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Messaggi del 11/05/2020
Post n°2902 pubblicato il 11 Maggio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Sono nel cervello le 'radici' della dislessia I neuroni faticano ad adattarsi a stimoli ripetitivi 24 dicembre, 04:37 Le radici della dislessia sono nella difficoltà del cervello ad abituarsi a ritmi ripetitivi (fonte: Tim Kwee) Ogni volta è come la prima volta. Ogni parola letta e riletta suona sempre come se fosse nuova. E' per questa difficoltà ad abituarsi agli stimoli ripetitivi, che il cervello delle persone dislessiche ingaggia una 'guerra con le parole', percepite come estranee, trovandone difficile la lettura. Lo hanno scoperto i neuroscienziati del Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Boston, nello studio pubblicato sulla rivista Neuron. L'esperimento Per individuare il 'blocco' all'origine della dislessia, i ricercatori hanno messo a confronto l'attività cerebrale di alcuni giovani con e senza difficoltà nella lettura, sottoponendoli a risonanza magnetica durante l'esecuzione di diverse attività (come l'ascolto di parole lette da altre persone o il riconoscimento di parole scritte, oggetti e facce). Meno capacità di adattarsi a stimoli ripetuti E' emerso così che il cervello dei dislessici ha una minore plasticità e adattabilità agli stimoli ripetuti nel tempo. ''I neuroni che rispondono ad un particolare input sensoriale di solito reagiscono la prima volta in maniera più forte, mentre le volte successive danno una risposta più debole'', spiegano i neuroscienziati. ''Questo adattamento riflette i cambiamenti chimici che avvengono nei neuroni e che facilitano la reazione agli stimoli via via che diventano familiari''. Coinvolte più aree del cervello Nei dislessici, però, questo fenomeno chiave per l'apprendimento sembra essere difettoso in diverse aree: non solo quelle legate al linguaggio, ma anche quelle coinvolte nel riconoscimento di facce e oggetti. Questa scoperta ha lasciato a bocca aperta gli stessi ricercatori, perché le persone dislessiche di solito non hanno alcuna difficoltà a identificare volti ed oggetti. Da qui l'ipotesi che la ridotta plasticità del cervello si manifesti palese- mente solo durante la lettura perché si tratta di un compito estremamente complesso, che richiede di decifrare le lettere e ricondurle a dei suoni. Difficoltà che compaiono precocemente Queste difficoltà sono presenti anche in giovanissima età, come dimostra la risonanza magnetica fatta su bambini di prima e seconda elementare. ''Abbiamo osservato la stessa identica riduzione della plasticità cerebrale, e ciò - spiegano i ricercatori - indica che questo problema compare precocemente quando si impara a leggere e non è il risultato di diverse esperienze di apprendimento''. Il prossimo obiettivo sarà quello di verificare se lo stesso accada anche in età prescolare, prima ancora che si cominci a leggere. |
Post n°2901 pubblicato il 11 Maggio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Oggi venerdì 8 Maggio 2020 *Speciale Decisione storica in Bolivia in quanto il paese sudamericano ha concesso 11 diritti legali a Madre Natura. E' la prima volta nel mondo che una legge del... Scritto da Estrella Herrera, Aggiornamento lunedì 05/11/2018, in Esteri, Top-News Decisione storica in Bolivia in quanto il paese sudamericano ha concesso 11 diritti legali a Madre Natura. E' la prima volta nel mondo che una legge del genere viene emessa: si riconosce in forma legale la naturalezza come un essere vivo. Durante la cerimonia di promulgazione della innovativa legge, è stato affermato che "se non esiste naturalezza, se riceve danno, semplicemente no c'è vita e nemmeno umanità. Con questa legge vogliamo proponere come vivere in equilibrio con la Madre Terra". Sono passati alcuni anni da quando nel 2012 è stata varata la "Legge della Madre Terra e sviluppo integrale per vivere bene", che è stata approvata dai deputati boliviani nel dicembre 2010 e poi dal Senato nel giugno 2012. Sarebbe bello vedere anche in Italia una legge del genere. Tra i diritti che sono concessi alla natura vi sono il diritto alla vita, a continuare i cicli vitali e i processi liberi dall'alterazione umana, all'aria e all'acqua pura, all'equilibrio, a non essere contaminata, a non avere la sua struttura cellulare contaminata o geneticamente alterata. Inoltre, il diritto "di non essere toccato da mega infrastrutture e progetti di sviluppo che colpiscono l'equilibrio degli ecosistemi e delle comunità degli abitanti locali". La legge riconosce infine le risorse naturali del paese come "benedizioni" e propone misure radicali di conservazione per ridurre l'inquinamento e controllare l'industria. Se pensiamo che questa legge è stata diffusa in un paese sudamericano, non possiamo non arrivare alla conclusione che dovrebbe essere una legge che vale per tutto il mondo, anche in Italia, e non solo per Bolivia. Un'altra misura che si distingue all'interno della legge, è che lo Stato e ogni individuo, collettività o comunità che causa un danno accidentale o intenzionale ai componenti e alle zone vitali della Terra, è obbligato a eseguire un ripristino integrale o efficace o la riabilitazione di essi, in modo che si avvicinino alle condizioni pre-esistenti al danno. In questo modo si cerca di stabilire una "visione e fondamenti dello sviluppo integrale in armonia ed equilibrio con la Madre Terra (Gaia), garantendo la continuità della capacità di rigenerazione dei componenti della Terra e dei sistemi di vita". |
Post n°2900 pubblicato il 11 Maggio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Una nuova incredibile ricerca mette in discussione le origini dell'uomo: ecco chi era il nostro più sconosciuto antenato Nei geni di quattro popolazioni dell'Africa occidentale potrebbero nascondersi le prove dell'esistenza di un nostro antico e sconosciuto antenato A cura di Monia Sangermano 13 Febbraio 2020 22:09 Nei geni di quattro popolazioni dell'Africa occidentale potrebbero nascondersi le prove dell'esistenza di un nostro antico e sconosciuto antenato. E' questo il risultato di uno studio condotto dai ricercatori dell'Università della California che hanno pubblicato un articolo su Science Advances per rendere noti i risultati del loro recente studio. Stando a quanto riportato dagli scienziati, infatti, un gruppo di ominidi potrebbe essersi separato dall'antenato comune dei Neanderthal, Denisovan e uomini moderni circa 800mila anni fa, prima che questi lignaggi di dividessero. La contaminazione dei geni di Neanderthal e Denisovan dopo la migrazione dall'Africa sembrerebbe essere confermata da studi precedenti, ma si sa molto poco della presenza di geni antichi in individui i cui antenati non avrebbero mai lasciato l'Africa. Per colmare queste lacune Sriram Sankararaman e Arun Durvasula dell'Università della California hanno utilizzato la modellizzazione computerizzata per confrontare le variazioni genetiche nei 405 genomi dell'Africa occidentale con quelli dei genomi di Neanderthal