vero mantello della Luna.

E le previsioni avevano suggerito che dalla

cristallizzazione dell'oceano di magma sarebbe

derivata una composizione diversa - forse un

segno di diversità inaspettata nella composizione

del mantello lunare, se non un indizio del fatto

che Yutu-2 non ha visto alcun materiale del mantello.

"Anche se i dati di Chang'e-4 sono entusiasmanti,

la vera origine di quelle rocce probabilmente sarà

determinata solo raccogliendo nuovi campioni in

questo bacino e riportandoli sulla Terra", dice.

Se fosse confermata, questa prima rilevazione

del materiale del mantello sulla superficie lunare

consentirebbe di gettare un nuovo sguardo sulla

struttura della Luna.

Il rover cinese rivela le profondità nascoste della Luna

Schema della struttura interna della Luna

dell'Università del Rhode Island, nota che,

sui 1737 chilometri del raggio lunare, circa

300 formano un nucleo metallico denso al

suo centro e 40  comprendono la crosta.

"Quindi, i rimanenti 1397 chilometri sono

il mantello, che è enorme!" dice, con i dati

sismici delle indagini dell'era Apollo che

forniscono la maggior parte di quella conoscenza

preliminare. "Quindi, capire di che cosa è fatto

il mantello è collocare un enorme tasselo del

puzzle che svela la struttura e la composizione

interna della Luna".

Risultati come questi sono un vantaggio anche

per il programma di esplorazione lunare della

Cina, aiutando a giustificarne i costi e rafforzando

le argomentazioni a favore di missioni future,

comprese le incursioni di un equipaggio sulla

superficie, dice Andrew Jones, un giornalista che

segue il programma spaziale cinese.

"La presunta scoperta di materiale derivato dal

mantello lunare e la missione nel suo insieme

dimostrano che il paese può pianificare ed

eseguire missioni scientifiche all'avanguardia e

portare nuovi contributi in termini di conoscenza",

dice.

"Stiamo iniziando a vedere i primi risultati scientifici".

Yutu-2 continua a funzionare nominalmente in

superficie, dove percorso quasi 200 metri, e

potrebbe sopravvivere per molti mesi a venire.

Verso la fine del 2019, la Cina spera  di lanciare

anche un'altra missione sulla Luna, chiamata

Chang'e-5, che sarà la prima del paese dedicata

alla campionatura della superficie lunare.

Purtroppo, quella missione è diretta sul lato

visibile del satellite, lontano da Von Kármán

e dalla notevole potenziale scoperta di Yutu-2.

L'esplorazione del profondo interno della Luna

- e del suo passato più remoto - per ora

dovrà aspettare.

(L'originale di questo articolo è stato pubblicato

su "Scientific American" il 15 maggio 2019.

Traduzione ed editing a cura di Le Scienze.

Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)

 
 
 

Il microrobot biologico che si muove come una razza

Post n°2193 pubblicato il 23 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

08 luglio 2016

messo a punto da un gruppo di ricerca

della Harvard University imitando la forma

dell'elegante animale marino, il prototipo

può muoversi grazie a una serie di cellule

cardiache di topo ingegnerizzate in modo

da rispondere agli stimoli luminosi impartiti

dagli sperimentatori(red)

Razze, torpedini e mante sono animali

marini dotati di un modo di nuotare più

simile al battito d'ali verticale degli uccelli

che al pinneggiamento in senso laterale

dei pesci.

Ma oltre a essere molto elegante, questo

è anche un modo molto efficiente di

muoversi in un liquido.

Proprio per questo Kevin Kit Parker della

Harvard University a Cambridge, nel

Massachusetts, e colleghi di una collaborazione

internazionale si sono ispirati a questi

animali, e in particolare alla razza, per

progettare un robot miniaturizzato, 

descritto su "Science", che è mosso e

guidato da cellule cardiache di topo

ingegnerizzate in modo da essere sensibili

alla luce.

