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Messaggi di Aprile 2020
Post n°2852 pubblicato il 30 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
/ "Dopo epidemia saranno aggressivi"Pubblicazione: 21.04.2020 - Dario D'Angelo Con il coronavirus e i ristoranti chiusi, i topi abituati a cibarsi dei rifiuti sono costretti ad atti di cannibalismo e infanticidio: le conseguenze...topo_2018_piabayTopi diventano cannibali per il coronavirus. Dura la vita per un topo di città ai tempi del coronavirus. Abbiamo osservato, e scritto, del mondo animale che con quasi tutta l'umanità in lockdown si riappropria della natura. Ma ci sono delle eccezioni che del ritiro in quarantena degli esseri umani stanno soffrendo eccome: basti pensare a ciò che succede ai roditori fuori dai ristoranti. No, non siamo qui per raccontarvi di una storia in stile Ratatouille, non c'è nessun topino in sofferenza per il fatto di non poter cucinare per nessuno (semmai questa idea la lasciamo sviluppare alla Disney per un sequel del film d'animazione). La realtà del coronavirus parla a ben vedere di una situazione molto più drammatica nell'ambiente dei roditori, in particolare a New York, dove la chiusura dei ristoranti ha portato i ratti a veri e propri atti di cannibalismo per garantirsi la sopravvivenza. CORONAVIRUS, TOPI DIVENTANO CANNIBALI PER ASSENZA DI CIBODel fenomeno, inquietante ma da prendere in considerazione (e vedremo perché) ha parlato alla Nbc News il rodentologo Bobby Corrigan, come riporta La Stampa: "Un ristorante all'improvviso chiude, cosa che è successa a migliaia non solo a New York ma da costa a costa degli Stati Uniti e in tutto il mondo e quei ratti che vivevano vicino a quel ristorante e che per decenni dipendevano da quel locale, beh, ora "la vita" non lavora più per loro e hanno solo un paio di scelte: cannibalismo e infanticidio per sopravvivere". Tra le possibili conseguenze di questo fenomeno, come segnala Michael H. Parsons, studioso di scienze biologiche della Fordham University, vi è la possibile diminuzione della popolazione dei topi. Lo studioso, intervenuto ad Inside, ha spiegato che questo nei prossimi anni post-coronavirus potrebbe portare ad avere una popolazione di ratti più forte e aggressiva: "Gli esemplari si rivoltano l'uno contro l'altro, si stanno letteral mente uccidendo fra di loro. Non appena troveranno nuovo cibo, cosa che indiscutibilmente faranno, invece di avere topi di "basso livello" che cercano di entrare nelle nostro residenze, ne avremo di più intelligenti, più resistenti". © RIPRODUZIONE RISERVATA |
Post n°2851 pubblicato il 30 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Un pianeta terrestre nascosto in piena vista Nuove analisi sui dati raccolti dal telescopio spaziale Kepler hanno permesso di scoprire un pianeta terrestre con caratteristiche molto simili alla Terra. Il telescopio spaziale Kepler in numeri: dati aggiornati Riesaminando con nuovi metodi i dati del telescopio spaziale Kepler (NASA), in pensione dal 2018, un gruppo ricercatori ha scoperto un esopianeta di tipo terrestre in orbita nella fascia di abitabilità della sua stella, chiamata anche riccioli d'oro: quella zona alla "giusta distanza dalla stella" dove riteniamo che, su un pianeta roccioso (se c'è), l'acqua (se c'è) possa mantenersi liquida. Il nuovo esopianeta, che i primi studi non avevano rivelato, sembra avere caratteristiche sorprendenti: di tutti i pianeti trovati grazie a Kepler, questo pare il più simile alla Terra per dimensioni, massa e per la temperatura che potrebbe esserci al suolo. TUTTO A FAVORE DELLA VITA (TRANNE LA STELLA). Il pianeta Kepler-1649c, terzo del suo sistema planetario (identificato perciò con la lettera "c"), è a circa 300 anni luce da noi. In base ai dati, la sua massa è pari a 1,06 volte quella della