e Denisovan, considerando segmenti moderni e antichi di yoruba di Ibadan, in Nigeria. "Abbiamo trovato più casi di variazione genetica nei segmenti antichi rispetto a quelli osservati nei geni di Neanderthal e Denisovan, questo potrebbe suggerire che nessuno di questi gruppi fosse la fonte della varianza genomica", spiegano gli autori, ricordando i risultati simili osservati nei genomi presenti in Sierra Leone, in Nigeria e nelle aree occidentali della Gambia. "Questi gruppi potrebbero condividere una porzione variabile tra 2 e 19 per cento dei loro geni con un gruppo arcaico in comune", aggiungono. "Non abbiamo però alcuna documentazione o prova dell'esistenza di questa specie di homini, che rende tutto davvero intrigante", commenta Sankararaman. "Queste scoperte complicano la nostra comprensione degli antenati umani e la nostra immagine della linea temporale dell'evoluzione degli ominidi", afferma Pontus Skoglund del Francis Crick Institute di Londra. "Probabilmente ci manca un tassello di un quadro che ancora non comprendiamo appieno. Abbiamo bisogno di ulteriori documentazioni, magari qualche resto in Eurasia, dove le basse temperature potrebbero aver conservato meglio il Dna. Questo ci permetterebbe di approfondire le nostre conoscenze riguardo la rela- zione tra Neanderthal e uomini moderni", conclude Skoglund. |
Post n°2899 pubblicato il 11 Maggio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Rinvenuti fossili di una tartaruga gigante di 13 milioni di anni fa: grande come un'auto La tartaruga aveva più o meno le dimensioni e il peso di una berlina e abitava un'enorme zona umida nel Nord America meridionale prima che si formassero i fiumi Amazzonia e Orinoco A cura di Beatrice Raso 13 Febbraio 2020 20:44 Sono stati rinvenuti in Nord America i fossili di una tartaruga che ha le dimensioni di un'auto. Si tratta della Stupendemys geographicus che si ritiene abbia vagato per la regione tra 13 e 7 milioni di anni fa. I fossili, descritti in uno studio pubblicato sulla rivista Science Advances, sono stati trovati precisamente nel deserto di Tatacoa in Colombia e nella regione di Urumaco in Venezuela. I primi fossili di Stupendemys furono scoperti negli anni '70, ma molti misteri sono rimasti irrisolti sull'animale lungo 4 metri. La tartaruga aveva più o meno le dimensioni e il peso di una berlina e abitava un'enorme zona umida nel Nord America meridionale prima che si formassero i fiumi Amazzonia e Orinoco. Il maschio aveva le corna rivolte in avanti su entrambi i lati del suo guscio. Le profonde cicatrici trovate nei fossili indicano che le corna erano probabilmente usate come lance per combattere i rivali. I ricercatori affermano di aver trovato un guscio lungo 3 metri e un osso mascellare inferiore che ha dato loro piu' indizi sulla sua dieta. Pensano che la tartaruga gigante vivesse sul fondo dei laghi e dei fiumi accanto al coccodrillo gigante e che seguiva una dieta diversificata fatta di piccoli animali, vegetazione, frutta e semi. Le grandi dimensioni di Stupendemys furono cruciali per difendersi da altri grandi predatori. Uno dei fossili di Stupendemys e' stato trovato con un dente di coccodrillo gigante incorporato |
Post n°2898 pubblicato il 11 Maggio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Scienza: nuove prove genetiche su un ominide di 800mila anni fa Sono state recuperate le informazioni genetiche di un fossile appartenente a un ominide vissuto circa 800mila anni fa, le più antiche mai sequenziate A cura di Antonella Petris 3 Aprile 2020 15:56 Recuperate le informazioni genetiche di un fossile appartenente a un ominide vissuto circa 800mila anni fa, le più antiche mai sequenziate: potrebbero completare alcuni passaggi della nostra storia evolutiva. Questi i risultati di uno studio pubblicato sulla rivista Nature e condotto dai ricercatori dell'Universita' di Copenaghen in collaborazione con gli scienziati del Centro nazionale di ricerca sull'evoluzione umana (CENIEH), che hanno recuperato le informazioni genetiche da uno dei denti di un fossile appartenente alla specie Homo antecessor, una delle prime specie stabilitesi in Europa, tra 800mila e 1,2 milioni di anni fa. "Le analisi hanno dimostrato una stretta correlazione tra questa specie e umani moderni, Neanderthal e Denisoviani", spiega Frido Welker dell'Università di Copenaghen. Il team ha utilizzato una tecnica nota come spettrometria di massa per ricostruire le sequenze di Dna dallo smalto dentale e determinare la posizione di questa specie nella storia della nostra evoluzione. "I lignaggi umani e scimmieschi si sono separati tra i 7 e i 9 milioni di anni fa, ma gran parte di cio' che sappiamo oggi si basa sullo studio del Dna antico e sulle osservazioni della forma e della struttura fisica dei fossili rinvenuti", prosegue il ricercatore, specificando però che la degradazione degli acidi proteici non ha consentito ricostruzioni di materiale genetico antecedente a 400mila anni fa. "Grazie alla paleoproteomica, una nuova tecnica di indagine, e' ora possibile superare questo limite", osserva Enrico Cappellini, docente presso l'Universita' di Copenaghen. I fossili analizzati nello studio sono stati rinvenuti dal paleoantropologo Jose Maria Bermudez de Castro e dal suo team nel 1994 in uno dei siti archeologici della Sierra de Atapuerca, in Spagna. "I risultati ottenuti si basano sulla collaborazione di diversi campi di ricerca, dalla paleoantropologia alla biochimica, alla proteomica e alla genomica delle popolazioni. Il recupero di materiale genetico antico dagli esemplari fossili piu' rari richiede competenze e attrezzature di alta qualita'", commenta Jesper Velgaard Olsen, docente presso l'Universita' di Copenaghen. "Questa ricerca rappresenta una pietra miliare negli studi sulla paleoproteomica. La spettrometria di massa all'avanguardia ci ha permesso di determinare le sequenze di DNA all'interno dei resti proteici dello smalto dentale dell"Homo antecessor. Ora possiamo confrontare le antiche sequenze con i dati relativi ad altri ominidi, come i Neanderthal o i sapiens, per determinare come e quanto essi siano correlati", concludono i ricercatori, che si dichiarano impazienti di scoprire le nuove rivelazioni della paleoproteomica |
