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Messaggi di Marzo 2022

"Pietà" per Putin

Post n°1117 pubblicato il 27 Marzo 2022 da giuliosforza

1023

   Provo, non sussultate, pietà umana per Putin, come per ogni dittatore più o meno dichiarato. E mi spiego.

   Il dittatore è il vertice di una piramide sotterranea di cui molti di noi, per ipocrisia o imperdonabile ingenuità, fingiamo di non accorgerci. La piramide sono i potentati politici, economici, confessionali, guerrafondai, settaristici che ne rappresentano il corpo; il dittatore è il vertice individuabile che sul corpo posa e che senza di esso non si reggerebbe.

   Nelle denunce più o meno moralistiche imperversanti su ogni tipo di medium (pronuncia latina, di grazia), per il quale le guerre sono una succulenta e assai profittevole occasione di esercitazioni retoriche e propagandistiche, si tace del corpo sotterraneo della piramide e se ne prende di mira solo il vertice/dittatore. Troppa infamia ma anche troppo onore per l'esso/lui, che rischia di apparire, esso/lui, il martire più o meno consapevole, la prima vittima di un disumano sistema latamente, variamente, subdolamente plutocratico. Ipocrisia dunque nell'attribuzione delle cause e delle responsabilità di una guerra.

   Tutte le guerre nascono, è risaputo, dai trattati di pace delle precedenti, malamente concepiti o malamente applicati, dai disagi e dai disastri conseguitine; e sono come bubboni sul grande corpo dell'umanità che, una volta giunti a maturazione, fatalmente esplodono , e tutti gli istinti più selvaggi della bestia umana si scatenano, 'raffinati' dalla razionalità, truce caratteristica umana, che ha la sua suprema manifestazione nella bomba atomica la quale, è bene ricordarlo, finora è stata usata solo dagli autoproclamatisi democratici portatori di pace USA, colpevoli perciò del più inumano evento della storia, dalle conseguenze ancora in atto e nei loro sviluppi imprevedibili, di fronte al quale ogni genocidio, da che mondo è mondo e in ogni epoca e latitudine perpetrato, impallidisce.

   Terribile e complessa cosa è dunque la guerra, in cui l'homo si rivela, compiacendosene, l'hobbesiano homini lupus, ed irride all'Utopia del lockiano homo homini homo e, figurarsi, dello spinoziano homo homini deus. E la guerra attuale è già mondiale, anche se con le armi convenzionali combattuta per ora solo settorialmente, poiché mondiali sono le sanzioni economiche e culturali dichiarate, inutili per lo più a conti fatti le prime, come dal recente passato è ben documentato; e infami, da peggior nazifascismo e stalinismo, le seconde, poiché mirate a impedire la circolazione della immensa cultura russa di cui tantissimo, in ogni campo, l'intera umanità è debitrice.

   Pietà dunque per Putin, vittima più o meno consapevole delle stesse forze plutocratiche importate dall'occidente di cui immagino egli stesso far parte, e delle loro diaboliche trame; odio e disprezzo per essersi prestato, più o meno consapevolmente, a dare ad esse un nome: il suo.

*

   Ecco alcuni commenti, seguiti alle mie considerazioni, da cui espungo le immeritate ma sempre piacevoli lodi (di Alessandra Conti, di Sabrina Paonessa, di Patrizia Cipriani, e di altri) che li accompagnano.

Marco Bertelli:

    Inappuntabile, Professore. Grazie.

Enzo Rega

   Grazie per questa analisi. Sono d'accordo. Il dittatore fa la sua parte in una recita collettiva che ne supporta il ruolo di primo attore. Putin interpreta purtroppo benissimo la sua parte di despota feroce, ma, come nel caso di Hitler, accanto al "pazzo furioso”, e anche prima di lui, ci sono comprimari (persone, ma anche fatti, eventi) che ne hanno reso possibile prima l'ascesa e poi la conservazione e l'ampliamento del potere. La storia non la fanno i singoli, ma taluni singoli ne rendono possibile certi sviluppi nel bene e nel male. In questo caso assolutamente nel male:

    Giulio Sforza:

    grazie prof per il suo lucido commento. Io mi prendo solo il merito d'averlo provocato!

Enzo Rega:

     il merito è soprattutto il suo. La mia è una nota a margine.

Dunia Asha:

    Anche se so che hai ragione a sottolineare certe cose, no, nessuna pietà.

Lorenzo Fortunati:

   Mi dispiace Giulio ma per chi pone un così alto rischio per l'intera umanità, oggi, non può esserci pietà. Domani sì, oggi no. Sarei un falso a dichiarare diversamente, anche sforzandomi non riesco a trovare ragioni per accordargliela. È una vicenda con implicazioni troppo vaste.

Giulio Sforza

    L'odio e il disprezzo coi quali concludo la mia riflessione non escludono la pietà, se ci rifletti bene la motivano...

Marino Sassi

     Puntuale: i dittatori li alimentiamo noi.

Paolo di Nicola:    

Grazie Giulio! Sempre acuto e puntuale!

   Marja-Leena Lehtinen-Monti

     Sono più che d'accordo! Sono nata 1940 in Finlandia e penso di avere qualche cosa nel mio zaino storico...

Rosalba Manzo:

      Giustissimo... ma chi segue il dittatore fa peggio.. banalità del male

Suzanne Barbeau:

      Verissimo: " Il dittatore è il vertice di una piramide sotterranea di cui molti di noi, per ipocrisia o imperdonabile ingenuità, fingiamo di non accorgerci. Le dictateur est le sommet d'une pyramide souterraine que plusieurs d'entre nous, par hypocrisie ou naïveté impardonnable, faisons semblant d'ignorer.

Suzanne Barbeau (a commento di una foto allegato di Putin piccolo in braccioalla madre):

     E mi chiedo come questo ragazzino nelle braccia della madre ha potuto accettare e escogitare con l'accordo della Duma di stato quest'attacco contro altri poveri bipedi umanoidi come lui e come me.

Giulio Sforza:

     dalla finestra della mia camera da letto ogni giorno osservo i frugoletti di un giardino d'infanzia giocare ridere piangere; e ogni volta mi si stringe al pensiero di cosa loro possa riservare il destino...

Suzanne Barbeau:

     Si, vogliamo un futuro pacifista per loro. Non so che ideali poteva avere Putin quando era piccolo, nelle braccia della mamma. L'arrivismo proletario non è sempre positivo: alcune volte può avere buoni risultati, ma in certi casi è disastroso. Allora, a questo punto, meglio servo della gleba che presidente del governo... ma questo vale per tutti i parlamenti del mondo intero.

   _________________

   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

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Goethe: 'Maifest', festa di Maggio

Post n°1116 pubblicato il 25 Marzo 2022 da giuliosforza

 

1022

   März 22 Dienstag Todestag Goethes.

   22 marzo: Centonovantesimo anniversario della morte di Goethe.

   Il 22 Marzo 1832, secondo giorno di Primavera, moriva in Weimar uno dei più grandi Avatar della storia del mondo. In Lui come in pochi altri risplendette la divinità di cui fu manifestazione, a Lui io debbo più che ai filosofi ai teologi ai mistici la mia conversione al culto estetico della santa Terrestrità. A Lui debbo il rifiorire del giardino della mia anima devastata, della mia Waste Land.

