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Messaggi del 13/05/2020
Post n°2912 pubblicato il 13 Maggio 2020 da blogtecaolivelli
il 13 Maggio 2020 da Fonte: articolo riportato dall'Internet e delle prime pagine dei giornali: il nuovo Coronavirus (2019-nCoV), il letale morbo proveniente dalla Cina autore della nuova pandemia di questo inizio di anni Venti del terzo millennio. I coronavirus sono una grande famiglia di virus che possono causare diverse infezioni, dal comune raffreddore a malattie più gravi come la sindrome respiratoria del Medio Oriente (MERS) e la sindrome respiratoria acuta grave (SARS). Il "salto" di specie Spesso questi ceppi virali si selezionano e vivono all'interno di varie specie animali, senza contaminare l'uomo. Tuttavia in alcuni casi possono comparire nuovi virus che, precedentemente circolanti solo nel mondo animale, ad un certo momento subiscono una muta- zione e diventano patogeni anche per la nostra specie. È un fenomeno ben noto (chiamato spill-over o salto di specie) e si pensa che possa essere alla base anche dell'origine di quest'ultimo coronavirus proveniente dalla Cina. Al momento la comunità scientifica sta ancora cercando di identificare con sicurezza la fonte dell'infezione: si parla di pipistrelli, di serpenti ed anche di una specie di pangolino. Fatto sta che sembrerebbe che i primi focolai si siano sviluppati nel grande mercato del bestiame della città di Wuhan, capoluogo e città più popolosa della provincia di Hubei, alla confluenza del Fiume Azzurro e del fiume Han (e quindi in un punto geograficamente già predisposto alla diffusione ed agli scambi). Evento previsto anni fa, seguendo i cacciatori di virus Questo fatto che oggi sta allarmando l'opinione pubblica mondiale e che viene dipinto come uno sfortunato evento eccezionale, in realtà era stato ampiamente previsto, con impressionante precisione e dovizia di particolari, sin dal 2012 dal giornalista e divulgatore scientifico David Quammen, collaboratore del National Geographic. Infatti nel suo libro "Spillover", ora pubblicato anche in italiano da Adelphi, Quammen aveva previsto tutto, compreso il fatto che la "prossima pandemia" sarebbe partita da un mercato del sud della Cina. Ma Quammen non è un indovino: è solo un abile cronista che ha indagato con straordinaria efficacia tra gli squilibri a cui abbiamo costretto il pianeta Terra, dedicandosi in particolare al lavoro, spesso oscuro, dei "cacciatori di virus". Con il fiato sospeso per capire il meccanismo di diffusione Scrive Quammen: «Non vengono da un altro pianeta e non nascono dal nulla. I responsabili della prossima pandemia sono già tra noi, sono virus che oggi colpiscono gli animali, ma che potrebbero da un momento all'altro fare un salto di specie - uno spillover in gergo tecnico - e colpire anche gli esseri umani...». Il libro è unico nel suo genere e davvero attualissimo: un misto tra un saggio sulla storia della medicina ed un reportage, è stato scritto in sei anni di lavoro nei quali l'autore ha seguito gli scienziati al lavoro nelle foreste congolesi, nelle fattorie australiane e nei mercati delle affollate città cinesi. Quammen ha intervistato centinaia di testimoni, medici e sopravvissuti, ha investigato e raccontato con stile quasi da poliziesco la corsa alla comprensione dei meccanismi delle malattie. E tra le pagine più avventurose, che tengono il lettore con il fiato sospeso come quelle di un romanzo noir, è riuscito a cogliere la preoccupante peculiarità di queste malattie. Ovvero la continua ricerca, da parte di organismi estremamente adattabili e resistenti quali sono i virus, di un nuovo equilibrio per poter sopravvivere. L'uomo come "ospite perfetto" Un nuovo efficace equilibrio tra gli squilibri causati dall'Uomo, che stermina direttamente o indirettamente intere popolazioni di virus e che di fatto li obbliga a cercare freneticamente nuove possibilità di sopravvivenza tra le alterazioni degli ecosistemi indotte dall'azione antropogenica! Ovvero il virus fa ciò che fa per necessità di sopravvivenza. E la