Post n°2897 pubblicato il 11 Maggio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Riprodotta la voce di una mummia di 3000 anni fa Gli scienziati dell'University of London a Royal Holloway hanno riprodotto il suono emesso dal tratto vocale di una mummia egizia di 3000 anni fa A cura di Antonella Petris 23 Gennaio 2020 20:40 Incredibile risultato arriva dalla Gran Bretagna: è stato riprodotto il suono emesso dal tratto vocale di una mummia egizia di 3000 anni fa. L'obiettivo è stato raggiunto dagli scienziati dell'University of London a Royal Holloway i quali per sintetizzare il suono hanno usando scansioni Ct, stampa 3D e una laringe elettronica. I risultati sono descritti in uno studio pubblicato su 'Scientific Reports'. Dall'elaborazione si è ottenuto un singolo suono, una vocale: la tecnica non permette infatti di arrivare a sintetizzare una frase. Al centro dello studio, un celebre reperto: la mummia di Leeds del 1100 a.C, appartenuta al sacerdote Nesyamun. "Le dimensioni precise del tratto vocale di un individuo producono un suono unico", ricordano i ricercatori. "Se è possibile risalire alle esatte dimensioni di uno specifico tratto vocale, i suoni possono essere sintetizzati utilizzando una 'copia' stampata in 3D e una laringe elettronica. Ma affinché ciò sia fattibile, i tessuti molli del tratto vocale originario devono essere discretamente intatti." Il team di David Howard e John Schofield ha usato la tomografia computeriz- zata per confermare che una parte significativa della struttura della laringe e della gola della mummia del sacerdote egiziano Nesyamun fosse rimasta intatta a seguito del processo di mummificazione. Ciò ha permesso agli autori di misurare e rilevare la forma del tratto vocale del sacerdote, proprio sulla base delle immagini rilevate dall'esame. In base a queste misurazioni, gli autori hanno ri-creato un tratto vocale stampato in 3D per Nesyamun e lo hanno utilizzato insieme ad una laringe artificiale. I ricercatori sono stati così in grado di riprodurre un singolo suono, una via di mezzo tra la vocale della parola inglese 'bed' e quella di 'bad'. Secondo gli studiosi si tratta della dimostrazione del fatto che un tratto vocale conservato per tre millenni ha importanti implicazioni sul modo in cui il passato viene proposto nel presente. E potrà permetterci di riascoltare la voce di personaggi che vivevano nell'antichità. |
Post n°2896 pubblicato il 11 Maggio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Quanta energia solare potrebbe produrre il Sahara? L'irraggiamento solare del Nord Africa è 3 volte superiore alla media europea. Basterebbe trasformarne una piccola parte in una "centrale solare gigante" per coprire il fabbisogno europeo. Ma i problemi da superare sarebbero comunque notevoli. Una centrale elettrica fotovoltaica nell'Oasi Bahariya, in Egitto. Nel 1986, all'indomani del disastro nucleare di Chernobyl, il tedesco Gerhard Knies, esperto in fisica delle particelle, tentò alcuni calcoli sulla quantità di energia necessaria a soddisfare il fabbisogno dell'umanità, pensando di sfruttare l'energia pulita, quella del Sole, da raccogliere nelle zone desertiche del nostro pianeta. Knies stimò infatti che in sei ore i deserti di tutto il mondo ricevono più energia di quanto l'umanità ne consumi in un anno. Secondo il ricercatore, un'area di circa 28mila chilometri quadrati (estesa poco più della Sicilia), se ricoperta di pannelli solari potrebbe produrre energia sufficiente alle esigenze europee, riducendo, fra l'altro, la necessità del Vecchio Continente di importare petrolio e gas da altri Paesi. L'attenzione, già da molti anni, si è ovviamente concentrata sul deserto africano del Sahara: talmente esteso che, se fosse una nazione, sarebbe la quinta più grande del mondo. MILIARDI DI BARILI. Secondo Amin Al Habaibeh, docente di Intelligent Engineering Systems dell'Università inglese di Nottingham Trent, il deserto del Sahara potrebbe soddisfare oltre 7.000 volte il fabbisogno elettrico europeo, con una produzione equivalente a oltre 36 miliardi di barili di petrolio al giorno e con emissioni di carbonio ridotte quasi a zero. Dati della Nasa alla mano, Al-Habaibeh considera che ogni metro quadro sulla Terra riceve ogni anno, in media, fra 2.000 e 3.000 chilowattora (in sigla KWh) di energia solare. In teoria, quella assorbita da ogni centimetro dei 9 milioni di kmq del deserto africano potrebbe rendere oltre 22 miliardi di gigawattora (GWh) all'anno. Il mega impianto solare del Marocco. Costruito nel deserto del Sahara, vicino alla città di Ouarzazate (che significa Porta del deserto), Noor 1 è la più grande centrale solare termodinamica del mondo. Copre una superficie di 1,4 km quadrati (equivalente a circa 200 campi di calcio). | NOOR/WORLD BANK DALL'AFRICA ALL'EUROPA. Un GWh corrisponde a 1 x 10^9 wattora (Wh), l'unità di misura definita come l'energia complessiva fornita se una potenza di un watt viene mantenuta per un'ora. Sempre a livello ipotetico, una fattoria solare che coprisse tutto il Sahara fornirebbe 2.000 volte più energia delle più grandi centrali elettriche del mondo, la cui produzione non va oltre i 100.000 GWh all'anno. La vicinanza geografica del deserto all'Europa rappresenterebbe un ulteriore vantaggio, considerando per esempio che il più lungo cavo di alimentazione sottomarino copre 600 km fra Paesi Bassi e Norvegia, mentre la distanza minima fra Africa ed Europa è rappresentata dai 15 km dello Stretto di Gibilterra. Non sono mancati, fino a oggi, i progetti mirati a estrarre l'energia solare dal deserto del Sahara: il più clamoroso, Desertec, era stato promosso nel 2009 dallo stesso Knies per realizzare entro il 2050 una vasta rete di campi di energia eolica e di pannelli solari in Medio Oriente e nel Nord Africa, connessi all'Europa attraverso cavi ad alta tensione. Il progetto però si arenò pochi anni dopo, quando gli investitori si ritirarono per i costi molto alti, oltre che per le inevitabili complessità di natura politica e commerciale. Altri progetti sono ora in fase di studio o di realizzazione, con l'idea di soddisfare in maniera sostenibile innanzitutto il fabbisogno energetico locale, ma anche una parte progressivamente crescente dell'Europa. Sono comunque numerosi gli impianti di dimensioni relativamente contenute che già operano nel Sahara. TECNOLOGIE COMPLESSE. Le tecnologie utilizzate per produrre elettricità dal Sole sono principalmente due: la Csp (Concentrating solar power), energia solare concentrata, e i comuni pannelli solari fotovoltaici. La Csp focalizza in un punto l'energia solare attraverso lenti o specchi, accumulando in quell'area un immenso calore che genera elettricità per mezzo di turbine a vapore: è probabilmente la più indicata per l'ambiente desertico e le elevate temperature da gestire, ma lo svantaggio maggiore è che i sistemi di riscaldamento a turbina e vapore non rappresentano tecnologie semplici da gestire. IMMENSO SERBATOIO. I pannelli solari fotovoltaici utilizzano invece i semiconduttori per convertire direttamente l'energia solare in elettricità; sono più pratici da utilizzare, soprat- tutto in impianti di piccola portata, ma diventano meno efficienti quando si riscaldano, dunque le temperature diurne del deserto possono rappresentare un grosso ostacolo. È da considerare poi come la sabbia trasportata dal vento possa facilmente ricoprire lenti, specchi e pannelli; nell'uso di entrambe le tecnologie, quindi, molte componenti necessitano di una costante pulizia, non facilissima nel deserto a causa della scarsità delle risorse idriche. Secondo gli esperti, dunque, la soluzione migliore sarebbe quella di integrare in qualche modo le due tecnologie in un sistema ibrido, in grado di sfruttare nella maniera più efficiente l'immenso serbatoio di radiazioni solari che si riversa in uno dei posti meno ospitali del nostro pianeta. Roberto Mammì per Focus Domande & Risposte |
