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Messaggi del 28/05/2020
Post n°2982 pubblicato il 28 Maggio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo dell'Internet I fossili del Bletterbach per misurare lo stato di salute del Pianeta Una ricostruzione del Bletterbach 260 milioni di anni fa (tavola di Davide Bonadonna). LAURA FLORIS16 DIC 2017
La fascia equatoriale è in assoluto l'area con la maggiore biodiversità della Terra. Da sempre. A dirlo è uno studio internazionale coordinato dal MUSE - Museo delle Scienze di Trento e dal Museo di Scienze Naturali dell'Alto Adige, recentemente pubblicato sulla rivista Earth-Science Reviews. La ricerca mostra, infatti, che già nel Permiano, quindi 260 milioni di anni fa, questa zona presentava una concentrazione altissima di specie terrestri. Certo, l'ambiente era molto diverso dalle attuali foreste pluviali ed era caratterizzato piuttosto da sterminate distese desertiche che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, erano particolarmente ricche di rettili e piante. Il team, condotto dal paleontologo Massimo Bernardi del MUSE e supportato dall'Euregio Science Fund, ha operato una comparazione su scala globale di giacimenti fossiliferi, concentrandosi in particolare sulla gola del Bletterbach, noto sito paleontologico a metà strada tra Bolzano e Trento, inserito nel più piccolo sistema delle Dolomiti UNESCO. Trentino Alto Adige (foto Christian Weber). Dalle Alpi all'Equatore Qualcuno si domanderà cosa possano avere in comune un sito alpino e una zona equatoriale. Molto se si considera che nel Permiano le Dolomiti si trovavano proprio in prossimità dell'Equatore. E la gola del Bletterbach, come spiega Evelyn Kustatscher del Museo di Scienze Naturali dell'Alto Adige - presenta un'abbondanza di specie superiore alla maggior parte dei siti della stessa età noti in tutto il mondo". Il sito italiano presenta inattesi elementi di somiglianza tra gli ecosistemi terresti di allora e quelli di oggi. «I tropici furono una fucina per la biodiversità, nel lontano Permiano così come oggi - spiega Massimo Bernardi -. Con questo studio abbiamo dimostrato l'importanza, anche nel passato, delle aree a basse latitudini sia come "culle della biodiversità", cioè luoghi di rapida evoluzione, sia come "musei della biodiversità", rifugi dove sopravvivono specie estinte altrove». La grande estinzione del Permiano I fossili ritrovati nella zona possono raccontarci moltissimo non solo del nostro passato ma anche del presente e forse anche del futuro, contribuendo anche a misurare lo stato di salute della Terra. Secondo i ricercatori, infatti, guardare al passato attraverso la documentazione fossile consente di comprendere il funzionamento naturale degli ecosistemi odierni in assenza di intervento umano. Non solo, la crisi degli ecosistemi che il nostro Pianeta sta attraversando oggi a causa dell'innalzamento delle temperature porta a pensare alla grande estinzione che si verificò proprio alla fine del Permiano, quando una fase di intenso cambiamento climatico portò ad un alto tasso di estinzione e alla decima- zione di quella grande diversità biologica. Lo studio è parte del progetto di ricerca "The end-Permian mass extinction in the Southern and Eastern Alps" sviluppato dal Museo di Scienze Naturali dell'Alto Adige, il MUSE - Museo delle Scienze di Trento e il dipartimento di geologia dell'Università di Innsbruck in collaborazione con il geoparco Bletterbach. La gola del Bletterbach Il sito patrimonio Unesco è anche un geoparco che richiama ogni anno tantis- simi appassionati di geologia. Si tratta di un libro aperto sul passato che consente di ripercorrere più di 40milioni di anni della storia del nostro Pianeta. © RIPRODUZIONE RISERVATA E CITAZIONE FONTE: RIVISTANATURA.COM |