scelta della specie umana come nuovo ospite è quasi ovvia: è un mammifero (ideale portatore), appartenente alla specie più popolosa e diffusa del Pianeta (che tra l'altro mangia altri animali di diverse specie), si muove molto e ovunque (e quindi facilita la diffusione del virus) ed è a stretto contatto con molte specie animali sia domestiche sia selvatiche, anche a causa della distruzione e trasformazione degli habitat. Insomma gli spillover o salti di specie di patogeni ci sono sempre stati e continueranno ad esserci. Non tutti diventeranno per fortuna pandemie, ma ancora una volta, la loro letalità potenziale e la loro velocità di diffusione non saranno frutto del caso. © RIPRODUZIONE RISERVATA Progetto Islandese pubblicato il 13 Maggio 2020 Fonte: articolo riportato dall'Internet Trasformare la CO2 in roccia per frenare il riscaldamento globale Le rocce basaltiche islandesi. ANDREA DI PIAZZA2 SETTIMANE FA L'idea di trasformare la CO2 in roccia per frenare il riscaldamento globale non è una novità, ma se anziché riuscirci in migliaia di anni lo si fa in tempi record ecco che la cosa si fa davvero interessante. La notizia arriva dall'Islanda. Ecco di cosa si tratta. Iniettare la CO2 nel sottosuolo e trasformarne il 90% in minerali nel giro di soli due anni. Sono questi gli eccellenti risultati raggiunti dal progetto Carbfix in Islanda, uno dei venti finalisti candidati ad ottenere il prestigioso Keeling Curve Prize. Il progetto, che va avanti ormai da diversi anni, sfrutta i basalti islandesi come volume geologico per lo stoccaggio del gas, una scelta che si è rivelata efficace e sicura e che apre nuove prospettive per la lotta al riscaldamento globale. I basalti d'Islanda Gran parte dei progetti di cattura e stoccaggio dell'anidride carbonica sfruttano le rocce sedimentarie come volume serbatoio per l'immagazzinamento del gas che penetra nei pori della roccia e può dissolversi nelle acque sotterranee o reagire con la roccia incassante formando minerali carbonatici. Tuttavia il processo richiede migliaia di anni, rendendo questa soluzione sfavorevole per mineralizzare la CO2 abbastanza velocemente da soddisfare la potenziale domanda o da evitare che eventi geologici improvvisi come i terremoti possano provocare fughe di gas. Una soluzione a questo problema arriva dalle rocce magmatiche basiche come i basalti che, oltre ad essere ampiamente diffusi su tutto il Pianeta, contengono alte concentrazioni di calcio e magnesio, ioni che possono reagire facilmente con la CO2 producendo minerali di calcite, dolomite e magnesite. Con l'obiettivo dunque di testare la capacità di immagazzinamento dell'anidride carbonica da parte di alcuni dei basalti più famosi del mondo il sito della centrale geotermica di Hellisheiði in Islanda è diventato il cuore pulsante del progetto Carbfix. Il team, guidato dal Reykjavik Energy, ha ideato il sistema che dissolve la CO2 catturata dal processo industriale nelle acque reflue dell'impianto, iniettando poi il tutto a centinaia di metri di profondità nelle rocce basaltiche. Alla fine del 2018, il sistema aveva catturato e stoccato circa 66.000 t di gas (sia CO2 che H2S), ovvero oltre il 40% delle emissioni generate dalla centrale. Secondo i risultati ottenuti, oltre il 90% del gas iniettato si è trasformato in minerale nel giro di un paio d'anni. Un processo estremamente rapido ma con qualche punto critico, l'acqua innanzitutto: per l'iniezione di una tonnellata di anidride carbonica ne servono 25 di acqua. Il metodo, inoltre, va testato anche in altri basalti del Pianeta, piccole variazioni composizionali della roccia ospite possono portare a ben differenti tassi di mineralizzazione. Di certo i rapidi tempi di stoccaggio dei gas iniettati candidano i basalti islandesi come uno dei migliori serbatoi naturali al mondo. Un processo naturale Grazie alle loro proprietà chimiche, rocce basiche e ultrabasiche come basalti e peridotiti sono l'ambiente ideale per i processi di carbonatazione naturale. È stato stimato per esempio che l'alterazione dei basalti presenti sulle