   Oggi, 190 anni fa, Egli dunque moriva. O rinasceva all’universale Weltgeist, allo spirito del mondo, disponibile per nuove incarnazioni?

   E proprio oggi, che sono stanco (particolarmente stressato nel corpo e nell’anima dai fastidi della vecchiezza implacabile) voglio sforzar le mie forze residue,  dimenticare werterismi e faustismi, e intonare dal mio balcone prospiciente il piccolo parco esplodente di vita nuova, di colori e di canti (oggi arricchito da un gentile alberello già in fiore piantato dal marito in ricordo della recente scomparsa della sua giovane sposa, presenza sorridente e rasserenante del nostro condominio, nonostante il male che la tormentava e infine l’ha uccisa), intonare ancora una volta il ‘Maifest’ con Goethe (il nome, secondo Gianmarco che sta divertendosi a comporre l’indice dei nomi  del mio  … ‘zibaldone’ “Dis-Incanti”, più ricorrente dopo quello del ‘mio’ Dio) e con quanti, ex allievi ed ex coristi con me tante volte l’intonarono  nelle semplice melodia che, intercalata  a quella dei ‘canto di ringraziamento dei contadini dopo la tempesta’ della VI Sinfonia di Beeth, io osai applicarle.

   Maifest, Festa di Maggio, è una balladetta giovanile del Francofortese (il titolo evoca anche la tradizionale festa popolare che in ogni angolo della Germania si svolge -si svolgeva?- per celebrare l’arrivo della primavera), sereno intercalare ai tormenti e alle malinconie del giovane sturmista; la sua freschezza e la sua semplicità ne fanno l’inno dell’anima bella nella sua più pura essenza che si lascia invadere dalle riesplodenti energie di Madre Natura dopo l’invernale letargo.. Nove tetrastici di quinari piani e tronchi alternati, con rime anch’esse alternate, la compongono, e per la prima volta amo citarla per intero (noi s’era soliti intonare solo le prime tre strofe, dove più evidente appare l’ebbrezza delle primaverili rinascite.

   Eccola dunque, e buon canto con me.  


Maifest Festa di maggio

Wie herrlich leuchtet        

Mir dieNatur!

Wie glänzt die Sonne!

Wie lacht die Flur! 

Es dringen Blüten

Aus jedem Zweig,

Und tausend Stimmen

Aus dem Gesträuch, 

Und Freud und Wonne

Aus jeder Brust.

O Erd, o Sonne!

O Glück, o Lust!

O Lieb, o Liebe!

So golden schön,

Wie Morgenwolken

Auf  jenen Höhn;                       

Du segnest herrlich

Das frische Feld,

Im Blütendampfe

Die volle Welt. 

O Mädchen, Mädchen,

Wie lieb ich dich!

Wie blinkt dein Auge!

Wie liebst du mich! 

So liebt die Lerche

Gesang und Luft,

Und Morgenblumen

Den Himmels-Duft, 

Wie ich dich liebe

Mit warmem Blut,

Die du mir Jugend

Und Freud und Mut 

Zu neuen Liedern

Und Tänzen gibst!

Sei ewig glücklich,

Wie du mich liebst!

 
Come splende radiosa la natura ai miei occhi! Come brilla il sole, come ridono i campi! Spuntano i fiori da ogni ramo, e migliaia di voci dai fitti cespugli. E da ogni petto gioia e diletto. O Terra, o Sole! O gaudio, o ebbrezza! O Amore, Amore! Dorato e bello, come su quelle alture le nubi del mattino! Benedici radioso gli umidi campi, nell'aroma dei fiori il mondo intero. O Diletta, Diletta, quanto io t'amo! Che luce nei tuoi occhi! Quanto mi ami! Come ama l'allodola l'aria e il canto,e i fiori del mattino i vapori del cielo; così t'amo io, con sangue ardente, tu che giovinezza mi dai, gioia e animo per i nuovi canti e le nuove danze. Sii eternamente felice, tu che tanto mi ami!
   

_________________

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Dante e la Divina Commedia secondo Eric Auerbach

Post n°1115 pubblicato il 15 Marzo 2022 da giuliosforza

 

  

  1021

 

   Voglio ora compiere un atto di giustizia riparatrice nei confronti di Erich Auerbach, che ho in un primo momento ingiustamente bistrattato, se non ingiuriato, su queste pagine. E lo faccio condividendo un articolo (che trovo in rete) pubblicato il  23 ottobre 2020 in Costellazioni da Valerio Cuccaroni, nel quale i meriti del critico e filologo tedesco sono ben evidenziati; e nel contempo compio un ultimo atto di omaggio a Dante per, lo spero, degnamente concludere le celebrazioni dell’Anniversario appena trascorso. Dall’articolo di Cuccaroni escono un Dante ed un critico alquanto originali. Mimesis è una ponderosa, opera e acuta se ne rivela la critica filologica auerbachiana. Nuovo essendo per me Auerbach nella veste di dantista, è con grande piacere che leggo e trascrivo, dopo aver ringraziato vivamente Autore.

“Mimesis di Erich Auerbach, attraverso lo studio della Divina Commedia, opera una critica di tipo filologico e filosofico: sottolinea l’importanza del rapporto esistente non solo tra i personaggi danteschi e l’epoca in cui vissero ma anche tra l’umanità e la storia universale.
   Successore di Leo Spitzer, in qualità di professore di romanistica all’università di Marburgo, tra il 1942 e il 1945 Erich Auerbach scrisse Mimesis, il suo ciclopico studio sul Realismo nella letteratura occidentale pubblicato nel 1946. Auerbach si trovava a Instabul, dove si era rifugiato nel 1936, in fuga dalla Germania nazista. Per questa sua origine, influenzata dalla situazione storica in cui fu concepita, l’importanza di Mimesis non è solo letteraria ma, più in generale, culturale e politicaMimesis è un’opera che mira, subito dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, a ricostituire un comune orizzonte di senso nell’Europa lacerata e devastata dal conflitto, indagandone le origini e gli sviluppi filosofici e letterari in rapporto alla rappresentazione della realtà.

   Che rapporto può mai esserci tra filologia e politica, soprattutto in un «critico-scienziato», per usare la definizione di Anceschi, come Auerbach? Alla sua uscita il legame di Mimesis con l’epoca in cui fu composto non sfuggì ai contemporanei: a chi gli obiettava che Mimesis fosse troppo condizionata dal presente, Auerbach rispose rivendicando la sua peculiare posizione nel corso degli eventi, sia per la sua formazione e il suo metodo, profondamente tedeschi, romantici ed hegeliani, sia per il legame con la storia del suo tempo: «È meglio essere legati al tempo coscientemente piuttosto che inconsapevolmente. In molti scritti eruditi s’incontra un genere di obbiettività in cui, senza che l’autore ne abbia la minima coscienza, da ogni parola, da ogni fiore retorico, da ogni giro di frase parlano moderni giudizi e pregiudizi (spesso neppure di oggi, bensì di ieri e di ierlaltro). Mimesis è coscientemente un libro scritto da una determinata persona, in una determinata situazione, all’inizio degli anni Quaranta». Questo sia detto per chi ancora si illude che nelle valutazioni, in particolare estetiche, sia possibile prescindere dalla propria soggettività e dall’epoca in cui si vive.