Il microrobot biologico che si muove come una razza

Una suggestiva immagine del nuovo microrobot

Il mondo della robotica non è nuovo a questo

tipo di realizzazioni.

La natura è infatti una grande fonte d'ispirazione

sia per la morfologia dei dispositivi sia per il loro

movimento, plasmati da milioni di anni di evoluzione

della vita.

Negli anni passati sono così stati progettati e

costruiti diversi prototipi che riproducono fattezze

e moto di insetti, pesci, serpenti e salamandre.

I progressi sono stati evidenti, con il passaggio

dalle strutture rigide a quelle sempre più soffici

basate sui più recenti risultati della scienza dei

materiali: polimeri elettroattivi, in grado cioè di

reagire a stimoli elettrici, leghe a memoria di

forma, nonché biosensori e bioattuatori, cioè

materiali di derivazione biologica in grado di

percepire e trasformare in comandi di movimento

diversi tipi di input fisici.

Il nuovo dispositivo di Parker e colleghi, lungo

16 millimetri e del peso di 10 grammi, è costituito

essenzialmente da uno scheletro di oro

elettricamente neutro che riproduce la forma

della razza della specie Leucoraja erinacea,

ricoperto da un sottile strato di polimero

soffice ed estensibile.

Sulla parte superiore, gli autori hanno posto

una serie di circa 200.000 cardiomiociti, le

cellule del tessuto muscolare cardiaco, di

topo.

Quando sono stimolati, i cardiomiociti si

contraggono, muovendo le pinne verso

il basso.

Riportare le pinne verso l'alto avrebbe

richiesto in teoria un'altra schiera di cardiomiociti,

disposti in modo da essere antagonisti ai primi.

Invece gli autori hanno scelto una soluzione

diversa, dotando lo scheletro di oro di una

certa elasticità, che permette di accumulare

una quantità di energia durante il moto verso

il basso.

Questa energia viene poi riconvertita nel moto

delle pinne verso l'alto quando i cardiomiociti

si rilassano.

Il microrobot biologico che si muove come una razza

Il microrobot a forma di razza
e una razza della specie Leucoraja erinacea
Uno degli aspetti più interessanti della micro-razza
robotizzata è il fatto che i cardiomiociti sono stati
ingegnerizzati per rispondere agli impulsi di luce;
ciò permette ai ricercatori di controllare il movimento
del dispositivo: impulsi asimmetrici consentono di
svoltare a destra e a sinistra, mentre variando la
frequenza degli impulsi è possibile regolare la sua
velocità.

In una serie di test, il prototipo ha dimostrato di

potersi muovere agilmente e in modo controllato

lungo un percorso a ostacoli.

 
 
 

La straordinaria difesa dell'anguilla elettrica

Post n°2192 pubblicato il 23 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

 

07 giugno 2016

Quando si sentono minacciate da un

predatore solo parzialmente immerso,

le anguille elettriche emergono dall'acqua,

premono l'organo elettrico contro il bersaglio

e liberano una scossa capace di stordire

animali di grossa taglia.

Una ricerca conferma il racconto, finora

ritenuto di fantasia, fatto dal naturalista

Alexander von Humbolt più di

L'eccezionale capacità di difesa delle

anguille elettriche (Electrophorus electricus ),

note anche come elettrofori, è stata dimostrata

da Kenneth C. Catania della Vanderbilt

University a Nashville, che in un articolo

pubblicato sui "Proceedings of the National

Academy of Sciences"conferma la veridicità

di quanto riferì agli inizi del XIX secolo il

grande naturalista ed esploratore Alexander

von Humboldt .
Illustrazione d'epoca del resoconto di Alexander

von Humbo.

Di ritorno dalla sua spedizione in Sud America, 

nel 1807 Humboldt riferì sugli "Annalen der Physik" 

che gli era capitato di assistere a una battuta

di pesca alle anguille di alcuni abitanti della

regione fra l'Orinoco e i suoi affluenti Meta e

Apuré.