terre emerse del nostro Pianeta, dovuta agli agenti atmosferici, contribuisce per il 30% alla rimozione naturale della CO2 dall'atmosfera. Allo stesso modo in natura la mineralizzazione della CO2 è un processo che avviene costantemente in ambienti vulcanici. I basalti dei sistemi vulcanici e geotermici sottomarini, per esempio, ricevono costantemente grandi quantità di anidride carbonica dal magma che degassa in profondità. È il caso delle dorsali oceaniche, dove la circolazione idrotermale coinvolge il primo km di crosta oceanica con una conseguente interazione CO2-acqua-basalto: soltanto in questo spazio si riescono a mineralizzare circa 40Mt di anidride carbonica all'anno. Proprio in Islanda, porzione emersa della dorsale medio atlantica, è stato stimato che un basalto fresco può immagazzinare naturalmente oltre 100 kg di CO2 per metro cubo. Sulla base di questa stima, la capacità teorica di stoccaggio lungo le dorsali oceaniche (ammesso che la composizione del basalto non vari grandemente) e dell'ordine di 100.000 - 250.000 Gt di CO2, diversi ordini di grandezza in più rispetto alla quantità di anidride carbonica che ogni anno viene liberata a livello globale dalle attività umane (circa 36,8 Gt nel 2019). Teoricamente dunque le capacità di immagazzinamento della CO2 da parte dei basalti oceanici e terrestri sono enormi e con la tecnologia giusta, potrebbero essere una delle soluzioni determinanti per lo stoccaggio definitivo dell'anidride carbonica e per la lotta al riscaldamento globale. Prossimo passo: sottrarre CO2 all'atmosfera Ad oggi i sistemi di cattura e stoccaggio della CO2 esistenti (Carbon Capture and Storage, CCS) riescono a processare circa 40 Mt di gas ogni anno e sono applicati principalmente a determinati processi industriali. Per rispettare l'Accordo di Parigi e contenere la crescita della temperatura media globale a 1.5°C, bisognerebbe però catturare e stoccare almeno 190 Gt di anidride carbonica. Una quantità enorme che richiederebbe un aumento del numero di impianti CCS esistenti di almeno 2.500 unità entro il 2040, ma soprattutto la cattura della CO2 direttamente in aria. Ciò è possibile attraverso i sistemi di cattura diretta dell'aria (Direct Air Capture, DAC), che filtrano direttamente l'aria attraverso un solido o un liquido capace di rimuovere selet- tivamente l'anidride carbonica sfruttando processi di assorbi- mento e adsorbimento. Combinando i due sistemi ed instal- landoli nei pressi di un serbatoio basaltico, esattamente come si sta sperimentando nel progetto Carbonfix, sarà possibile creare siti di stoccaggio in grado di rimuovere grandi quantità di CO2 dall'atmosfera. Tuttavia ad oggi le tecnologie di tipo DAC sono abbastanza poco mature (al momento la capacità di filtraggio è dell'ordine delle migliaia di t di CO2 per anno) e anche piuttosto costose (da 90 a 900$ per tonnellata di CO2), si tratta infatti di tecnologie estremamente energivore. Ricercatori e aziende, intraviste le grandi potenzialità di queste tecnologie, si stanno impegnando per renderle più competitive ed operative in un immediato futuro. © RIPRODUZIONE RISERVATA RIPRODUZIONE CONSENTITA CON LINK A ORIGINALE E CITAZIONE FONTE: RIVISTANATURA.COM |
Post n°2911 pubblicato il 13 Maggio 2020 da blogtecaolivelli
Altri metodi di indagine sul Coronavirus. Fonte: articolo riportato dall'Internet IL VIRUS STUDIATO CON L'EPIGENETICA La Natura è anche nella pandemia di Coronavirus a cura della Prof.ssa Luciana Riccio (*) Sono fermamente convinta che mai, come in questo momento, abbiamo bisogno di un pensiero differente, che ci aiuti a capire un po' di più quello che sta succedendo, la pandemia di Coronavirus è come un meteorite che ci è caduto addosso senza darci il tempo di avere consapevolezza del pericolo. Non c'è bisogno neanche di presentarlo, perché è il protagonista indiscusso degli ultimi 2-3 mesi, non si parla che di lui e si vive in sua funzione. Si tratta del nuovo Coronavirus, definito più correttamente SARS-CoV-2. Sappiamo - o pensiamo di sapere - tutto di lui, bombardati come siamo da