   Auerbach rivendica le ascendenze. Dal romanticismo riprende il senso della storia e la consapevolezza della storicità di ogni opera, che stanno alla base delle conquiste della filologia e della linguistica ottocentesche. Il movimento romantico creò una nuova visione della storia. Nell’antichità la storia era vista come un ciclo che inizia con l’età dell’oro prosegue con la decadenza e si conclude con un ritorno all’età dell’oro, quale si configurava nella IV Ecloga di Virgilio e nel libro VI dell’Eneide. Durante l’Illuminismo si era diffusa la visione della storia come progresso dalla barbarie all’età dei lumi, così come lo illustra Voltaire nella sua Filosofia della storia (1765). I romantici cercarono invece nella storia le origini delle lingue, quindi delle nazioni e dei popoli, risalendo dal particolare all’universale, senza escludere nessuna epoca, in quanto tutte si susseguono in un piano universale, come afferma Johann Gottlieb Fichte nella sua opera del 1806 Tratti fondamentali dell’epoca presente:

«È chiaro pertanto che, per caratterizzare correttamente sia pure una singola epoca e, se ne ha intenzione, il filosofo deve aver compreso semplicemente a priori e penetrato nell’intimo l’intero tempo e tutte le sue possibili epoche. Questa comprensione dell’intero tempo ne presuppone, al pari di ogni comprensione filosofica, un concetto unitario, il concetto di un compimento predeterminato quantunque progressivo di questo tempo, nel quale ogni successivo anello è condizionato da quello antecedente; o, volendo esprimere ciò più concisamente e nella maniera usuale, essa presuppone un piano universale, di cui si possa chiaramente intendere l’unità e da cui si possano dedurre appieno e vedere in maniera distinta le epoche capitali della vita umana sulla terra, così nella loro origine come nella loro reciproca connessione».

   Per Georg Wilhelm Friedrich Hegel il piano universale consiste nell’affermazione del Weltgeist, lo Spirito del mondo che si incarna nel Volkgeist, lo Spirito dei popoli, che a sua volta condiziona ogni individuo, come afferma nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia (1837):

   «L’individuo è figlio del suo popolo, del suo mondo, di cui egli non fa altro che manifestare la sostanza, sebbene in una forma peculiare. Il singolo può ben gonfiarsi quanto vuole, ma non potrà mai uscire dal proprio tempo, come non può uscire dalla propria pelle».

   È questa visione romantica, idealistica ed hegeliana dell’individuo nella storia che conduce Auerbach a esaltare Dante Alighieri per la sua capacità di dare consistenza ai personaggi del suo poema, trasformandoli in figure che, conservando i propri caratteri individuali, allo stesso tempo rinviano a un piano universale, collocano la storia nell’eternità, in quel «fenomeno stupefacente, paradossale» che è il realismo dantesco, secondo la definizione che il filologo dà nel saggio Farinata e Cavalcante di Mimesis, punto d’arrivo di tutto il pensiero dell’autore sulla Commedia.

   Nei versi 22-78 del X canto dellInferno Auerbach applica il suo close reading, la sua lettura ravvicinata. Il realismo dantesco è paradossale, rileva Auerbach sulla scorta delle Lezioni di estetica di Hegel, perché i personaggi dell’Inferno si trovano in una «esistenza immutabile», non sono persone in carne e ossa, ma sono anime in attesa di ricongiungersi con i loro corpi, fissati per l’eternità nel loro peccato. Lo stile illustre di Dante, afferma Auerbach, «consiste per l’appunto nella classificazione del caratteristico individuale, talvolta orribile, repellente, grottesco e triviale, entro la dignità del giudizio divino che trascende ogni più eccelsa statura umana». Questo perché la concezione della storia che ha Dante non è quella comune. Ciò che alla gente appare come un susseguirsi di fatti, di avvenimenti sulla terra, per Dante è «in continua correlazione con un piano divino, che è la mèta a cui continuamente volge l’accadere umano», sostiene Auerbach, perché «ogni fenomeno terrestre, tramite un gran numero di fili verticali, è immediatamente riferito al piano di salvezza della provvidenza».

   Richiamando le analisi compiute nel saggio Figura

 Il compimento «di fronte alla figura è forma perfectior» , l’aldilà dantesco è compimento, in quanto mondo eterno, in cui la figura, il personaggio storico, si invera. Nell’allegoria invece la figura non ha un’esistenza autonoma ma esiste solo in quanto richiama il suo corrispondente sul piano divino: si pensi alle allegorie dei vizi scolpite sul muro che cinge il giardino nel Roman de la rose o nella Commedia stessa il carro che appare alla fine del Purgatorio.

   Dopo avere analizzato l’episodio di Farinata e Cavalcanti dal punto di vista stilistico, Auerbach arriva alle sue conclusioni sul significato figurale degli avvenimenti nella Commedia. Innanzitutto, Auerbach parafrasa e riassume l’episodio, quindi sottolinea che «vi è una condensazione d’avvenimenti maggiore che in qualunque altro dei luoghi», cioè in qualunque altro dei testi della letteratura classica e alto-medioevale da lui esaminati fino a quel momento. Auerbach nota che non c’è unità di azione nell’episodio, ma l’unità è data dal luogo, il paesaggio fisico-morale del cerchio degli eretici e dei miscredenti, in cui mutano gli interlocutori di Dante, ma «nonostante questo rapido mutare degli episodi», puntualizza il filologo, «non si può parlare di una connessione sintattica paratattica», perché ogni scena presenta molti legami sintattici e, nella forte contrapposizione tra l’atteggiamento fiero di Farinata e preoccupato di Cavalcante, «vengono impiegate […] forme d’espressione molteplici ed efficaci, che sono da valutarsi piuttosto come commutazione che come paratassi».

In altre parole, gli atti dei personaggi non sono disposti rigorosamente e in modo uguale come avviene per esempio nella Chanson de Roland analizzata nel saggio Nomina di Orlando a capo della retroguardia, «bensì si staccano dal fondo nell’elaborata singolarità del tono e stanno in reciproco antagonismo»

   “O Tosco che per la città del foco
   vivo ten vai così parlando onesto,
   piacciati di restare in questo loco.

   La tua loquela ti fa manifesto
   di quella nobil patrïa natio,
   a la qual forse fui troppo molesto

   Altrettanto originale è la posizione della sequenza narrativa, che non introduce ma segue la sequenza dialogica con cui Farinata irrompe nella scena.

   “Subitamente questo suono uscìo
   d’una de l’arche; però m’accostai,
   temendo, un poco più al duca mio”.