Terra, e la quantità di luce che riceve dalla sua stella è stimata essere attorno al 75% di quella che la Terra riceve dal Sole: le temperature, in superficie, potrebbero dunque essere molto simili a quelle terrestri. I dati del telescopio non permettono invece di sapere nulla della sua atmosfera: né se c'è, né da che cosa è composta, perciò l'ipotesi della presenza di acqua non è neppure un'ipotesi, ma una speculazione basata sui pochi parametri noti, e ulteriori osservazioni non potrebbero al momento aggiungere nulla di più. Quanto alla vita, c'è un importante elemento a sfavore: la stella di quel sistema, che per adesso si chiama solamente Kepler-1649, è una nana rossa. Appartiene cioè a quella tipologia di stelle che frequentemente emettono fortissime radiazioni, che possono sterilizzare ogni forma di vita a noi nota. «Ma la scoperta di un pianeta così simile alla Terra ci fa sperare di poterne trovare altri, anche attorno a stelle stabili come il Sole: una probabilità in aumento, anche grazie al fatto che riusciamo ad analizzare sempre più in dettaglio i dati raccolti da telescopi come Kepler», afferma Thomas Zurbuchen (NASA).
IL PIÙ SIMILE. Kepler-1649c orbita attorno alla sua stella in soli 19,5 giorni terrestri (1 anno, per quel pianeta), mentre un altro pianeta di cui si conosceva l'esistenza, a circa metà strada tra la stella e "c", ha un anno più lungo: mentre "c" ruota nove volte attorno alla stella, il pianeta più interno ruota solo 4 volte - e questo, affermano i ricercatori nello studio pubblicato su Astrophysical Journal Letters - indicherebbe che si è creata una stabilità tra i pianeti di quel sistema.
Ciò che in questa scoperta ha entusiasmato la comunità degli astrobiologi è il fatto che sono noti esopianeti con dimensioni simili alla Terra, come TRAPPIST-1f e forse anche Teegarden c, e sono noti anche pianeti extrasolari con temperature superficiali vicine a quelle terrestri, come TRAPPIST-1d e TOI 700d, ma nessun pianeta aveva finora mostrato di avere entrambe le caratteristiche. «Questo rende Kepler-1649c particolarmente interessante», ha affermato Andrew Vanderburg (dip. di astronomia della University of Texas, Austin, USA), coordinatore dello studio: «se ci fossimo accontentati dei primi studi su quei dati, ce lo saremmo perso.» Del resto, alla NASA sono consapevoli dei limiti di Kepler Robovetter, il software utilizzato per filtrare i dati delle osservazioni del telescopio spaziale Kepler, che valuta la "caduta di luce" di una stella quando qualcosa le passa davanti (rispetto all'osservatore). Il software deve decidere se il calo di luminosità può essere attibuito con certezza al transito di un pianeta: se l'analisi non porta a un risultato certo, il fenomeno viene classificato come "falso positivo", ed è proprio la rianalisi dei falsi positivi che ha permesso di identificare Kepler-1649c. 26 APRILE 2020 | LUIGI BIGNAMI |
Post n°2850 pubblicato il 30 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Gli animali marini che si mangiano i virus Spugne, ostriche e altri animali marini riducono il contenuto virale dell'acqua: una scoperta interessante e che potrebbe anche fare bene all'acquacoltura. Una spugna. | TOM GOAZ / SHUTTERSTOCK Quanti virus ci sono nell'acqua di mare? Come fanno gli animali marini a convivere con una "zuppa" piena di particelle potenzialmente pericolose? La risposta alla prima domanda è semplice: un bicchiere d'acqua di mare contiene circa 150 milioni di particelle virali, le quali, come tutti i virus, hanno la possibilità di attaccarsi a un ospite e da lì partire per infettare altri organismi della stessa specie. Alla seconda domanda, invece, risponde uno studio di Jennifer Welsh, del Royal Netherlands Institute for Sea Research, pubblicato su Nature, ch e per la prima volta mette in evidenza il ruolo