media, televisioni, social che ce lo propongono in tutte le salse, dalla versione politicamente corretta dei virologi, infettivologi ed epidemiologi "ufficiali", a quella da spy story di un virus creato artificialmente in laboratorio come arma chimica. In realtà si è detto tutto e il contrario di tutto, ed è comprensibile cambiare opinione in base al decorso di una pandemia fino a ora sconosciuta; ma un'analisi va fatta, soprattutto per proteggerci da altre epidemie o disastri ambientali da cui non saremo mai immuni. La centralità della scienza Non è questo il momento del politicamente corretto, perché ne va del nostro futuro, ma è il momento di capire quale debba essere il contributo della scienza che mai, come in questo momento, ha bisogno di essere ridefinita, perché la scienza è tale se si mette continuamente in discussione; altrimenti parliamo di religione o, più in generale, di dogma. Affermare che la scienza non è democratica, vuol dire non capire la ricchezza e la complessità del processo scientifico, così come l'attività di divulgazione non deve essere un processo cattedratico, con atteggiamenti presuntuosi. È opportuno ascoltare il parere di più esperti per avere un quadro più ampio della situazione. Il virologo prof. Giulio Tarro, per esempio, sostiene che con il caldo il virus dovrebbe scomparire. Su questo ho (e non solo io) dei dubbi, tenuto conto dei focolai che si stanno manifestando in Africa e dell'epidemia di MERS-CoV (virus della stessa famiglia di coronavirus del SARS-CoV-2) nata in Paesi caldi, anche se è plausibile che il virus si diffonda meglio in spazi chiusi, in ambienti freddi e umidi con poca ventilazione. Il professore sostiene anche che usare come vaccino naturale gli anticorpi di quelli che non si sono ammalati nonostante il virus (e i guariti), tramite infusione di plasma, sia una buona soluzione, peraltro sperimentata anche in Italia. Sempre secondo il prof. Tarro il virus avrebbe trovato terreno favorevole nella pianura padana a causa dell'elevato tasso di polveri sottili (PM 10), particelle inquinanti, la cui presenza accumuna tale zona italiana a Wuhan. potrebbe aver contribuito alla diffusione del Covid-19. Potrebbe trattarsi di un virus "lombardo"? Devo dire che potrebbe non avere tutti i torti, perché sappiamo quanto conti l'ambiente per gli esseri viventi, virus compresi: insomma è una questione di Epigenetica... L'Epigenetica è la nuova frontiera della genetica che non tratta le caratteristiche genetiche (siamo alti o bassi, abbiamo gli occhi azzurri o neri in base ai nostri genitori), bensì studia le modificazioni del DNA (o RNA) dovute a fattori ambientali, nutrizionali e anche comportamentali che si verificano quando delle molecole - contenute per esempio nel cibo o in agenti inquinanti - silenziano o attivano un particolare gene, modificando il modo in cui si esprime. Il "nostro" virus è a RNA (una macromolecola che contiene l'informazione genetica come fa il DNA, anche se ha una struttura meno complessa) e, forse, le primordiali forme di vita si basavano esclusivamente sull'RNA. Nei virus, come negli esseri umani, si possono verificare mutazioni epigenetiche, ovvero mutazioni che non incidono sulla sequenza genica ma, nel caso specifico, sulla struttura dell'RNA. Queste mutazioni possono essere indotte anche da fattori ambientali e qui si apre un nuovo capitolo... L'impatto che abbiamo sul Pianeta Aggressività e pericolosità dei virus a RNA sono regolate da fattori epigenetici, cioè dalla presenza di particolari molecole che regolano l'espressione genica, agganciandosi ai filamenti dell'RNA. La più importante di queste è la N6-Metiladenosina, che nell'organismo umano prende parte a diversi processi biologici, tra cui le risposte a stress, fertilità, ritmi circadiani e sviluppo del cancro. Inserendo mutazioni che inattivano l'azione dell'N6-metiladenosina in pezzi di RNA, i ricercatori hanno scoperto che viene rallentata l'infezione virale. Lo studio è stato effettuato da un gruppo di ricercatori statunitensi sui virus dell'epatite C e di