   Questo modo di presentare il personaggio, questo «irrompere così gagliardo e prepotente d’un altro mondo topico, morale, psicologico ed estetico», rispetto a quello rappresentato dalla coppia Dante-Virgilio, non si giustappone nella trama ma si contrappone nell’intreccio. Il secondo cambiamento si ha al verso 52, con le parole «Allor surse», con cui si annuncia l’irrompere sulla scena di Cavalcante.

   “Allor surse a la vista scoperchiata
   un’ombra, lungo questa, infino al mento:
   credo che s’era in ginocchie levata”.

   Di nuovo Auerbach contestualizza l’espressione nel panorama dell’intertestualità medioevale e confessa di non sapere indicare un altro testo della letteratura predantesca, italiana o francese antica, in cui il termine «allora» si stagli in modo così netto. L’analogo, ma più tenue, «es voz» del verso 413 della Chanson de Roland conduce a rintracciare l’antecedente nel latino «ecce», o meglio «et ecce», che si trova nelle lettere di Cicerone, in Apuleio, piuttosto che in Plauto, quindi in opere alte piuttosto che basse, ma soprattutto si trova nella Vulgata, nella Bibbia tradotta in latino da Gerolamo. Per non scivolare su eccessi di determinismo, Auerbach precisa che non intende affermare che Dante abbia introdotto nello stile illustre l’espressione, attingendola dalla Bibbia, ma che all’epoca in cui usò quel drammatico «allora» non era così naturale come oggi e Dante «l’usò più radicalmente di chiunque altro prima di lui nel Medioevo».

   Si potrebbe proseguire oltre ma l’esemplificazione è sufficiente per comprendere il metodo di Auerbach che rileva come Lo stile illustre è usato in un contesto basso, come l’Inferno, e serve a rappresentare con potente realismo figurale personaggi che, pur essendo morti, assumono una straordinaria vitalità, perché Dante immerge «il mondo del fare e del patire, e più precisamente delle azioni e dei destini individuali» nell’esistenza immutabile degli abitatori dei tre regni dell’aldilà, secondo l’interpretazione di Hegel nelle sue Lezioni di estetica ripresa da Auerbach, che se ne serve per concludere che «in conseguenza delle speciali condizioni del compimento di sé nell’aldilà, la persona umana si afferma ancor più potente, più concreta e singolare che nell’antica poesia». Esprimendo con tanta potenza e realtà l’indistruttibilità cristiana dell’uomo totale, Dante, secondo Auerbach, fu il primo umanista. Nel caso specifico, analizzando i mezzi stilistici, Auerbach arriva a concludere che Dante dà alla sua narrazione non un andamento paratattico ma «un movimento incessante» presente in tutta l’opera. Questa ricchezza gli consente di mescolare gli stili, sul modello della lingua ebraico-cristiana presente nella Bibbia, con cui tratta di soggetti infimi in stile sublime, in modo inaudito per gli antichi, persino nel punto più alto del poema, nel Paradiso, dove troviamo il verso «e lascia pur grattar dov’è la rogna»

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Efemeridi

Post n°1114 pubblicato il 14 Marzo 2022 da giuliosforza

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   Tra una censura e l’altra.   Nacqui che imperversava la censura fascista, muoio che imperversa la censura russo-cinese-americana variamente interpretata dai paesi satelliti.    Nel lungo periodo tra le due censure le cose andarono un po’ meglio ma, almeno per me, fino a un certo punto. Come, direte voi, non fosti libero di scrivere e di dire quel che ti parve e piacque? Risponderò: sì e no. Le ‘democrazie’ (oclocrazie?) usano metodi forse meno sfacciati, usano guanti di velluto, ma se dai fastidio al potere trovano parimenti il modo di renderti (o tentar di renderti, senza sempre, grazie agli dèi, riuscirci) innocuo. Non ti uccidono, forse (ma qualche volta il morto ci scappa, e come!), non ti esiliano, non ti spediscono a marcire nelle famigerate galere di Ventotene di Ponza o di Procida, o, i più fortunati a ’villeggiare’ in altre più amene località del mediterraneo o nei paeselli ameni d’Abruzzo e di Lucania, ma ti fanno fuori, come si dice, dal sistema, e se non ti tolgono il pane, certo sì i companatici. Nel caso mio, vidi addirittura un mio innocuo libretto incorrere nella censura dell’Opus Dei, ben rappresentata anche negli Atenei italiani, che mi fece l’onore davvero inaspettato e immeritato di includermi nel suo risuscitato ‘Indice dei libri proibiti’, in compagnia dei più grandi scrittori romanzieri poeti filosofi e teologi in odore di eresia di ogni epoca e nazione! E all’Università mi vidi, perché vergin di servo encomio e di codardo oltraggio, molte iniziative scientifiche e didattiche boicottate dagli organi collegiali (sempre compatti nelle censure, quanto divisi nella distribuzione degli scanni); mi furono precluse le stanze del potere ed i lauti banchetti; non furono graditi il mio anarchismo mentale e il rifiuto di metter la coscienza all’ammasso. In compenso ebbi grandi riverenze e rispetto formali dai colleghi, e l’affetto incondizionato dei miei con-discepoli: chi come me, in una delle fasi della sua complessa lunga e tribolata vicenda intellettuale e di vita, ebbe anche la felice ventura di imbattersi nella scuola di pensiero gentiliana, la quale sosteneva l’unità spirituale, anzi una quasi identità metafisica, di maestro e scolaro, può capirmi. E fui libero di giocare coi miei pochi ma tenaci con-discepoli al gioco meraviglioso della Conoscenza.    Ma tempi peggiori, assai peggiori, in fatto di poteri persecutorii e censorii mi, vi (io ormai sono in demolizione, non mi preoccupo) si prospettano.   Girano voci che gli opposti regimi in lotta abbiano ormai costruito e steso intorno al globo, infinitamente potenziandola con gli strumenti tecnologici (sia maledetta la tecnologia, della Scienza figlia maggiorata e corrotta, quanto sia benedetta sua Madre), i diabolici aggeggi messi loro a disposizione dai magnati della comunicazione digitale, una fitta rete in grado di violare i più intimi segreti della nostra mente e del nostro cuore. E minaccino ceppi e ghigliottine ai loro oppositori.  Molti pregano il loro Dio perché ciò non avvenga. E non sanno che l’unico vero, onnipotente e onnisciente, dio è ora Internet, vero e proprio averroistico ‘Intelletto unico’ il quale, diversamente dal Nous anassagoreo che “venne e ordinò il Tutto”, il Tutto disordina e scompiglia. E mi si dice che in questo periodo di guerra e di peste presto sarà tutto una censura e i poteri, militari politici religiosi in cordata, si sono a tal fine già ampiamente organizzati. Attraverso gli strumenti della comunicazione, pardon censura, di massa, con l’aiuto del dio Internet saremo (sarete voi, miei diletti figli e nipoti) ovunque spiati, anima e corpo, dentro e fuori, e libertà e libero arbitrio saranno solo un ricordo (felice ventura! Preti e filosofi vi risparmieranno almeno un po’ del bla bla bla, quello delle loro capziose e tediose elucubrazioni sull’argomento, col quale da che mondo è mondo ci tediarono). V’è chi dice: rassegniamoci, non c’è nulla da fare. Io, laico, invece dico: che il vecchio Dio ce, ve ne guardi; e mi unisco a quanti in questa Quaresima, in purità di mente e di cuore, processionano al loro vecchio Dio (per la verità un po’ sordo, a osservar bene la storia, per sue misteriose ragioni, alle preghiere degli uomini) scongiurandolo in coro con l’invocazione a peste fame et bello libera nos Domine, opportunamente corretta in a peste fame et nucleari bello libera nos Domine. Perché la guerra nucleare sarebbe la fine di tutto, un’auto procurataci fine del mondo, che non sarebbe per nulla una bella cosa, se non per il buon Dio che si risparmierebbe tutto l’ambaradam di angeli e trombe e draghi, fulmini lampi e tuoni, bastando i rombi degli aerei, i tuoni dei cannoni e i sibili dei missili nucleari rincorrentisi per i cieli del mondo.   Che il Dio della Vita, non della Morte, ce ne scampi.