I pescatori, che montavano 30 cavalli,

cercavano di catturare le anguille elettriche

rimaste isolate in alcune pozze d'acqua.

Invece di tentare la fuga, le anguille iniziarono

a saltare fuori dall'acqua e ad attaccare i cavalli

per colpirli con le loro scosse.

Le anguille riuscirono a far annegare due

cavalli, e stordirne a lungo diversi altri.

Tuttavia, poiché mancavano dimostrazioni

scientifiche di questo comportamento e di

una simile potenza di scarica, per oltre 200

anni fu dato poco peso alla relazione del

naturalista.

Imbattutosi nel racconto, Catania, incuriosito,

ha iniziato a  studiare il comportamento

delle anguille elettriche, scoprendo dapprima

che questi animali ignorano la maggior parte

degli oggetti che non conducono l'elettricità,

il che - osserva il ricercatore - ha un senso,

perché le cose viventi in genere conducono

l'elettricità. 

Per contro, si avvicinano e aggrediscono i

materiali molto conduttori anche se inerti,

per esempio una rete metallica, scambiandoli

per prede.

Durante lo studio, mentre Catania cercava

di spostare con un'asta le anguille dalla

vasca dell'acquario dove sono solitamente

ospitate in quella usata per gli esperimenti,

una di esse saltò addosso all'attrezzo liberando

una scossa particolarmente forte.

Negli esperimenti successivi, il ricercatore ha

scoperto che quando l'anguilla è completamente

sommersa, la potenza dei suoi impulsi elettrici

si disperde in tutta la massa d'acqua e non

può arrecare danni sensibili ad animali di

una certa stazza.

Ma quando il corpo dell'anguilla si estende

fuori dall'acqua, e l'organo di produzione della

scarica (situato all'alteza del mento)  è a

diretto contatto con il bersaglio, la corrente

elettrica passa  viaggia attraverso di esso per

tornare in acqua e arrivare alla coda dell'anguilla,

chiudendo il circuito e provocando effetti molto

più significativi.

"Questo permette alle anguille di somministrare

una scossa della massima potenza quando degli

animali terrestri invadono il loro territorio

rimanendo parzialmente immersi", ha detto

Catania.

La straordinaria difesa dell'anguilla elettrica

Schema dell'esperimento.

L'anguilla elettrica dall'acqua, aderisce con

l'organo elettrico al predatore e libera una

potente scarica elettrica.

Inoltre, con questo comportamento le

anguille elettriche che allevano i piccoli

durante la stagione secca riescono a

difendere con efficacia la loro prole.

Per quanto riguarda von Humboldt,

"sembra ragionevole supporre che abbia

osservato un comportamento simile delle

anguille  elettriche il 19 marzo del 1800",

ha detto Catania.

 
 
 

Incontro ravvicinato con un fossile del Sistema Solare

Post n°2191 pubblicato il 23 Maggio 2019 da blogtecaolivelli


Incontro ravvicinato con un fossile del Sistema SolareLa sonda New Horizon e Ultima Thule

Redazione ANSA  17 maggio 201909:47

Rappresentazione artistica dell'Ultima Thule (fonte: NASA) © AnsaFOTORappresentazione artistica dell'Ultima Thule (fonte: NASA) © ANSA/Ansa

Incontro ravvicinato della sonda New Horizons della

Nasa con un fossile del Sistema Solare. Si trova nella

fascia di Kuiper, ai confini del nostro sistema planetario,

a circa 6,4 miliardi di chilometri dalla Terra, ed è rimasto

incontaminato da almeno 4,5 miliardi di anni. I dettagli

di questo incontro sono illustrati nello studio pubblicato

sulla rivista Science.

L'inquilino del Sistema Solare visitato dalla sonda New

Horizons è 2014 MU69 Ultima Thule, il corpo celeste

più lontano mai esplorato dall'uomo. L'incontro è avvenuto

il giorno di Capodanno del 2019, ma i risultati di queste

osservazioni ravvicinate sono stati pubblicati solo oggi.