Post n°2981 pubblicato il 28 Maggio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Autore: Armando Gariboldi che mi sono posto dopo aver osservato i vari parchi e giardini pubblici delle nostre città. Infatti, anche negli impianti più recenti, nella stragrandemaggioranza dei casi, è del tutto assente la parte arbustiva. Ci sono aiuole fiorite, prati vedi, alberi per lo più sparsi ma niente arbusti o quasi. Perché? Mi è stato risposto che è soprattutto per motivi di sicurezza (oltre che per ridurre i costi di manutenzione). Erbe alte, arbusti e alberi in gruppo o dalla chioma troppo densa, che scende al suolo, possono celare la vista e creare nascondigli. E questo favorirebbe lo svolgimento di attività illecite (in primis lo spaccio di droga) o l'appostamento di delinquenti pronti ad aggredirti. Una tradizione dura a morire La pensava così anche il re inglese Edoardo I. Già nel 1285 a Londra e nelle principali città del regno aveva imposto un editto in cui obbligava la rimozione di tutta la vegetazione (alberi e arbusti) lungo le strade pubbliche principali. Questo al fine di cercare di ridurre le numerose rapine e aggressioni che avvenivano lungo di esse. Oggi questa tradizione continua e moltissime amministrazioni delle città occidentali (Italia compresa) si impegnano quotidianamente per rimuovere o evitare che cresca un certo tipo di vegetazione perché si ritiene che nascondi e faciliti atti criminali. Il verde come antidoto Francamente queste motivazioni non mi hanno mai convinto del tutto e come me evidentemente la pensano diversi ricercatori, soprattutto statunitensi. Vari studi hanno evidenziato il contrario. Chi vive in ambienti "più verdi" (purché ben tenuti) segnala livelli più bassi di paura, meno incivilità e meno comportamenti aggressivi e violenti diffusi. Con una conseguente riduzione degli atti criminali, sia di quelli contro la proprietà (furti) che di quelli violenti (es. Kuo & Sullivan, 2001). Sono conclusioni simili a quelle degli studi sul degrado urbano (es. edifici rotti o abbandonati, strade sporche e non tenute, muri imbrat- tati, ecc.). Ovvero che il degrado "chiama" degrado. Mentre l'ordine, la pulizia e la bellezza attirano situazioni analoghe e orientano in un senso o nell'altro il comportamento delle persone. L'ex procuratore antimafia Giancarlo Caselli sottolineava esplicitamente come la bellezza (di cui un verde urbano ben tenuto fa parte) sia un vero anti- doto contro la criminalità, l'illegalità e le mafie. Occuparsi di alberi in realtà significa occuparsi anche di persone. Gli amministratori pubblici e gli urbanisti dovrebbero capire che una moderna città, soprattutto oggi in tempi di cambiamenti climatici, non è costituita solo dalle parti edificate o asfaltate, anzi. Più alberi e arbusti nella progettazione ambientale Tornando alla progettazione degli spazi verdi, esistono numerose soluzioni che permettono di realizzare parchi e giardini con la presenza anche di boschetti e di siepi senza compromettere le esigenze di sicurezza. Non tutti i tipi di vegetazione bloccano la visibilità. Un'area erbosa ben curata certamente non ostacola la vista. Gli alberi ampiamente distanziati e con chioma alta hanno un minimo effetto sulla visibilità. Siepi e arbusti di determinate essenze, sviluppo e forma possono addirittura diventare un deterrente a nascondersi (si pensi alle essenze spinose). Certi profumi e colori poi tranquillizzano e "disattivano " l'aggressività, mentre fiori e arbusti a bassa crescita è improbabile che possano fornire possibile copertura per attività criminali. In compenso un parco vario e ben tenuto richiama tante persone e fruitori durante ogni ora del giorno. E ciò innesca un processo chiamato "sorveglianza crescente". Ovvero una maggiore frequentazione di un territorio ne aumenta il controllo diffuso, che a sua volta è un fattore consolidato nel contenimento dell'attività criminali. Come anche dimostrato da uno studio del 2018 condotto da Charles Branas della Columbia University's di New York e pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences. Jane Jacobs (1961) suggeriva che la semplice presenza di più "occhi sulla strada" scoraggia il crimine. Un concetto posto in primo piano nel famoso studio USA di rigenerazione urbana "Defensible Space" di Oscar Newman (1972). Dunque