*   

   I graditi consensi che il mio precedente intervento su questi spazi  ha registrato, e i pochi ma qualificati commenti che ha ricevuto, il cui tono elogiativo confesso non dispiacermi, perché mi fa credere  (sperare, illudere?) di non aver seminato invano nella mia lunga vita di ricerca affannosa di un senso da conferirle, mi stimolano ad altre riflessioni, che mi ricollegano ai temi da me prediletti e variamente trattati  da una angolatura certo laica ma anche, non paia  blasfemo, cristica (il Cristo immanentisticamente letto dell’oportet nasci denuo):  i temi del ‘superuomo’ e del ‘mondo nuovo’, per ora evidentemente falliti, se sempre più una umanità insanita appare prediligere la strada  dell’autodistruzione anziché quella della ‘volontà di potenza’ (di dominio) sul male e sulla Morte. Domanda ottimistica (utopistica ed illusoria?): e se proprio la fine di un tipo d’uomo e di mondo fosse la condizione per la creazione dell’Uomo nuovo e del Mondo nuovo (l’‘Oltre-uomo’, l’‘Oltre-mondo’, l’Übermensch, l’Überwelt?).

   Lascio la sfida alle nuove generazioni di miei con-discepoli nelle quali amerei sopravvivere, quelle che per il fallimento dei fideismi di ogni sorta non dispereranno ma, con sguardo nostalgico fiso alle beate Primavere elleniche, si sforzeranno di spremere da questo mondo l’essenza divina (il Deus absconditus) che nelle sue cellule s’agita e lo sostanzia.

   Chàirete.

Augusto Cara:

   Scendere dagli alberi tutti insieme è stata una decisione un po’ avventata? Che gli Dei conservino la tua lucidità per altri 100 anni prof.

Elisabetta Morbidini:

   E l’uomo nuovo? Non riesce proprio a nascere! Forse tutto questo è il risultato di un inevitabile aborto

Dunia Asha:

  Nucleo uranico del pensamento e iperuranico intendimento hai ben versato prosaicamente che il vero non è uno ma scisso. Alchimia sia amica di una via di rinsavimento. Sempre ti amo. Proteggimi Daimon da tutto. Avvelenami tu soltanto di ribelle prole.

Sabrina Paonessa:

   Come risuona strana, per me che vivo in campagna, questa rinascita di primavera.

   Tutto richiama, manifesta la forza ribelle della vita contro la follia cieca degli uomini.

Paola Margutti:

   Noi maestro abbiamo imparato da te la libertà di pensiero e di spirito. È un marchio che nessuno può toglierci. Si, i tempi sono oscuri, ma nulla ci può togliere l’energia che continuamente foraggia la nostra anima. Canta e cammina…dicevano i padri della chiesa…e non solo loro! Un abbraccio mio caro Maestro! 

Alessandra Conti:

   Prof, perché quando ti leggo poi sorrido

Anna Fonio:

   Come dissociarsi da un pensiero lucido e coerente come il suo? Lo abbraccio in toto essendo anch'io vergine di servo encomio e di codardo oltraggio, ma l'insipienza e la stolida modernità che inglesizza anche il latino, mi hanno resa afona, incredula di essere arrivata al punto in cui siamo.

   La sua voce mi conforta, Lei è il tedoforo che regge una fiamma inesauribile. Grazie

   Ecco: se ho fallito, se abbiamo tutti fallito, non resta che la faustiana Verzweiflung, la più nera disperazione, ove nemmeno per lo Zweifel, il possibilista dubbio, è più posto.

*   

Visto che il Vegliardo oggi è in vena di confessioni, gli si lasci ricordare una delle più simpatiche, infine ridicole, avventure occorsegli in gioventù. Quando negli anni Sessanta dimostrai simpatie per la Nuova Repubblica di Pacciardi, mazziniano puro e antifascista che in Spagna guidò contro el Caudillo  un battaglione che si proponeva la lotta alla dominante partitocrazia, fui, come tutti i mei amici pacciardiani, giorno e notte pedinato dalle forze dell’ordine (e il caro portiere del n. 24 di Via Fucini a chiedermi ma che ha combinato professore?) strappate ai loro più seri impegni e condannate a perdere sonno e affetti (e per questo sacravano, oh come sacravano!) appresso a noi. Fossero venuti in Via Manin presso una scuola privata per studenti lavoratori, lì mi avrebbero trovato, impegnato a guadagnarmi un tozzo di pane per poche lire, dalla 21 alle 24, ed avevo già due figlie da mantenere (la terza fu più fortunata, per nascere aspettò ch’io mi fossi sistemato, come s’usa dire). E quando ci fu l’omicidio del Giudice Amato nel 1980 mancò poco non finissi coi miei amici in galera (neofascisti, ci si diceva, parola salvatutto e tutti a cui da ormai quasi cent’anni ricorre chi vuole, per sentirsi esistere, s’affanna a che il fascismo verbale non muoia mai e dà del fascista agli avversari in mancanza di argomenti).    *   Mentre in Ucraina imperversa la guerra, una guerra crudele e insensata come tutte le guerre, tranne che per chi le scatena, un sonno agitato riporta me in sogno nella Roma del 4 Giugno 1944, precisamente al piazzale antistante la basilica costantiniana di Santa Croce in Gerusalemme, sul vialone che da San Giovanni in Laterano conduce a Porta Maggiore. Nella mia visione onirica, coi primi quattro soldati americani, di cui un afroamericano, che entrano solitari e appiedati, non su una delle storiche jeep, avanza in borghese e finalmente sorridente l’Uomo più mite della Storia, un Nietzsche dimesso e familiare, che mi chiede in perfetto italiano di accompagnarlo in visita alla città. Non mi par vero di accettare. Ma è più Lui, che il suolo di Roma più volte ha calcato inseguendo le orme della sua crudele Lou Salomé e dell’ancora amico Richard, a far da guida a me che io a lui. È una splendida giornata di sole, fiorita ed esultante. Ma noi non partecipiamo al generale impazzimento. Le strade e i vicoli più riposti sono i nostri dove, seduti fra ruderi su un capitello corinzio, parliamo confidenzialmente di filosofia, soprattutto della sua morte della filosofia. In via dei Cappellari ci raggiunge, sceso dal monumento al Campo, Bruno Nolano che di Friedrich dissi fratello gemello, e con lui fino al tramonto ragioniamo di ‘eternal vicissitudini’ e di ‘eterni ritorni’. Il tramonto del sogno diventa frattanto l’alba del sonno e io mi desto tachicardico a un mondo una volta ancora impazzito, immerso nella follia e nel caos, un caos che non è, ahimé, il Caos zarathustriano, quello “che bisogna avere dentro di sé per partorire una stella”. *Nel mio lessico esiste un baratro di senso tra muscolo cardiaco e cuore. Per il muscolo si danno medici e macchinari. Per il cuore nessun medico, nessuna macchina, solo Musici Poeti e Mistici (psichiatri e psicanalisti: prevaricanti invasori di campo).   Le frequenze di muscolo e cuore non coincidono: si placa o si stimola il muscolo, solo per esso la chimica ha un senso.   Il muscolo è fenomeno, il cuore è noumeno.    Si danno (parafrasi dell’abusato Pascal) ragioni del cuore che risultano arcane alla ragione del …muscolo cardiaco (nell’originale: della ragione); non si vede e non si sente bene (parafrasi dell’abusatissimo Saint-Exupéry) che col cuore, l’essenziale è invisibile al …muscolo cardiaco (nell’originale: agli occhi)    Il cuore sa la strada dell’Essenza, del Profondo e del Mistero, il muscolo la ignora. Solo Musico il Poeta e il Mistico sono in grado di sondarli e sperimentarli nell’interiore laboratorio del cuore.   Che l’inquieto vegliardo monista irriducibile sia per essere ritentato dall’aborrito dualismo ontologico non solo cartesiano di Res cogitans e di Res extensa?