Post n°2895 pubblicato il 11 Maggio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Prima della Pasqua: le uova decorate di 5.000 anni faNell'Età del Bronzo e del Ferro, le uova di struzzo intagliate erano una merce di lusso molto in voga: uno studio rivela le loro affascinanti origini. Uno struzzo custodisce gelosamente le sue uova: illustrazione dal Libro degli Animali dell'erudito arabo Al-Jāḥiẓ (IX secolo). | WIKIMEDIA COMMONS Se tra i 2.500 e i 500 anni prima di Cristo si voleva fare colpo su qualcuno, conveniva puntare su dono fragile ed esotico: per esempio il guscio di un uovo di struzzo finemente intagliato e decorato. Nel corso dei decenni ne sono stati trovati diversi, nelle tombe dei più ricchi rappresentanti delle civiltà mediter- ranee e mediorientali vissuti nelle Età del Bronzo e del Ferro. Finora però origine e produzione di questi articoli di lusso erano rimaste avvolte dal mistero. SPEDITE DA LONTANO. Per vederci più chiaro, un gruppo di archeologi del Regno Unito ha analizzato più da vicino una collezione di uova di struzzo conservata al British Museum di Londra, che comprende cinque gusci intatti e finemente decorati scoperti nella Tomba d'Iside, nella Necropoli etrusca della Polledrara presso Vulci, nel Lazio. La tomba, rinvenuta nel 1839 da Luciano Bonaparte (fratello di Napoleone), risale al 600 a.C.. Quando fu trovata, conteneva un corredo di oggetti preziosi come gioielli in oro e posate in bronzo, oltre a una serie di manufatti che testimoniavano i contatti commerciali tra Etruschi ed Egizi. Tutte e cinque le uova sono dipinte e quattro risultano anche intagliate con figure geometriche e disegni di animali, carri e soldati. L'analisi isotopica dei reperti e di altri frammenti di guscio rinvenuti in una dozzina di siti archeologici del Mediterraneo e del Medio Oriente ha permesso di confrontare la composi- zione chimica dei gusci e ricostruire i viaggi di queste delicate merci. Le uova furono raccolte e intagliate da artigiani assiri e fenici, per essere poi scambiate su rotte commerciali più intricate del previsto: in una stessa tomba erano presenti uova prodotte in aree geografiche diverse. ATTESA E PERICOLI. Le analisi dei gusci al microscopio elettronico a scansione hanno rivelato una grande quantità di tecniche di incisione e pittura, a testimonianza di una particolare cura nella lavorazione. Prima di essere decorate, le uova dovevano essere lasciate ad asciugare per un certo periodo: questo passaggio richiedeva un investimento di spazio e di denaro non trascurabile, che faceva salire ulteriormente il valore di questi doni. Inoltre, gli scienziati sono convinti che le uova venissero sottratte direttamente dai nidi di struzzo selvatico e non da quelli di uccelli allevati in cattività. Una sorta di caccia all'uovo pasquale ante litteram, ma un po' più adrenalinica: uno struzzo innervosito può essere molto aggressivo, e procurarsi le uova comportava una certa dose di rischio. |
Post n°2894 pubblicato il 11 Maggio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet. Prima dei Faraoni: un antico insediamento nel delta del NiloScoperto un insediamento del Neolitico, risalente a 2.500 anni prima della costruzione delle Piramidi di Giza, con gli indizi sulla nascita dell'agricoltura in Egitto. Il Delta del Nilo in una foto da satellite. Vedi anche: l'Antico Egitto dall'alto: un insolito punto di vista. | NASA I resti di un insediamento umano abitato cinquemila anni prima di Cristo sono venuti alla luce in un area molto fertile del delta del Nilo, a Tell el-Samara, 140 km a nord del Cairo. Il villaggio del Neolitico, scoperto grazie al lavoro di un team di archeologi francesi ed egiziani, era vitale e attivo circa 7.000 anni fa, ossia 2.500 anni prima della costruzione delle Piramidi di Giza e 2.000 anni prima che il semi leggendario faraone Menes unificasse Alto e Basso Egitto. Si tratta di uno dei più antichi resti di comunità umana mai ritrovati nella regione. PROVVISTE MILLENARIE. Gli scienziati hanno rinvenuto silos contenenti resti di ossa animali e materiale vegetale (reperti importanti ai fini della datazione), nonché strumenti di pietra e vasellame compatibili con la presenza di una comunità stanziale. La notizia del ritrovamento è stata data il 2 settembre dal Ministero delle Antichità egiziane. LE RADICI DELLA FORTUNA. L'analisi del materiale biologico scoperto nei silos fornirà un quadro più completo sulle prime comunità che popolarono il delta del Nilo e sulle origini di agricoltura e allevamento in Egitto. Secondo gli archeologi, le pratiche di sussistenza nel villaggio erano fortemente dipendenti dalla pioggia, e l'analisi dei reperti potrebbe fare luce sullo sviluppo dei sistemi di irrigazione che resero l'ampia foce del fiume sacro così ricca - dal punto di vista agricolo - nei millenni che seguirono. IMBALSAMATORI PRECOCI. Restando in tema di antico Egitto, un paio di settimane fa un'altra scoperta ha rivelato che anche la "ricetta" di sostanze usate per la mummificazione era già conosciuta e diffusa almeno 1.500 anni prima di quanto comunemente accettato, ed era già praticata 5.600 anni fa. Benché nell'area di Tell el-Samara non siano stati ritrovati reperti funebri, il quadro dell'Egitto pre-faraonico inizia gradualmente a farsi più chiaro. |
Post n°2893 pubblicato il 11 Maggio 2020 da blogtecaolivelli
Uno scheletro riscrive la storia delle popolazioni precolombiane? Uno scheletro trovato nelle grotte messicane di Tulum porta a nuove ipotesi sulle origini delle popolazioni precolombiane. Lo scheletro rinvenuto in Messico, che sta fornendo nuove preziose informazioni sulle popolazioni precolombiane. | STINNESBECK ET AL. Tulum, in Messico, è un enorme sistema di grotte, dove, di tanto in tanto, si fanno scoperte archeologiche di grande valore. L'ultima, di un ricercatore della Universität Heidelberg, Germania, è stata appena pubblicata sulla rivista Plos One. Era noto che quell'area fosse abitata fin dal tardo Pleistocene, ossia attorno a 12.000 anni fa: quel che sappiamo di quelle popolazioni ci è arrivato proprio grazie agli studi su nove scheletri ben conservati rinvenuti nelle caverne sommerse presso lo doline di Tulum. UN NUOVO SCHELETRO. Quello che è venuto alla luce ora è un nuovo scheletro, completo al 30 per cento che è stato chiamato "Chan Hol 3", dal nome della grotta sottomarina di Chan Hol, dove è stato trovato. Il cranio è stato sottoposto ad una approfondita analisi non invasiva che ne ha permesso la datazione. Si è scoperto che apparteneva ad una donna vissuta quasi 10mila anni fa e che al momento della morte aveva circa 30 anni. Il cranio è stato definito di tipo "mesocefalico", cioè non particolarmente largo, né stretto, con zigomi larghi e fronte piatta. Così come gli altri crani trovati nello stesso luogo anche questo presenta carie nei denti, il che significa che quelle popolazioni avevano una dieta piuttosto ricca in zuccheri. IL CONFRONTO. Le analisi craniometriche poi, sono state messe a confronto con altri 452 teschi provenienti dal Nord, Centro e Sud America oltre a quelli presenti nelle grotte di Tulum. Il risultato di tale confronto ha portato gli archeologi a stabilire che in Messico vivevano almeno due gruppi umani, morfologica- mente diversi tra loro, nel periodo di passaggio tra il Pleistocene e l'Olocene (la nostra epoca attuale). Spiega Wolfgang Stinnesbeck, responsabile dello studio: «Gli scheletri di Tulum portano ad avanzare alcune ipotesi da approfondire. La prima vuole che in Messico arrivarono popolazioni in periodi molto diversi tra loro così da essere già diversificate, la seconda invece sostiene che fossero arrivate più meno nello stesso periodo, ma che, successivamente, si siano separate in gruppi diversi tra loro fino al punto da assumere aspetti morfologici differenti. Se questa seconda ipotesi fosse corretta, è assai probabile allora che l'arrivo dei primi coloni in Centro America sia avvenuto molto prima rispetto a quanto creduto finora» |