Zika. Perché, quindi, il principio non potrebbe essere valido anche per gli altri virus a RNA, compreso il coronavirus SARS-CoV-2? E poi - se vogliamo dirla tutta - i virus, anche se non hanno vita autonoma e hanno bisogno di un organismo per replicarsi, sono "intelligenti", se non altro perché fanno parte dell'ecosistema naturale. Perché, allora, non dovrebbero modulare la loro moltiplicazione per mantenere l'infezione sotto controllo, in modo da non scatenare una massiccia risposta immunitaria che può ucciderli? Quindi, se vogliamo essere ottimisti, dobbiamo ascoltare il Prof. Isaac Ben Israel, che ci dice che il ciclo epidemico della SARS-CoV-2 è di 70 giorni, ovvero il virus raggiunge il picco di contagio entro 4-6 settimane per poi cominciare una fase discendente che si concluderebbe intorno all'ottava-nona settimana. Quindi, secondo il professore, il lock-down protratto a lungo potrebbe servire a poco. Da questo punto di vista bisogna andare con i piedi di piombo, perché, di fatto, le misure restrittive hanno contenuto il diffondersi della pandemia e non sappiamo veramente quali siano le "intenzioni" del virus anche se, tutto sommato, non gli "converrebbe" attivare nostro sistema immunitario per un periodo troppo lungo. Per concludere, una gustosa curiosità... Nel 2000 a Gulu, un villaggio sulle rive del fiume Ivindo, nel Gabon, nel corso di un'epidemia di Ebola, gli abitanti hanno applicato delle regole che nulla hanno a che invidiare al nostro lock-down. È stato imposto l'isolamento dei pazienti in una casa speciale e distante dalle altre, i guariti dovevano curare gli ammalati (importanza dell'immunità!), gli spostamenti tra un villaggio e l'altro erano limitati, non si dovevano avere contatti sessuali con i contagiati, erano sospesi i funerali e le danze rituali. Anche questi comportamenti hanno contribuito a far cessare l'epidemia. In ogni caso, non dimentichiamo mai che il "nostro" coronavirus segue anch'esso le leggi della Natura, perché fa parte di essa. (*) Vive e lavora a Latina come Medico Anestesista-Rianimatore. Insegna Fisioterapia alla Facoltà di Medicina e Farmacia dell'Università "Sapienza" di Roma e ha un Master in Giornalismo e Comunicazione Istituzionale della Scienza. È autrice del saggio sull'epigenetica dal titolo "Viaggio al Centro della Vita alla ricerca della Mutazione K", edito da Go Ware. pubblicato il 13 Maggio 2020 da ellistar2012 Fonte: articolo riportato dall'Internet ASTRONAUTI AMMALATII virus si propagano anche nello Spazio? (Image: © NASA) Che cosa accadrebbe se il coronavirus si diffondesse in una navicella della NASA? Affronta l'argomento un interessante articolo scientifico di Chelsea Gohd, "Getting sick in space: How would NASA handle an astronaut disease outbreak?" (Ammalarsi nello Spazio: come affronterebbe la NASA il caso di un astronauta che si ammala?) pubblicato su Space.com. Nella foto di apertura: Gli astronauti della Expedition 62 all'interno di una navicella di rifornimento SpaceX Dragon CRS-20 in visita alla Stazione Spaziale Internazionale. Le maschere che indossano servono a proteggere da particelle e sostanze irritanti che potrebbero essersi staccate all'interno del Dragon durante il volo. (Image: © NASA) Ammalarsi nello Spazio: le risposte della NASA «In rare occasioni nel corso della storia dei voli spaziali è successo che gli astronauti si siano ammalati durante la loro permanenza nello Spazio. Mentre erano in orbita, alcuni di loro hanno sofferto di infezioni delle vie respiratorie superiori o di raffreddori, infezioni del tratto urinario e infezioni della pelle» ha detto a Space.com Jonathan Clark, ex medico dell'equipaggio del programma Space Shuttle della NASA e attuale professore associato di neurologia e medicina spaziale presso il Center for Space Medicine del Baylor College of Medicine. Durante la missione Apollo 7, nel 1968, l'equipaggio prese il raffreddore e il fatto ebbe un impatto significativo sul programma. Molto probabilmente il comandante Wally Schirra salì a bordo con un leggero raffreddore e lo diffuse agli altri