Chàirete, se potete

 

 

 
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Voyage, Frranciscae meae Laudes, Quand le ciel bas...

Post n°1112 pubblicato il 04 Marzo 2022 da giuliosforza

 

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   Altro mantra è la lirica, VIII di Voyage, che potrebbe dirsi, come quella di una vecchia e tetra prassi periodica di talune congregazioni religiose non so se ancora praticata, Atto di preparazione alla morte. Ma qui non si tratta di una descrizione quasi masochisticamente compiaciuta di una agonia in tutti i suoi sconvolgenti particolari, bensì di una invocazione piena di speranza a colei che finalmente ci libererà dalle tenebre di questo mondo e ci introdurrà in una dimensione nella quale si chiarirà il mistero dell’essere. Due svelti tetrastici in cui La Morte si invoca come porta che apre al nuovo (inferno o cielo poco importa) dopo la noiosa tediosa e sovente tragica esperienza del mistero della nascita, del mistero della morte e della non meno misteriosa vicenda che fra nascita e morte si svolge e che dicono vita. Dove non è difficile avvertire un barlume di quella fede alla quale Baudelaire fu educato  e che molte tracce ha lasciato nel profondo della sua anima,

   Ô Mort, vieux capitaine, il est temps ! Levons l'ancre !
   Ce pays nous ennuie, ô Mort ! Appareillons !
   Si le ciel et la mer sont noirs comme de l'encre,
   Nos coeurs que tu connais sont remplis de rayons !

   Verse-nous ton poison pour qu'il nous réconforte !
   Nous voulons, tant ce feu nous brûle le cerveau,
   Plonger au fond du gouffre, Enfer ou Ciel, qu'importe ?
   Au fond de l'Inconnu pour trouver du nouveau !

  

   O Morte, vecchio capitano, è tempo! / Sù l’ancora! Ci tedia questa terra, / O Morte! Verso l’alto, a piene vele! / Se nero come inchiostro è il mare e il cielo, / sono colmi di raggi i nostri cuori, / e tu lo sai! Su, versaci il veleno / perché ci riconforti! E tanto brucia / nel cervello il suo fuoco, che vogliamo / tuffarci nell’abisso -Inferno o Cielo, / cosa importa – discendere l’Ignoto / per trovarvi nel fondo, alfine, il nuovo!

  

   Ed ora un mantra giocoso, tale a me piace intenderlo, in cui, nel metro dei versi dello Stabat Mater dolorosa, B. gioca, in un latino semplice quasi liturgico, a celebrare le lodi della sua Francesca. Che scherzi o faccia sul serio non importa. Ma che scherzi lo fa pensare la scelta del metro di una delle poesie più tristi della liturgia cattolica per esprimere tutt’altro che tristezza, addirittura per cantare le lodi dell’amore suo verso una donna in tono catulliano (più che catulliano trovo quel bellissimo Hauriam oscula de te!) in tutte le sue sfaccettature: Francesca è l’opposto perfetto della Mater dolorosa, e in questa contrapposizione è forse l’elemento se non dissacrante di sicuro ironicamente rilevante. La sua figura s’avvicina molto più alla donna del Cantico che alla Madre distrutta del Calvario. Quello che importa è la gioiosità e la serenità degli ottonari, quella gioiosità e serenità, quello stupore infantile, quella semplicità e nel contempo quella arguzia, insomma quello humour nei suoi molteplici sensi, a cui Charles sa abbandonarsi nei suoi momenti, rari per la verità, di luna buona (per fortuna della sua poesia, se non dell’uomo B.).   

 

   Franciscae meae laudes 

 

   Novis te cantabo chordis,
   O novelletum quod ludis
   In solitudine cordis

   Esto sertis implicata 

   O femina delicata   

   Per quam solvuntur peccata!


   Sicut beneficum Lethe,
   Hauriam oscula de te,
   Quae imbuta es magnete.


   Quum vitiorium tempestas
   Turbabat omnes semitas,
   Apparuisti, Deitas,


   Velut stella salutaris
   In naufragiis amaris…
   Suspendam cor tuis aris!


   Piscina plena virtutis,
   Fons aeternae juventutis,
   Labris vocem redde mutis!


   Quod erat spurcum, cremasti;
   Quod rudius, exaequasti;
   Quod debile, confirmasti.


   In fame mea taberna,
   In nocte mea lucerna,
   Recte me semper guberna.


   Adde nunc vires viribus,
   Dulce balneum suavibus
   Unguentatum odoribus!


   Meos circa lumbos mica,
   O castitatis lorica,
   Aqua tincta seraphica;


   Patera gemmis corusca,
   Panis salsus, mollis esca,
   Divinum vinum, Francisca!

 
   Canterò su nuove corde / te, o novale che risuoni / dentro l’eremo del cuore.

   Di ghirlande tu sia ornata / donna, somma di delizie / che rimetti i mei peccati.

   Come da un salùbre Lete / baci suggerò da te, / trversata di magnete.

   Quando il turbine dei vizi / sconvolgeva ogni sentiero. Deità, tu m’apparisti

   Come stella salutare / Nei naufragii amari / voterò al tuo altare il cuore!

   Vasca piena di virtù / fonte di gioventù eterna / Ridà voce ai labbri muti!

   Quanto sozzo era bruciasti; / quanto grezzo levigasti;quanto fiacco rafforzasti.