degli organismi filtratori nel mantenere sotto controllo la popolazione virale in mare. PRANZO A BASE DI VIRUS. Welsh ha messo alla prova la capacità "antivirale" di diverse specie di organismi marini che si nutrono filtrando l'acqua di mare: ostriche, granchi, bivalvi e soprattutto spugne. Gli animali sono stati lasciati senza cibo, "costretti" a filtrare l'acqua di mare nella quale erano immersi; Welsh ha poi confrontato la presenza di virus in quella stessa acqua prima e dopo l'azione filtratoria. Non tutte le specie si sono dimostrate ugualmente efficaci - le ostriche hanno eliminato circa il 12% dei virus, mentre le spugne sono arrivate al 94% nel giro di tre ore - ma tutte hanno dimostrato di avere una qualche capacità di sottrarre particelle virali all'ambiente per assimilarle, scomporle e trasformarle in cibo. PIÙ SPUGNE PER TUTTI. Per noi uomini, la scoperta è particolarmente importante. È raro che i virus marini in natura siano talmente concentrati da far scoppiare epidemie devastanti nelle popolazioni selvatiche, ma il discorso cambia completamente quando si parla di animali da acquacoltura. Questa pratica, indicata come alternativa sostenibile alla pesca tradizionale e che prevede di tenere pesci e altri animali marini in spazi chiusi ma a contatto diretto con il mare aperto, genere infatti un altissimo rischio di epidemie tra gli animali, soprattutto perché i recinti per l'acquacoltura ospitano di solito una singola specie - ossia l'ambiente ideale per lo sviluppo di epidemie devastanti, che a questo punto potrebbero essere tenute a bada riempiendo i recinti di spugne e altri animali filtratori. 2 APRILE 2020 | GABRIELE FERRARI |
Post n°2849 pubblicato il 30 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Le mani derivano dalle pinne di questo antico pesce? Nel fossile di un antico pesce, all'interno di una pinna, sono state trovate ossa di dita articolate, come nelle mani della maggior parte dei primati. La ricostruzione dell'elpistostege, il "pesce con le mani". | Un antico fossile di elpistostege (Elpistostege watsoni) trovato a Miguasha, in Canada, ha gettato nuova luce sull'evoluzione della mano umana a partire dalle pinne dei pesci. A questa conclusione sono giunti i paleontologi delle università di Flinders (Australia) e di Quebec (Canada), che riportano su Nature lo studio del fossile: un esemplare completo di E. watsoni vissuto attorno a 360 milioni di anni fa, lungo 1,57 metri e ricco di particolari. La ricostruzione dela pinna dell'elpistostege e di un vero tetrapode. | RICHARD CLOUTIER E JOHN LONG CON LA TAC. Gli scienziati hanno effettuato scansioni ad alta energia, simili a TAC, sul fossile: l'analisi ha permesso di osservare lo scheletro della pinna pettorale, nella quale si è vista la presenza di omero (braccio), radio e ulna (avambraccio), oltre a file di carpo (polso) e falangi ben organizzate (dita). John Long, uno dei ricercatori, afferma che è la prima volta che si scoprono quelle che senza dubbio sono dita nella pinna di un pesce così antico. «Le ossa articolate nella pinna», spiega, «sono come le ossa delle dita nelle mani della maggior parte dei primati. Questa scoperta spinge indietro l'origine delle dita ed evidenzia anche come l'evoluzione della mano sia iniziata molto prima di quanto si è sempre ipotizzato, cioè poco prima che i pesci lasciassero l'acqua». L'evoluzione dei pesci in tetrapodi, ossia i vertebrati a quattro zampe dai quali discendono anche gli umani, è stato uno degli eventi più significativi della storia della vita. L'ARRIVO DI MANI E PIEDI. Fu quel salto nell'evoluzione che permise ai vertebrati di lasciare l'acqua e conquistare la terra. Per completare questa transizione, uno dei cambiamenti più significativi è stata proprio l'evoluzione di mani e piedi. Il periodo che vide questa