Post n°2892 pubblicato il 11 Maggio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Quando il Sahara era pieno di pesci Scavo record nel deserto del Sahara, nel sud-ovest della Libia: oltre 17.000 fossili, l'80% dei quali appartenenti a pesci. Le montagne del Tadrart Acacus, in Libia. | PATRICK POENDL / SHUTTERSTOCK Il deserto del Sahara è... un deserto: un'immensa distesa di sabbia dove l'acqua è quasi introvabile e dove certamente nessuno si aspetta di incontrare dei pesci. Eppure fino a meno di 5.000 anni fa quella che oggi è una zona arida e bollente era umida, ricca d'acqua, di piante, di fauna inaspettata e anche di insediamenti umani; lo sappiamo da tempo e lo dimostra in maniera spettacolare uno studio pubblicato su PLOS One e condotto su oltre 17.000 esemplari fossili ritrovati nel sud-ovest della Libia da un team misto del Natural History Museum del Belgio e dell'Università La Sapienza di Roma. UN BANCHETTO PREISTORICO. La zona degli scavi, le montagne del Tadrart Acacus in Libia, è ben nota ai paleontologi e agli archeologi: l'intera area è patrimonio dell'umanità UNESCO per l'enorme quantità di pitture rupestri che vi si trovano. Lo studio di Van Neer e Di Lernia, però, si è concentrato sui resti animali ritrovati nella zona, in particolare dove si trovano anche tracce di insediamenti umani. Il team ha identificato qualcosa come 17.551 resti fossili, che risalgono a un periodo che va da 10.200 a 4.650 anni fa e che appartengono a una gamma vastissima di gruppi animali, dai molluschi agli uccelli, dai rettili agli anfibi. ANCHE QUESTA SERA, GRIGLIATA DI PESCE. I veri protagonisti del ritrovamento sono però i pesci, ai quali appartengono quasi l'80% dei fossili rinvenuti (contro il 19% dei mammiferi - agli altri rimangono le briciole). In particolare sono stati riportati alla luce molti esemplari di ciclidi e di pesce gatto, ambedue con evidenti segni di bruciature e tagli - segnale che venivano preparati e mangiati dagli umani che lì avevano stabilito le loro dimore. Non solo, i ricercatori hanno scoperto che la percentuale di pesci cala con il passare del tempo: nei resti di 10.000 anni fa, ciclidi e pesci gatto costituiscono il 90% del totale, mentre in quelli di 4.650 anni fa scendono al 40%, sostituiti dai mammiferi. Secondo gli autori dello studio la causa è l'inizio del processo di desertificazione del Sahara, che ha fatto gradualmente sparire le zone umide favorevoli ai pesci. I ciclidi in particolare sono quelli più colpiti, mentre i pesci gatto se la sono cavata meglio, almeno per un po', dal momento che sono dotati di organi che consentono loro di respirare aria e di sopravvivere anche in pozze d'acqua molto calda e poco profonda. 1 MARZO 2020 | GABRIELE FERRARI |
Post n°2891 pubblicato il 11 Maggio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Sepolti col caschetto: una macabra scoperta archeologica in EcuadorDue bambini vissuti 2100 anni fa furono sepolti con un casco di ossa attorno al capo, ottenuto dal cranio di altri ragazzi. Si indaga sul motivo del lugubre rituale. Il cranio di un bambino protetto da quello di un altro: è la prima volta che si osserva questa forma di sepoltura. | Una serie di scavi condotti in Ecuador ha riportato alla luce un tipo di sepoltura mai documentata prima in archeologia, tanto insolita quanto "forte", per la sensibilità moderna. In un tumulo di 2.100 anni fa sono stati rinvenuti i resti di due bambini con il cranio avvolto da una specie di casco osseo: analisi più accurate hanno poi rivelato che l'elmetto altro non era che il cranio di altri bambini, deceduti nello stesso periodo. La scoperta è descritta su Latin American Antiquity. UNO ATTORNO ALL'ALTRO. Gli archeologi dell'Università del North Carolina di Charlotte si sono imbattuti nel macabro ritrovamento mentre lavoravano in uno scavo precolombiano di Salango, nel nord del Paese, tra il 2014 e il 2016. In due piccoli tumuli funebri hanno ritrovato i resti di otto bambini di pochi mesi, di uno un po' più grande e di due adulti. I corpi erano circondati da statuine di pietra e conchiglie, una consuetudine osservata anche in altre sepolture. Ma le spoglie di due neonati hanno in particolare attirato l'attenzione. La loro testa era infatti circondata da una più grande calotta cranica, un'usanza mai documentata prima d'ora. In un caso, il corpo principale apparteneva a un bambino di 18 mesi, e il cranio attorno al suo capo a un altro bambino di età compresa tra i 4 e i 12 anni. Tra i due strati di ossa sono stati ritrovati una conchiglia e una falange. Il secondo neonato doveva avere tra i 6 e i 9 mesi al momento della morte: attorno al cranio, aveva quello di un bambino dai 2 ai 12 anni di età. Secondo gli scienziati il fatto che i "caschi" calzassero perfet- tamente, e che non fossero danneggiati al momento della giustap- posizione, rivela che i decessi dei quattro bambini dovettero avvenire nello stesso periodo di tempo, e che i crani usati come rivestimento erano, al momento del rituale, ancora completi di carne. PROTEZIONE. Qual è dunque il motivo del cruento - e per quanto ne sappiamo insolito - rituale? Secondo gli archeologi, la testa aveva una forte valenza simbolica presso le culture precolombiane: era considerata un simbolo di indentità e molto sfruttata con questo significato nell'iconografia. «Le teste rappresentano in genere potere, antenati, e possono servire a mostrare predominio su altri gruppi - per esempio, attraverso la creazione di teste trofeo dei nemici sottomessi» spiega Sara Jeungst, a capo dello studio. Accompagnare bambini così piccoli con il cranio di altri minori era forse un modo per proteggere la loro anima. STESSA SORTE. Quanto alle ragioni della morte dei piccoli, essa non sembra legata ai sacrifici umani diffusi tra queste culture. I bambini, malnutriti, sono stati trovati sopra uno strato di ceneri vulcaniche associato a un'eruzione nei rilievi vicini. Potrebbero essere stati tutti vittime dello stress nutrizionale successivo agli eventi eruttivi (problemi nelle coltivazioni, diffusione di epidemie). Si comprenderebbe così anche la necessità di circondarli di figure protettive, rappresentanti gli antenati: tutta questa cura serviva forse anche a placare un vulcano attivo. |