   Nella fame, mia taverna, / nella notte mia lucerna, / sempre guidami a via certa.

   Forze a forze unisci ora, / dolce bagno profumato / di piacevoli odori!

   Brinda, ai lombi miei avvinta, / o di castità lorica / in serafica acqua intinta;

   Coppa splendida di gemme, / pan gustoso, cibo molle, / divin vino, mia Francesca!

 

   Nella lirica è anche chiarissimo, in più parti, il richiamo al Veni sancte Spiritus, una delle cinque sequenze della messa di Pentecoste, nel passo ove così si invoca:

   Lava quod est sórdidum,
   riga quod est áridum,
   sana quod est sáucium.

   Flecte quod est rígidum,
   fove quod est frígidum,
   rege quod est dévium

 

   Non saprei dire se qualche altro commentatore si sia avveduto di questi, non so quanto inconsci, richiami, che per me sono evidentissimi, alla liturgia cattolica che Charles deve aver da chierichetto chissà quante volte servito. Come sopra rilevato, è difficile liberarsi delle proprie le radici! Ma perché poi doverle estirpare? Rendono ancor più svettante, ramificata  e frondosa in chi ha la ventura di nutrirsene la pianta della cultura.

  

   E per concludere un mantra che sembra restituirmi alla predominante, cupa atmosfera del Nostro vate (vate in quanto poeta, vale a dire profeta, prima di D’Annunzio egli si sentì e proclamò). Si tratta sicuramente di una delle liriche in cui lo Spleen è talmente predominante da sembrar che nessun altro sentimento o stato d’animo possa trovarvi spazio, e perciò una delle più baudelairiane. Venti versi in cui tutto d’un fiato, quasi il poeta non respirasse, in un unico periodo, nessun punto se non virgole e punti e virgola, si dice della morte della Speranza che, vinta, “…pleure et l’Angoisse atroce, despotique, / Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir”.

   Parrà strano, ma in me questo mantra (78 di Spleen et Idéal) non distrugge la serenità speranzosa comunicatami dai precedenti che se mai per assurdo la rafforzano: essi, i precedenti mantra, mi hanno passato l’arma dell’Arte, alla quale nessuna Angoscia con i suoi vessilli ‘svettanti sul mio cranio’ è in grado di resistere.    

  

   Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle

   Sur l’esprit gémissant en proie aux longs ennuis,

   Et que de l’horizon embrassant tout le cercle

   Il nous verse un jour noir plus triste que les nuits;

   Quand la terre est changée en un cachot humide, 

   Où l’Espérance, comme une chauve-souris,

   S’en va battant les murs de son aile timide

   Et se cognant la tête à des plafonds pourris;

   Quand la pluie, étalant ses immenses traînées,

   D’une vaste prison imite les barreaux, 

   Et qu’un peuple muet d’infâmes araignées

   Vient tendre ses filets au fond de nos cerveaux,

   Des cloches tout à coup sautent avec furie

   Et lancent vers le ciel un affreux hurlement,

   Ainsi que des esprits errants et sans patrie 

   Qui se mettent à geindre opiniâtrement.

   Et de longs corbillards, sans tambour ni musique,

   Défilent lentement dans mon âme; l’Espoir,

   Vaincu, pleure et l’Angoisse atroce, despotique,

   Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir.

 

   Quando come un coperchio il cielo pesa / grave e basso sull’anima gemente / in preda a lunghi affanni, e quando versa / su noi, dell’orizzonte tutto il giro / abbracciando, una luce nera triste / più delle notti; e quando si è mutata / la terra in una cella umida, dove / se ne va su pei muri la Speranza / sbattendo la sua timida ala, come / un pipistrello che la testa picchia / su fradici soffitti; e quando imìta / la pioggia nel mostrare le sue strisce / infinite, le sbarre di una vasta / prigione, e quando un popolo silente / di infami ragni tende le sue reti / in fondo ad i cervelli nostri, a un tratto / furiosamente scattano campane, / lanciando verso il cielo un urlo atroce / come spiriti erranti senza patria, / che si mettano a gemere ostinati. / E lunghi funerali lentamente / senza tamburi sfilano né musica / dentro l’anima: vinta, la Speranza / piange, e l’atroce Angoscia sul mio cranio / pianta, despota, il suo vessillo nero. 

 

Avevo scritto di un periodo con un sol punto. Ora m’accorgo che dopo la penultima quartina un altro punto c’è. Ma è come se non ci fosse, e l’Et lo dimostra chiaramente. Et de longs deve leggersi infatti di filato, dopo aver ripreso un po’ di fiato per l’ultimo respiro, il respiro della morte.

_________________

  

   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et        absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

  Gelobt seist Du jederzeit, Frau Musika!

 

 

 
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Ancora di Baudelaire. Correspondances, D'Aunnunzio (D'Annunzio e Scriabin)

Post n°1111 pubblicato il 01 Marzo 2022 da giuliosforza

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   È tempo che io abbandoni Charles al suo destino di immortalità (Enfer ou ciel qu’importe?) ma non senza aver prima riletto e qui riunite le quattro liriche che, insieme a La Musique, seleziono affinché io possa ritrovarle, ogni volta che mente e cuore di esse invochino, velocemente a portata di mano, e come mantra quotidiano ad alta voce, col Gelobt seist Du jerzeit Frau Musika, le possa recitare, anzi cantare, su melodie improvvisate, auspicabilmente meno monotone dei salmodiari orientali, per esorcizzare il mostro tra i mostri, il (…) plus laid, plus méchant, plus immonde (…) l’Ennui che tu connais, ypocrite lecteur, - mon semblable, - mon frère! (‘Au Lecteur’).

   Elevarsi.

   Elevarsi è il destino del poeta per salvarsi dal Tedio, dalle risa e dai lazzi ai quali la sua goffaggine al suolo (simile a quella di un albatros oggetto di irrisione e di scherno  per  gli sforzi immani che deve fare per riprendere il volo, impedito com’è dalle grandi ali che tra le onde e al suolo gli sono d’impaccio) lo espone: Le Poète est semblable au prince des nuées / qui hante la tempête et se rie de l’archer; / Exilé sur le sol au milieu des huées / ses ailes de géant l’empêchent de marcher. Come quello dell’albatro è il destino del poèta. Il suo regno è nell’aria, mein Reich isti in der Luft, può ripetere col Gigante di Bonn.
  

   Élévation

   Au dessus des étangs, au dessus des vallées

   Des montagnes, des bois, des nuages, des mers,
   Par delà le soleil, par delà les éthers,
   Par delà les confins des sphères étoilées;

   Mon esprit, tu te meus avec agilité,
   Et, comme un bon nageur qui se pâme dans l'onde,
   Tu sillonnes gaiement l'immensité profonde
   Avec une indicible et mâle volupté.

   Envole-toi bien loin de ces miasmes morbides,
   Va te purifier dans l'air supérieur,
   Et bois, comme une pure et divine liqueur,
   Le feu clair qui remplit les espaces limpides.