membri dell'equipaggio. Gli astronauti finirono i medicinali presenti a bordo e i fazzoletti... e hanno avuto problemi a indossare il casco durante il rientro nell'atmosfera terrestre. Analoghi casi di raffreddore si sono registrati tra gli astronauti di Apollo 8 e Apollo 9. Quarantena pre-volo A seguito di queste esperienze, la NASA ha introdotto nella pianificazione delle missioni una quarantena pre-volo per gli equipaggi delle navicelle spaziali. Inoltre, ha cominciato a studiare degli scenari più complessi. Per esempio, potrà succedere in futuro che gli equipaggi di missioni spaziali debbano combattere malattie ben più gravi e in ambienti potenzialmente più difficili, per esempio sulla base lunare del programma Artemis. all'opera durante lo studio delle possibili cause di patologie neurodegenerative, come il morbo di Alzheimer. Parmitano sta esaminando campioni di proteine per la forma- zione di amiloidi che differiscono dai campioni osservati sulla Terra. I risultati possono suggerire terapie preventive per la popolazione sulla Terra e gli astronauti in missioni a lungo termine. (Image: © NASA) Per quanto riguarda le emergenze mediche, gli astronauti sono stati finora curati a distanza all'assistenza medica a terra, grazie alle crescenti capacità di comunicazione. Per esempio, i medici del Centro di Controllo sono stati in grado di trattare un astronauta che ha subito un coagulo di sangue mentre era a bordo della stazione spaziale. Come cambiano virus e batteri nello Spazio I modi in cui le infezioni si diffondono e come si comportano i virus e le malattie nel corpo cambiano quando gli esseri umani vanno nello spazio. A causa dello stress fisico in un ambiente confinato senza la gravità, anche le malattie banali come il raffreddore possono assumere un aspetto diverso per gli astronauti. I cambiamenti nei livelli degli ormoni dello stress e altre ripercussioni fisiche del volo spaziale causano un cambiamento del sistema immunitario. Mentre un astronauta potrebbe avere un buon sistema immunitario sulla Terra, potrebbe essere più suscettibile a malattie o addirittura a reazioni allergiche mentre è nello Spazio. Il dott. Clark ha spiegato che virus come l'influenza o il COVID19 potrebbero essere trasmessi più facilmente in un ambiente a microgravità, come sulla Stazione Spaziale Internazionale: «L'assenza di gravità impedisce alle particelle di depositarsi, quindi rimangono sospese nell'aria e potrebbero essere trasmesse più facilmente. Per evitare questo, i compartimenti sono ventilati e il sistema di areazione è dotato di filtri HEPA che rimuovono le particelle». Il risveglio dei virus dormienti Gli scienziati hanno scoperto che i virus dormienti reagiscono alle sollecitazioni del volo spaziale. È stato accertato che virus come l'Herpes Simplex si riattivano durante il volo spaziale. Inoltre, gli studi in corso hanno ipotizzato che una maggiore virulenza batterica nello spazio possa rendere meno efficaci i trattamenti antibiotici. Per questo, in particolare nel caso di missioni extra-planetarie, l'equipaggio verrebbe messo in quarantena al ritorno sulla Terra, proprio come avveniva nelle missioni di ritorno dalla Luna. all'interno del modello di navicella Orion, allo Johnson Space Center della NASA a Houston, Texas. (NASA/Bill Ingalls) |
Post n°2910 pubblicato il 13 Maggio 2020 da blogtecaolivelli
pubblicato il 13 Maggio 2020 da ellistar2012 Fonte: articolo riportato dall'Internet Così i buchi neri forgiano le galassie Fonte: INAF/Università di Tor Vergata Rappresentazione artistica di un outflow prodotto da un buco nero supermassiccio. (ESA/ATG medialab) Analizzando i dati raccolti dal telescopio spaziale per raggi X XMM-Newton dell'ESA, un team di scienziati guidato da Roberto Serafinelli dell'Istituto Nazionale di Astrofisica ha mostrato come i buchi neri supermassicci modellino le loro galassie ospiti con venti potenti che spazzano via la materia interstellare rallentando il ritmo di formazione di nuove stelle Otto anni di osservazioni condotte con XMM-Newton sul buco nero che