la prevenzione del crimine può avvenire anche attraverso la progettazione ambientale. Che andrebbe però fatta sempre da team interdisciplinari di esperti e non solo da architetti e ingegneri. In particolare di quella degli spazi verdi urbani, che ovviamente devono anche essere ben gestiti e non abbandonati a sé stessi. Lo dimostrano molte altre ricerche ma anche esperienze concrete e recenti. Comprese alcune a noi vicine come il famoso caso del "boschetto della droga" a Rogoredo (MI). Il grande scrittore russo Fiodor Dostoiévski diceva che "la bellezza salverà il mondo". Noi non sappiamo se ciò avverrà, ma intanto essa lo rende di sicuro migliore e più vivibile. © RIPRODUZIONE RISERVATA RIPRODUZIONE CONSENTITA CON LINK A ORIGINALE E CITAZIONE FONTE: RIVISTANATURA.COM |
Post n°2980 pubblicato il 28 Maggio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Rischi post-quarantena: dove e come è più facile infettarsi. Con la riapertura di varie attività, si cerca di prepararsi a quella che l'OMS definisce "nuova normalità": ecco quali sono i rischi e dove siamo più esposti al virus. Il SARS-CoV-2 si diffonde e si trasmette principalmente per via aerea, a cavallo delle goccioline del nostro respiro. | INGO BARTUSSEK | SHUTTERSTOCK «Sembra che in molti stiano tirando un sospiro di sollievo, e non riesco a capire bene il perché...», esordisce così Erin Bromage, biologo della University of Massachusetts a Dartmouth, nell'articolo pubblicato sul suo blog dove spiega in modo chiaro quali sono i rischi dell'allentamento delle misure restrittive adottate per contenere la pandemia da CoViD-19. «Comprendo le ragioni economiche dietro la riapertura», spiega Bromage: «ma se non risolviamo l'aspetto biologico, l'economia non migliorerà.»
Secondo le stime degli esperti, affinché il contagio avvenga è necessario entrare in contatto con almeno un migliaio di particelle virali (o virioni) di SARS-CoV-2. Con questo dato (non ancora confermato sperimentalmente, ma utile per dimostrare in che modo avviene l'infezione) è possibile capire quanto il virus rilasciato nell'ambiente sia pericoloso e quali siano i luoghi dove il rischio di contagio è più alto. RESPIRARE. Un respiro rilascia tra le 50 e le 5.000 goccioline (o droplets), che viaggiano lente nell'aria e cadono al suolo rapidamente: al contrario di quanto avviene con uno starnuto o un colpo di tosse, quando vengono espulse grandi quantità di particelle virali, la carica virale che emettiamo respirando è minima. Per venire contagiati dovremmo rimanere chiusi in uno stesso, piccolo ambiente in cui si trova un soggetto infetto che non tossisce, starnutisce né parla per almeno 50 minuti. Sapendo che il contagio avviene quando si entra in contatto con un migliaio di virioni, considerato che, respirando dal naso, si emettono circa 20 virioni al minuto, basta dunque fare 1.000/20 per capire in quanto tempo può avvenire il contagio. Si tratta di una estrapolazione, naturalmente, come gli altri esempi in questa pagina: nulla è per davvero così matematica- mente certo, ma tanto basta (o dovrebbe bastare) per non fidarsi di chi dice che "la covid è ormai dietro le spalle", perché non è vero. PARLARE. Rispetto al solo respirare, parlare aumenta l'esalazione di goccioline e virioni di dieci volte: immaginando di essere esposti senza alcuna protezione, basterebbero cinque minuti per essere contagiati (perché 1000 virioni necessari al contagio / 200 virioni al minuto = 5 minuti). TOSSIRE E STARNUTIRE. Con un colpo di tosse si possono rilasciare circa 3.000 goccioline che viaggiano a 80 km/ora. La maggior parte di queste goccioline sono grandi e cadono in fretta a causa della gravità, ma altre rimangono in sospensione nell'aria e possono essere trasportate lontano. Uno starnuto, invece, rilascia circa 30.000 goccioline che percorrono molti metri a 320 km orari: è un aereosol di particelle anche molto piccole e che possono arrivare lontano. Se il soggetto è infetto può arrivare a seminare in giro, con ogni starnuto, anche 200 miliardi di particelle virali.