   Derrière les ennuis et les vastes chagrins
   Qui chargent de leur poids l'existence brumeuse,
   Heureux celui qui peut d'une aile vigoureuse
   S'élancer vers les champs lumineux et sereins;

   Celui dont les pensers, comme des alouettes,
   Vers les cieux le matin prennent un libre essor,
- Qui plane sur la vie, et comprend sans effort
   Le langage des fleurs et des choses muettes!

   Traduzione ritmica di Luigi De Nardis:

   In alto, sugli stagni, sulle valli, / sopra i boschi oltre i monti e sulle nubi / e sui mari, oltre il sole e oltre l’etere, / al di là dei confini delle sfere / stellate, tu mio spirito, ti muovi / agilmente: dividi la profonda / immensità come un buon notatore / che gode in mezzo alle onde, gaiamente, / con virile e indicibile piacere. / Fuggi lontano da questi miasmi / ammorbanti, e nell’aria superiore /vola a purificarti e bevi come / un liquido divino e puro il fuoco / che colma chiaro le regioni limpide. / Fortunato colui che può con ala / vigorosa slanciarsi verso i campi /sereni e luminosi abbandonando /i vasti affanni ed i dolori, peso / gravante sopra la nebbiosa vita; / colui che lascia andare i suoi pensieri / come le lodolette verso i cieli, / nel mattino; colui che sulla vita / plana e, sicuro, intende la segreta / lingua dei fiori e delle cose mute.

    Per me Élévation avrebbe potuto tranquillamente occupare il posto di Bénédiction come prima lirica: la trovo più densa e ardita nelle sue metafore, e linguisticamente più snella. I due versi conclusivi poi, da me citatissimi, rappresentano la summa della poetica baudelairiana e della poetica tout court, almeno di quella simbolista che Les Fleurs inaugurano e che noi amiamo.

 *

Altro mantra; Correspondances  

   La seconda lirica (quarta nella raccolta) è il secondo dei miei lunghi mantra. Correspondances (tale il suo titolo) mi evoca quelle sinestesie che in D’Anunzio in poesia e in Skrjabin in musica trovano per la prima volta ampio rilievo. In un convegno al Vittoriale in cui si trattò il tema “D’Annunzio e la Musica” (si vedano  Atti del Convegno internazionale di studio, a cura di E. Ledda e A. Bassi, Gardone Riviera-Milano 1988, Il Vittoriale degli Italiani 1989, pp.47-78) il musicologo e storico Luigi Verdi tenne una lunga relazione (di cui trascrivo solo l’inizio) su “D’Annunzio e Scriabin” in cui il tema delle sinestesie nella poesia e nella musica dei due autori è ampiamente trattato. Io stesso in queste pagine ne discorsi brevemente riferendo di un Festival di Lucerna una cui grande locandina riportava su fondo azzurro 12 stelle filanti di diversi colori ad indicare le note, i colori che Skriabin aveva direttamente riportato sui tasti del suo pianoforte. Ecco quel che scrive Verdi:

   La vita e l’opera di Skrjabin e di D’Annunzio presentano molte singolari analogie: se il poeta nacque nel 1863 ed il musicista nel 1872, a nove anni di distanza ed in contesti geografici e culturali completamente diversi, le loro vite sembrano però svilupparsi parallelamente, segnate dalle medesime influenze e da ideali simili, perfettamente in sintonia con il clima simbolista della fine del XIX secolo. Dai ritratti pervenuti e da alcune descrizioni, sappiamo che essi si somigliavano anche nell’aspetto fisico e nel portamento. Plechanov ci descrive Skrjabin come una “elegante natura femminea, armoniosa e delicata” e così lo stesso D’Annunzio nel Notturno descrive la propria immagine giovanile: “La fronte è liscia sotto le masse dense dei capelli scuri. I sopraccigli sono disegnati con tanta purità che danno qualcosa di indicibilmente virgineo alla malinconia dei grandi occhi”. Seppure il loro campo d’azione sia stato differente, tuttavia D’Annunzio, secondo le sue stesse affermazioni, aspirò tutta la vita a risolvere la poesia in musica, come Skrjabin tese sempre a illustrare la propria musica con la poesia. Non abbiamo prove, però, che i due artisti si siano conosciuti personalmente, né che il musicista abbia letto qualcosa di D’Annunzio, sebbene il poeta sia stato tradotto in russo da Jurgis Baltrusajtis, amico fraterno di Skrjabin; è anche poco probabile che D’Annunzio abbia conosciuto gli scritti di Skrjabin, che a quell’epoca non circolavano se non in lingua russa, ma non è escluso che ne conoscesse le teorie estetiche, che i suoi numerosi discepoli rendevano note in Europa; certo, dal momento in cui conobbe la sua musica, ne divenne un appassionato cultore. Vediamo dunque di precisare in quali circostanze è nato l’interesse di D’Annunzio per l’opera del compositore russo”.

  

   Prima di D’Annunzio e di Scriabin, fu Charles a descrivere la serie dei rimandi e delle sovrapposizioni sensoriali, si direbbe delle con-fusioni e frammistioni dei singoli campi percettivi, nella loro traduzione in poesia o in musica, delle Corrispondenze in Natura. In Correspondances, la quarta lirica delle Fleurs il fenomeno è particolarmente evidente. Nel sonetto in perfetti alessandrini il gioco sinestetico raggiunge il suo culmine quasi ad annullare la singolarità di ogni senso, restituendolo all’Unità del Corpo cosmico primigenio.

D’Annunzio e Scriabin raccoglieranno la lezione baudelairiana e, geniali discepoli, supereranno il Maestro.

   La Nature est un temple où de vivants piliers

   Laissent parfois sortir de confuses paroles;

   L’homme y passe à travers des forêts de symboles

   Qui l’observent avec des regards familiers.

   

   Comme de long échos qui de loin se confondent 

   Dans une ténébreuse et profonde unité,

   Vaste comme la nuit et comme la clarté,

   Les parfums, les couleurs et les sons se répondent.

 

   Il est des parfums frais comme des chairs d’enfants,

   Doux comme les hautbois, verts comme les prairies, 

   Et d’autres, corrompus, riches et triomphants,

 

   Ayant l’expansion des choses infinies,

   Comme l’ambre, le musc, le benjoin et l’encens,

   Qui chantent les transports de l’esprit et des sens.

 

   È un tempio la Natura ove viventi / pilastri a volte confuse parole / mandano fuori; la attraversa l’uomo / tra foreste di simboli dagli occhi / lunghi che di lontano si confondono in unità profonda e tenebrosa, / vasta come la notte ed il chiarore. / Esistono profumi freschi come / carni di bimbo, dolci come gli oboi, / e verdi come praterie; e degli altri / corrotti, ricchi e trionfanti, che hanno / l’espansione propria alle infinite / cose, come l’incenso, l’ambra, il muschio, / il benzoino, e cantano dei sensi / e dell’anima i lunghi rapimenti.

  

   Come è di ogni traduzione, la traduzione del pur bravo De Nardis non riesce a rendere il fascino della lingua originale, che diventa il fascino delle cose a cui la lingua rimanda, la lingua che le cose sono, le cose che la lingua è.

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Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et        absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

  Gelobt seist Du jederzeit, Frau Musika!

 

 
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