evoluzione è compreso tra il Medio e l'Alto Devoniano, ossia tra 393 e 359 milioni di anni fa. Fino a oggi era stato un altro tipo di fossile ad aiutare i paleontologi a comprendere meglio quel tipo di evoluzione, il Tiktaalik roseae, trovato nel Canada artico, i cui reperti - nonostante fossero incompleti - hanno permesso di comprendere meglio anche le trasformazioni anatomiche associate alla respirazione fuori dall'acqua, all'udito e all'alimentazione. FOSSILE DI TRANSIZIONE. L'elpistostege trovato in Canada era il più grande predatore dell'habitat in cui viveva, che comprendeva l'estuario di un fiume e bassi fondali marini. «Visse 380 milioni di anni fa e anche se non possiamo certamente definirlo come un nostro avo», ha detto Long, «è senza dubbio un vero fossile di transizione, un intermediario tra pesci e tetrapodi». Prima di questo fossile ne erano stati trovati altri due della medesima specie: il primo, nel Parco Nazionale di Miguasha, nel Quebec, descritto nel 1938, di cui fu trovata la sola parte superiore del cranio». Questo nuovo esemplare di elpistostege è stato scoperto nel 2010 e solo oggi, dopo lunghe ricerche, ha portato a questa importante scoperta. 18 APRILE 2020 | LUIGI BIGNAMI |
Post n°2848 pubblicato il 30 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Batteri kamikaze per salvare la coloniaIn presenza di rivali, alcuni batteri si autodistruggono per permettere ai loro simili di sopravvivere: uno studio sul senso di questa strategia. Batteri Escherichia coli in un'illustrazione medica. Alcuni ceppi di batteri si autodistruggono in presenza di batteri rivali: è un comportamento noto da tempo, ma difficilmente spiegabile dal punto di vista evolutivo. Ora uno studio eseguito su colonie di Escherichia coli rivela che questa strategia va a beneficio della colonia: il sacrificio di chi si immola sarebbe simile a quello di alcuni insetti, che non esitano a dare la vita per il bene del nido. La ricerca è stata pubblicata su bioRxiv. GAVETTONI PRONTI AD ESPLODERE. Per visualizzare il processo da vicino, gli scienziati dell'Università di Oxford hanno ingegnerizzato un ceppo di E. coli noto per autodistruggersi in situazioni di pericolo facendo in modo che diventasse verde poco prima del suicidio, e rosa durante il gesto estremo. Quindi, hanno esposto i mutanti a un ceppo di E. coli rivale, e sono rimasti a osservare la battaglia. Entrambi gli schieramenti hanno prodotto tossine per annientare i nemici. I batteri ingegnerizzati in prima linea sono stati eliminati direttamente dal "veleno"; quelli schierati subito dietro, si sono autosacrificati. Prima di autoannientarsi, però, hanno impiegato circa un'ora per produrre e accumulare tossine: il loro sacrificio di massa è coinciso con il rilascio simultaneo di queste armi chimiche, che hanno aiutato il resto della colonia a sopravvivere. Dal punto di vista dell'evoluzione, una possibile - ma incompleta - spiegazione è che il sacrificio di alcuni serva a preservare i geni di famiglia: spesso i batteri vivono in colonie di cloni, e salvare i geni altrui significa portare avanti anche i propri. Ma l'espressione di questo comportamento dipende anche da altri fattori, come il mezzo in cui i batteri sono immersi o la velocità di crescita.
LA MEDESIMA RISPOSTA. Questo stesso comportamento è stato osservato anche nelle colonie di alcuni insetti (come le api), in cui in genere individui già vecchi e con uno scarso potenziale riproduttivo si sacrificano per allontanare le minacce dall'alveare. Anche se lo spirito di gruppo dei batteri ricorda quello degli insetti, le due strategie si sarebbero evolute in modo indipendente e per analoghe motivazioni: una stessa soluzione sviluppata da organismi diversi, in risposta a un analogo stile di vita. |
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