si trova nel cuore della galassia attiva PG 1114+445 hanno consentito di mostrare come i venti ultraveloci - outflows (deflussi) di gas emessi dal disco di accrescimento, nella regione prossima al buco nero stesso - interagiscano con la materia interstellare vicino al centro della galassia. Questi outflows erano già stati individuati in precedenza, ma il nuovo studio identifica chiaramente, per la prima volta, tre fasi della loro interazione con la galassia ospite. anni ma che gli scienziati ancora non sono riusciti a giustificare», dice il primo autore dello studio pubblicato su Astronomy & Astrophysics, Roberto Serafinelli dell'Istituto Nazionale di Astrofisica di Milano, che ha condotto la maggior parte della ricerca durante il suo dottorato all'Università degli Studi di Roma Tor Vergata. «Osserviamo, per esempio, una correlazione tra le masse di buchi neri super- massicci e la dispersione di velocità delle stelle presenti nelle regioni interne delle galassie ospiti. Questo però non può essere dovuto all'attrazione gravitazionale del buco nero, a causa dell'elevata distanza del gas dallo stesso. Il nostro studio, per la prima volta, mostra come i venti del buco nero abbiano sulla galassia un impatto su una scala più grande, fornendo probabilmente il collegamento mancante». X emessi dai nuclei galattici attivi, le dense regioni centrali delle galassie con buchi neri supermassicci al centro. I cosiddetti outflows ultraveloci (UFO, ultra-fast outflow), fatti di gas altamente ionizzato, viaggiano a velocità che possono raggiungere il 40 per cento di quella della luce, e si osservano in prossimità del buco nero centrale. Gli outflows più lenti, chiamati anche "assorbitori tiepidi" (warm absorbers), viaggiano invece a velocità assai più basse, nell'ordine delle centinaia di km/s, e mostrano caratteristiche fisiche - come la densità delle particelle, o la loro ionizzazione - simili a quelle della materia interstellare circostante. Questi outflows più lenti hanno una probabilità più elevata di essere rilevati a distanze maggiori dal centro della galassia. le caratteristiche dei due precedenti: la velocità di un UFO e le proprietà fisiche di un assorbitore tiepido. «Riteniamo che si tratti della zona in cui l'UFO entra in contatto la materia interstellare e la trascina via come fosse uno spazzaneve», spiega Serafinelli. «È ciò che chiamiamo un outflows ultraveloce "trascinato", perché l'UFO, in questa fase, sta penetrando nella materia interstellare. Un po' come il vento quando sospinge la vela di una barca». di anni luce. L'UFO sospinge gradualmente la materia interstellare allontanandola dalle regioni centrali della galassia, liberando queste zone dal gas e rallentando così l'accrescimento della materia attorno al buco nero supermassiccio. Un processo, questo, già previsto dai modelli, ma mai prima d'ora osservato nelle sue tre fasi. galassia - materia ancora indisturbata dall'UFO proveniente dell'interno», osserva Francesco Tombesi, dell'Università di Roma Tor Vergata e del Goddard Space Flight Center della NASA, secondo autore dello studio. «Possiamo vedere anche nubi di gas a minor distanza dal buco nero, vicino al nucleo della galassia, dove l'UFO ha iniziato a interagire con la materia interstellare». anni di distanza da quando l'UFO ha lasciato il buco nero. Ma l'energia dell'UFO consente al buco nero - un oggetto relativamente piccolo rispetto alla galassia - di estendere la sua influenza su materia che si trova ben oltre la portata della sua forza gravitazionale. trasferiscono la loro energia nell'ambiente circostante, spazzando via gradualmente il gas dalle regioni centrali della galassia, che potrebbe quindi arrestare la formazione stellare. E, in effetti, oggi le galassie producono stelle a un ritmo assai inferiore rispetto a quanto non facessero nelle prime fasi della loro evoluzione. «Dunque è tutta scienza nuovissima. Le fasi dell'outflows erano state osservate inprecedenza, ma separatamente: questa è la prima volta in cui si riesce a chiarire come siano collegate l'un l'altra».