I dati mostrano un oggetto con un'orbita piuttosto stabile,

lungo circa 32 chilometri e largo 16, con due lobi e appiattito.

Come la cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko della missione

Rosetta. L'ipotesi degli esperti della Nasa è che Ultima

Thule sia nato dalla collisione tra due piccoli corpi celesti

avvenuta nelle prime fasi di formazione del Sistema Solare.

Attorno a questo fossile cosmico non sono stati osservati

oggetti come lune, anelli o nuvole di polveri.

"Lo studio di corpi celesti come Ultima Thule è importante

perché conservano indizi sulle origini del Sistema Solare", ha

spiegato all'ANSA Andrea Longobardo, dell'Istituto di

Astrofisica e Planetologia Spaziali (Iaps) di Roma dell'Istituto

Nazionale di Astrofisica (Inaf).

"Trattandosi di corpi lontani, infatti, sono ancora piuttosto

incontaminati: è come se vedessimo i mattoni crudi di un

futuro edificio", ha chiarito l'esperto dell'Inaf.

Dopo avere visitato Plutone nel 2015 restituendoci le prime

immagini ravvicinate del pianeta nano, la sonda della Nasa ha

proseguito il suo viaggio raggiungendo la fascia di Kuiper,

una cintura popolata da piccoli corpi di ghiaccio che si trova

oltre l'orbita di Nettuno.

"I dati pubblicati oggi - ha concluso Longobardo - sono il

10% di quelli raccolti dalla sonda Nasa su Ultima Thule,

che in futuro continuerà quindi a riservarci sorprese"

 
 
 

Dalle chiocciole il segreto della simmetri

Post n°2190 pubblicato il 23 Maggio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte Le Scienze

Modificate con il taglia-incolla del Dna

Grazie alla Crispr possibile cambiare orientamento al guscio delle lumache da destra a sinistra. (fonte: Dr Hiromi Takahashi of the Kuroda laboratory) © AnsaFOTOGrazie alla Crispr possibile cambiare orientamento

al guscio delle lumache da destra a sinistra. (fonte: Dr Hiromi

Takahashi of the Kuroda laboratory) © ANSA/

Piccole lumache con il guscio orientato in senso opposto

a quello naturale sono state ottenute con la tecnica del taglia

-incolla il Dna, la Crispr. È quanto emerge dallo studio

pubblicato sulla rivista Development dal gruppo dell'Università

di Tokyo coordinato da Masanori Abe e Reiko Kuroda.

Secondo gli autori dello studio, si tratta di uno strumento

concreto per esplorare le regole della simmetria della natura.

I biologi giapponesi hanno applicato la tecnica della Crispr,

scoperta nei batteri come strumento di difesa dall'infezione

dei virus, per disattivare il gene Lsdia1 della lumaca d'acqua

dolce Lymnaea stagnalis.

Hanno, così, dimostrato che basta inattivare un singolo gene

per ottenere piccole chiocciole con il guscio orientato a

sinistra anziché a destra.

"Ci ha sorpreso molto - ha spiegato Kuroda - osservare

che queste lumache con il guscio orientato in senso opposto

non solo erano in salute e fertili, ma l'alterazione del loro

guscio si trasmetteva di generazione in generazione.

Attualmente - ha rilevato - siamo alla quinta.

Non è ancora chiaro come il singolo gene Lsdia1 regoli

la costruzione e l'orientamento del guscio, ma lo studio

- ha concluso Kuroda - potrà aiutarci a capire l'evoluzione

di queste piccole lumache e, in generale, della simmetria

nel regno animale".

Messa a punto nel 2013 da due donne, Jennifer Doudna,

dell'Università di Berkely, ed Emmanuelle Charpentier,

dell'Università di San Francisco, la Crispr-Cas9 (Clustered

Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats) è uno

strumento che consente di tagliare il Dna in punti specifici,

permettendo ai ricercatori di riscrivere intere sequenze del

codice genetico.

 
 
 

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