Post n°2890 pubblicato il 11 Maggio 2020 da blogtecaolivelli
La natura esplode con gli umani in lockdown Il reportage FOTO e VIDEO dalle coste tra Sorrento, Napoli e Ischia FOTOProcida, Marina Corricella FOTO di Pasquale Vassallo per Ansa,it - RIPRODUZIONE RISERVATA+CLICCA PER INGRANDIRE Martino Iannone07 maggio 202019:01NEWS La bellezza della natura mentre gli umani sono in lockdown esplode in tutta la sua magia lungo le coste tra Sorrento, Procida e Ischia. Ad immortalare in questi giorni di pandemia i colori e le suggestioni di questi luoghi, dalle falesie della costiera amalfitana al promontorio di Sant'Angelo d'Ischia, dalle antiche torri di avvistamento di Massa Lubrense alla variopinta Marina Corricella, a Procida, passando per la baia di Ieranto e la baia Cartaromana ai piedi del Castello aragonese, tra pesci luna e aguglie imperiali, madrepore, gorgonie e prateria di posidonia, è #LeMeraviglieDelleAreeProtetteAcasa. Si tratta di una campagna promossa dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. Gli scatti sono del fotografo subacqueo Pasquale Vassallo mentre il video dall'alto è stato realizzato dal drone manovrato da Francesco Rastrelli. I due, scortati dalla Guardia Costiera, hanno perlustrato una serie di punti dei due Parchi marini. In volo su Punta Campanella: ripartire senza mortificare l'ambiente La biodiversità delle aree marine protette "Punta Campanella" e "Regno di Nettuno", corroborata da una consistente riduzione dell'inquinamento acustico e del traffico da diporto, il mare del golfo di Napoli ,si mostra in ottima salute. L'obiettivo del reportage, in linea con quanto sottolineato dalla direttrice generale del Ministero, Maria Carmela Giarratano, non è solo quello di rilanciare la conoscenza delle aree di maggior pregio ambientale del nostro territorio, ma è anche quello di costruire insieme con chi ci seguirà da casa un percorso che favorisca, nel post Covid-19, un maggior rispetto delle bellezze naturali, della biodiversità di quell'Italia Paese parco che può costituire una auspicabile leva per la crescita del turismo sostenibile". "Mostrare la bellezza sommersa delle nostre Aree Marine Protette- spiega il direttore di Punta Campanella e del Regno di Nettuno, Antonino Miccio - è il modo più efficace per sensibilizzare la popola- zione verso una tutela sempre maggiore degli ecosistemi marini, mettendo a frutto il grande insegnamento di una drammatica pandemia per favorire un cambio di paradigma che si traduca in un rapporto il più armonico possibile con l'ambiente che ci circonda". RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA |
Post n°2889 pubblicato il 11 Maggio 2020 da blogtecaolivelli
Il posto più pericoloso della storia della Terra 100 milioni di anni fa il Sahara era un luogo pericoloso, una pianura fertile abitata da predatori di ogni forma e dimensione. Le montagne di Errachidia, alle porte dei Kem Kem Beds | JOERG STEBER / SHUTTERSTOCK Qual è il posto più pericoloso del Pianeta? Forse il cratere di qualche vulcano, d'accordo, o il fondo della fossa delle Marianne. Ma se escludiamo questi casi estremi, qual è l'angolo della Terra nel quale nessuna potenziale preda vorrebbe mai dover mettere piede? La risposta oggi sceglietela voi, ma se guardassimo all'intera storia della vita sulla Terra c'è un luogo sul quale tutti i paleontologi concorderebbero, in particolare dopo la pubblicazione del più grande studio paleontologico mai condotto sull'area: si tratta di quello che oggi è il deserto del Sahara, che 100 milioni di anni fa, durante l'era dei dinosauri, era, secondo il primo autore dello studio Nizar Ibrahim, «il posto più pericoloso della storia del Pianeta». CENT'ANNI DI FOSSILI. Ibrahim e i suoi colleghi hanno visitato collezioni paleontologiche di tutto il mondo per raccogliere dati sui fossili ritrovati nei Kem Kem Beds, una formazione geologica del Marocco sudorientale al confine con l'Algeria che risale al Cretaceo e che contiene moltissime tracce fossili della fauna che popolava il continente africano durante l'epoca dei dinosauri. Il risultato è, stando a uno dei co-autori dello studio, «il lavoro più completo sui vertebrati fossili del Sahara da almeno un secolo a questa parte», che ci regala un ritratto dettagliato di un'area che oggi conosciamo come un deserto, ma che 100 milioni di anni fa era fertile e popolosa. IL POSTO PIÙ PERICOLOSO DEL PIANETA. Il Kem Kem nel Cretaceo era un'area verde e attraversata da fiumi ricchissimi di pesci, che da soli sostenevano gran parte della fauna terrestre. E non parliamo di pesciolini rossi, ma di giganti come il celacanto, che già oggi può raggiungere 2 metri di lunghezza, e che al tempo era quattro o cinque volte più grosso. Non sorprende quindi che anche i loro predatori fossero altrettanto enormi: nel Kem Kem si trovano tre tra i dinosauri carnivori più grossi di sempre, tra cui Carcharodontosaurus e Deltadromeus, entrambi lunghi circa 8 metri. E ovviamente non mancavano gli pterosauri, i rettili volanti, alcuni dei quali (per esempio gli Azhdarchidae) potevano raggiungere i 12 metri di apertura alare. Secondo Ibrahim, «un viaggiatore del tempo umano non durerebbe a lungo in un posto simile». |
Post n°2888 pubblicato il 11 Maggio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet 5 metri di coda che riscrivono i libri sui dinosauri Ricostruzione dell'aspetto di Spinosaurus in vita. Illustrazione: Davide Bonadonna. Un nuovo capitolo si è aggiunto all'affascinante storia che riguarda il più grande dinosauro predatore di tutti i tempi, lo Spinosauro, ed è la ricostruzione completa della sua enorme coda. Rimasta sepolta per milioni di anni sotto la sabbia del Sahara, è stata presentata al mondo proprio qualche giorno fa da un team internazionale di paleontologi, tra cui Cristiano Dal Sasso del Museo di Storia Naturale di Milano e Simone Maganuco (affiliato alla associazione APPI e al Museo di Milano). Simone Maganuco e Ajoub Amane alle prese con la ricostruzione della coda di Spinosauro all'Università di Casablanca. Foto: Gabriele Bindellini. La scoperta, pubblicata in un articolo scientifico su Nature, dimostra quello che i paleontologi avevano supposto da tempo. E cioè che questo animale, vissuto 100 milioni anni fa, aveva una spiccata predilezione per il nuoto. La sua lunga coda pinnata - di cui è stato trovato l'80% delle ossa per una lunghezza di 5 metri - alta e piatta come in certi tritoni, lascia immaginare la potenza di avanzamento nel fluido di questo super predatore. Che da adulto misurava 15 metri, 2 metri in più del Tyrannosaurus rex. "Lavorando ai modelli tridimensionali ci siamo subito accorti che questa coda a nastro era un potente organo di propulsione, perfetto per cacciare nei grandi fiumi del Cretaceo", spiega Simone Maganuco.