energetica senza precedenti di XMM-Newton. In futuro, con nuovi e più potenti osservatori come Athena, l'Advanced Telescope for High ENergy Astrophysics dell'ESA, gli astronomi saranno in grado di osservare centinaia di migliaia di buchi neri supermassicci, rilevando gli outflows con grande facilità. Cento volte più sensibile di XMM-Newton, Athena dovrebbe essere lanciato nel 2030. fenomeno è comune nell'universo», dice Norbert Schartel, project scientist di XMM -Newton all'ESA. «Anche con XMM-Newton, nel prossimo decennio, potremmo essere in grado di trovare altre sorgenti come questa». complesse interazioni tra i buchi neri supermassicci e le loro galassie ospiti, e a capire le ragioni della riduzione - nel corso di miliardi di anni - del tasso di formazione stellare osservata dagli astronomi. pubblicato il 13 Maggio 2020 da ellistar2012 Fonte: articolo riportato dall'Internet Il collasso diretto dei buchi neri supermassicci (Scott Woods, Western University) Questi oggetti estremi del cosmo erano presenti già nell'epoca primordiale dell'universo: per spiegarne l'origine, un nuovo modello prevede che si siano formati con un processo molto rapido, e non dal collasso di stelle Non c'è bisogno di una stella che collassa per avere un buco nero supermassiccio. E questo spiega perché questo tipo di oggetti potevano essere presenti anche nell'epoca primordiale dell'universo. Lo afferma un nuovo studio pubblicato sulle "Astrophysical Journal Letters" da Shantanu Basu e Arpan Das della University of Western Ontario, in Canada. da una massa molto elevata, che arriva a milioni o miliardi di volte la massa del Sole. Malgrado le loro caratteristiche estreme però non sono oggetti rari: si stima che ogni galassia o quasi ospiti nel proprio nucleo un buco nero supermassiccio. Sulla loro origine non c'è accordo tra gli astrofisici. Una prima ipotesi è che derivino dall'accrescimento di buchi neri di dimensioni normali, che a loro volta sono l'esito ultimo del collasso di stelle giunte al termine del loro ciclo vitale. Quando infatti le reazioni di fusione nucleare all'interno della stella hanno trasformato quasi tutto l'idrogeno in elio, la pressione di radiazione verso l'esterno non è più in grado di contrastare la forza gravitazionale che agisce in senso opposto, e tutta la massa tende a concentrarsi nel nucleo. in seguito al collasso di particolari tipologie di stelle o di ammassi stellari. è arricchito di numerose osservazioni di buchi neri supermassicci estremamente lontani, che ci appaiono quindi com'erano poche centinaia di milioni di anni dopo l'origine dell'universo. Ciò depone a favore di una formazione molto rapida e diretta di questi oggetti. formazione dei buchi neri supermassicci basato su un'idea di base molto semplice: la loro origine è un collasso molto rapido. per formarsi e crescere, e a un certo punto la loro produzione nell'universo è cessata", ha spiegato Basu. "È questo lo scenario del collasso diretto". i dati sperimentali dei buchi neri supermassicci già presenti in un'epoca primordiale dell'universo sono compatibili con un accrescimento esponenziale del buco nero, che inizia la sua vita con una massa compresa tra 10.000 e 100.000 masse solari. (red) |
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