IL RUOLO DEGLI ASINTOMATICI. Almeno il 44% dei contagi avviene tramite soggetti asintomatici o presintomatici; è possibile diffondere il SARS-CoV-2 anche cinque giorni prima del manifestarsi dei primi sintomi. Le quantità di coronavirus rilasciate nell'ambiente cambiano durante il corso dell'infezione e variano da persona a persona. La maggiore carica virale viene rilasciata nell'ambiente poco prima dell'inizio dei sintomi: secondo i dati, il 20% degli infetti è responsabile del 99% della carica virale che potrebbe potenzialmente essere rilasciata nell'ambiente. I LUOGHI PIÙ A RISCHIO. Quello che è importante capire, ora che i nostri tragitti non saranno più casa-supermercato-casa, è dove siamo più esposti al virus. Tenendo sempre ben presente che stare in ambienti chiusi a lungo aumenta il rischio contagio, ecco quali sono i luoghi più a rischio. RISTORANTI. Con la riapertura di ristoranti e bar, dopo lo stop forzato, si impone la questione della sicurezza sanitaria in queste tipologie di locali, sicurezza reale e sicurezza percepita. Nel suo articolo Erin Bromage cita un esempio di "catena di contagi" di cui si è parlato molto anche in Italia, quando un articolo pubblicato sul sito dei CDC statunitensi denunciò come in un ristorante di Guangzhou, in Cina, un singolo asintomatico avesse contagiato ben nove persone, sedute a tavoli diversi. Il virus sarebbe stato trasportato da un tavolo all'altro a cavallo del flusso di aria condizionata: sebbene il meccanismo ipotizzato per il contagio sia stato messo in dubbio e contestato da molti esperti, anche in Italia, gli ambienti della ristorazione restano sorvegliati speciali, oggetto di misure preventive per la sicurezza che certamente impediranno a molti locali di riaprire. UFFICI. Un altro esempio viene da un call center in Corea del Sud, dove un unico soggetto affetto da CoViD-19 ha contagiato in una settimana 94 colleghi che lavoravano con lui sullo stesso piano dell'edificio. «Questo caso ci fa capire che stare in spazi chiusi, condividendo la stessa aria per un lungo periodo di tempo, aumenta la probabilità di venire esposti al virus e contrarlo», afferma Bromage. CORI. Una situazione a cui difficilmente si pensa è quella dei cori: l'esempio viene ancora una volta dagli Stati Uniti, dallo Stato di Washington, dove un coro locale è diventato il primo focolaio della Nonostante i 60 coristi abbiano osservato tutte lemisure (pulizia delle mani con disinfettanti, niente contatti, rispetto delle distanze...), non è bastato: due ore e mezza chiusi nello stesso ambiente, seppure ampio quanto un campo da pallavolo, cantando (espirando cioè a forza e a lungo), hanno fatto sì che 45 persone venissero contagiate. Erin Bromage conclude il suo post con un monito importante, che riprendiamo e facciamo nostro: fate la vostra parte: indossate la mascherina per ridurre la diffusione di goccioline nell'ambiente, ricordate sempre di lavarvi le mani e non 16 MAGGIO 2020 | CHIARA GUZZONATO |
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