riscrivere tutti i libri sui dinosauri - precisa Cristiano Dal Sasso -. Infatti, fino ad ora, non avendone mai trovata una, la coda dello Spinosauro è sempre stata ricostruita come quella di tutti gli altr i dinosauri". Quest'ultima raccolta di ossa, straordinariamente ricca, permette inoltre di affermare che Spinosauro è il dinosauro predatore più completo di tutta l'Africa continentale.
dello Spinosauro. Foto: Diego Mattarelli. 40 vertebre e un nuovo identikit Le ossa della coda sono state estratte durante una serie di campagne di scavo eseguite tra il 2015 e il 2019 nel deserto del Sahara marocchino sudorientale. I paleontologi hanno lavorato nelle stesse alture che tra il 2008 e il 2014 avevano restituito altri importanti tasselli per la ricostruzione di Spinosaurus aegyptiacus e che avevano portato alla pubblicazione della scoperta sulla rivista Science. Si tratta dei "letti del Kem Kem", pendii desertici e rocciosi appartenenti a un antico sistema fluviale che si estendeva dal Marocco all'Egitto. Le ossa della coda erano lì, a pochissima distanza dal punto in cui i paleontologi avevano estratto i precedenti reperti, nello stesso strato di roccia e fanno dunque parte dello stesso animale. Si tratta di quasi 40 vertebre e altre ossa della coda che hanno consentito di tracciare un identikit più completo di questo dinosauro predatore, che aveva fauci da coccodrillo, una grande vela sul dorso e, soprattutto, una possente coda appiattita. Che si tratti dello stesso esemplare lo conferma anche l'analisi paleoistologica, condotta alla Yale University da Matteo Fabbri, in seguito alla quale si è potuto stabilire che si trattava un individuo subadulto.
le poche ossa mancanti). Al centro, vertebre e relative sezioni, con aggiunta della muscolatura, in tre punti della coda. In basso, il nuovo e insospettato aspetto dello spinosauro. Disegni: Marco Auditore. Foto: Gabriele Bindellini. Un nuoto ondulatorio Poco deformate dalla fossilizzazione, le ossa hanno permesso di giungere alla conclusione che la coda avesse articolazioni molto snodate e una flessibilità laterale elevata. Alla base erano presenti grandi fasci muscolari, mentre lunghe spine sulle vertebre la rendevano alta e piatta, adatta a spostare l'acqua come una pagaia. Lo Spinosauro aveva, dunque, un nuoto ondulatorio e la grande coda era il suo motore. Questo dimostra definitivamente che mentre alcuni dinosauri riuscirono a spiccare il volo, dando origine agli uccelli, altri si adat- tarono invece alla vita acquatica, appropriandosi di nuovi habitat. Non solo: dimostra che non tutti i dinosauri privi di penne furono confinati agli ecosistemi di terraferma, come invece si era creduto sino ad ora. Sopra, test sulla efficienza propulsiva di una sagoma in plastica della coda di Spinosauro, immersa in un flusso d'acqua e confrontata con altri tipi di code (a destra). Modello digitale: Davide Bonadonna. Foto e grafica: Stephanie Pierce. Disegni: Marco Auditore. Nel tunnel dell'acqua Gli esperti di biomeccanica dell'Università di Harvard hanno realizzato diversi prototipi di code per cercare di capire la forza propulsiva di Spinosauro. Immerse nel tunnel dell'acqua, come in una galleria del vento, le sagome - di uguale lunghezza, ma di forme differenti - hanno rivelato che la coda di Spinosauro era più performante di quella di altri dinosauri predatori terrestri e molto più vicina nelle prestazioni a quelle dei coccodrilli. Spinosauro nuotava bene anche controcorrente e la grande vela dorsale lo stabilizzava, impedendogli di inclinarsi su un lato. Le zampe avevano un ruolo secondario, potevano aiutare nel nuoto, ma non erano essenziali. Un aspetto non del tutto compreso fino a questa determinante scoperta della coda. La ricostruzione dell'aspetto di Spinosauro, realizzata in digitale da Davide Bonadonna, ha permesso di capire le abitudini di vita di questo animale, il cui peso doveva essere di 3,5 tonnellate per 10 metri di lunghezza. Il suo baricentro, avanzato rispetto ai piedi e al bacino, fa supporre che sulla terraferma avanzasse piuttosto goffamente sulle quattro zampe, a riprova che era una creatura spiccatamente acquatica. Nuovi scenari dell'evoluzione Gli spinosauridi appartengono ai Tetanuri, lo stesso ceppo che ha dato vita agli uccelli. La cosa curiosa è che i Tetanuri sono caratterizzati da code lunghe e rigide... Per i paleontologi Spinosauro rappresenta, dunque, un "esperimento evolutivo" unico, senza eguali nel regno animale. «Da 220 milioni di anni a questa parte, nella lunga storia dei dinosauri non ne è mai comparso nessun altro con una coda così. Questa scoperta - spiegano - amplia incredibilmente le conoscenze attuali sulla paleobiologia dei dinosauri e apre orizzonti eccitanti e inaspettati». Gli spinosauridi furono presenti su tutto il Pianeta per più di 30 milioni di anni e da oggi dovranno essere reinterpretati alla luce di Spinosauro. C'è da aspettarsi che invasero gli habitat acquatici di molte aree, diventandone i dominatori. Le ossa di Spinosauro sono conservate all'Università di Casablanca. Un modello in grandezza naturale sarà presto esposto in Baviera al Centro Esposizioni Lokschuppen di Rosenheim, uno degli enti sostenitori delle ricerche. La riproduzione in carne e ossa è italiana ed è il risultato di una collaborazione tra Prehistoric Minds e Di.Ma. Dino Makers.
Da sinistra a destra, procedendo dall'alto: Simone Maganuco, Ayoub Amane, M'Barek Fouadassi, Nizar Ibrahim, Samir Zouhri, Cristiano Dal Sasso, Gabriele Bindellini, Marco Auditore, Matteo Fabbri, Diego Mattarelli, Hamid Azroal, Mhamed Azroal. Foto: Gabriele Bindellini. Il gruppo di ricerca Il gruppo di scavo e di studio è stato coordinato da Nizar Ibrahim (Università di Detroit Mercy). Oltre a Cristiano Dal Sasso e Simone Maganuco, ne hanno fatto parte altri 14 ricercatori tra cui gli italiani Matteo Fabbri, Marco Auditore, Gabriele Bindellini, Diego Mattarelli e Davide Bonadonna. Altri autori della ricerca sono David Martill (University of Portsmouth, UK), Samir Zouhri e Ayoub Amane (Université de Casablanca, Maroc co), David Unwin (University of Leicester, UK), Jasmina Wiemann (Yale University, USA), Juliana Jakubczak (University of Detroit Mercy, USA), Ulrich Joger (Staatliches Naturhistorisches Museum, Braunschweig, Germania), George Lauder e Stephanie Pierce (Harvard University, USA). A sostenere le campagne di scavo, la National Geographic Society con il supporto di varie università e del Museo di Storia Naturale di Milano. Autrice: Laura Floris © RIPRODUZIONE RISERVATA E CITAZIONE FONTE: RIVISTANATURA.COM |
Post n°2887 pubblicato il 11 Maggio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Un modo apparentemente indiretto ma importantissimo per sviluppare un adeguata coscienza ambientale (e non solo) è ovviamente quello di leggere ed approfondire, possibilmente in modo attivo, ovvero "accendendo il cervello", pensando e scegliendo le fonti informative giuste. Un percorso che solo la lettura vera, non distratta e di corsa, può dare. In tal senso la lettura cartacea, quella di un buon libro o di una bella rivista (compresa la nostra), è ancora il modo migliore per fare ciò. Purtroppo, come noto, in Italia il settore dell'editoria è in crisi da tempo, sebbene negli ultimi tempi vi siano timidi cenni di rallenta- mento di tale tendenza, almeno a livello di libri (per i quotidiani e le riviste invece la situazione continua ad essere durissima). Mercato in ripresa ma molti non leggono Secondo l'ultimo "Rapporto sullo stato dell'editoria in Italia 2019", infatti, il mercato nazionale del libro ha chiuso il 2018 con un fatturato di 3,170 miliardi di euro, in crescita del 2,1% rispetto all'anno precedente, consolidando il risultato del 2017 (+4,5%). Sono 4.972 le case editrici che hanno pubblicato almeno un titolo nel corso dell'anno (+1,4% rispetto al 2017), per un totale di 78.875 nuovi titoli cartacei pubblicati lo scorso anno. Quella che continua a mostrare segni deprimenti è invece l'abitudine alla lettura degli italiani, dove solo il 62% della popolazione tra i 15 e i 75 anni legge almeno un libro all'anno (sigh!), un dato certo non confortante, ma più attenuato rispetto al calo ancora maggiore rilevato tra il 2011 e il 2014. Niente pranzi infiniti E allora viene in mente una bella tradizione che potrebbe invogliare un ulteriore ritorno alla lettura, almeno in questo periodo, dove si sta più volentieri a casa. L'esempio positivo viene dalla fredda Islanda: si chiama Jólabókaflód ed è la tradizione tutta locale di regalare libri a Natale e iniziare subito a leggerli. Ovvero non li accumulano sul comodino e, senza aspettare, gli islandesi dedicano tutto il 25 dicembre alla lettura di uno dei libri ricevuti in regalo. Niente pranzi infiniti, niente tombola o Mercante in fiera, niente TV ma solo sana lettura, e rigorosamente in carta. Magari davanti a un camino o ad una stufa, con un buon tè, sul divano o seduti sulla poltrona preferita, da soli o in compagnia. Un bellissimo viaggio Jólabókaflód vuol dire letteralmente "inondazione di libri" ed è una consuetudine a cui gli islandesi non vogliono proprio rinunciare e che risale alle Seconda Guerra Mondiale, quando ricevere dei libri era un regalo indimenticabile. Tutto comincia già a novembre, quando i cittadini ricevono il catalogo con le nuove pubblicazioni dal Bókatídindi, l'Associazione degli editori islandesi. Da qui, le persone scelgono cosa vogliono leggere e regalare: è così che inizia un viaggio bellissimo nei libri che termina la notte di Natale. Una bella usanza che potremmo riprendere anche noi, magari con un occhio particolare ai libri dedicati alla natura, che anche in italiano sono ormai sempre più belli ed interessanti. Autore: Armando Gariboldi © RIPRODUZIONE RISERVATA FONTE: RIVISTANATURA.COM |
Post n°2886 pubblicato il 11 Maggio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet 10 aprile 2020 E il Neanderthal filava le fibre naturali Immagine al microscopio elettronico dei resti di fibre trovati nel sito di Abri du Maras (©PM-H. Monce) Più di 40.000 anni fa, i nostri antichi cugini estinti avevano le conoscenze necessarie per ricavare fibre naturali dalle cortecce degli alberi e ottenere filati che poi potevano usare per produrre oggetti di uso quotidiano, dalle corde ai cesti, dai vestiti alle reti da pesca. È quanto emerge dall'analisi di nuovi resti archeologici, che si aggiungono ad altri che mostrano complesse capacità cognitive dei Neanderthal. Le capacità cognitive dei Neanderthal continuano a stupire. Da qualche anno ormai emerge un nuovo quadro che testimonia la ricchezza culturale dei nostri antichi cugini estinti, grazie a una documentazione archeologica sempre più ampia che costringe a rivedere, in meglio, la visione dei neanderthaliani come bruti, incapaci di espressioni sofisticate e intelligenti. A questa documentazione si aggiunge ora la scoperta di alcuni resti nel sito di Abri du Maras, in Francia, risalenti a 41.000- 52.000 anni fa, che testimoniano l'uso di fibre naturali per produrre filati. e colleghi di una collaborazione internazionale descrivono il reperto su "Scientific Reports": si tratta di un frammento di corda lungo sei millimetri, costituito da tre fasci di fibre attorcigliate tra loro, ottenute probabilmente dalla corteccia interna di un albero, come una conifera, secondo l'analisi effettuata con tecniche spettroscopiche e microscopiche. Le fibre aderiscono a uno strumento in pietra sottile e lungo 60 millimetri: l'ipotesi è che la corda fosse avvolta attorno allo strumento come un manico o facesse parte di una rete o di un sacchetto contenente lo strumento. Secondo gli autori, il reperto fornisce numerosi indizi su quali potessero essere gli oggetti di uso quotidiano di questi neanderthaliani, sulle loro conoscenze dell'ambiente circostante e sulle possibilità di sfruttarne le risorse. dovevano sapere come reperire la materia prima, e di conseguenza avere una conoscenza approfondita degli alberi più utili a questo scopo, nonché della loro crescita e stagionalità: le fibre sono infatti più facili da staccare dalla parte interna delle cortecce in primavera. Inoltre, una volta acquisita la tecnica dell'intreccio, il filato poteva essere la base per produrre corde, vestiti, cesti, tappeti, reti da pesca o addirittura imbarcazioni, come si osserva in quasi tutte le culture tradizionali o arcaiche. implica a sua volta il possesso di basilari concetti matematici e anche capacità di calcolo di base, necessarie per creare per esempio filati avvolgendo le fibre in senso orario e poi diversi filati tra loro in senso anti-orario per produrre una corda. menti di resti di catrame di betulla, conchiglie e manufatti artistici, componendo un quadro molto complesso e articolato delle capacità dei Neanderthal. Gli autori concludono che è sempre più insostenibile l'idea di un'inferiorità cognitiva di questa specie rispetto agli esseri umani moderni. è molto più antica di quanto stimato in precedenza, dato che prima di questo studio i più antichi frammenti di fibra scoperti provenivano dal sito di Ohalo II in Israele, risalente a circa 19.000 anni fa. (red) |
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