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Tante piccole schegge di realtà. Uno sguardo disincantato sul mondo per cercare di conoscerlo e, se possibile, tentare di capirlo.

 

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« Cos'è la solitudine?La prima volta? »

LA SOLITUDINE

Post n°532 pubblicato il 01 Settembre 2007 da review
 

Vuoto esistenziale
o percorso di conoscenza?

 

 

“Dagli uomini”, disse il Piccolo Principe, “coltivano cinquemila rose nello stesso giardino... e non trovano quello che cercano” “E tuttavia quello che cercano potrebbe essere trovato in una sola rosa o in un po’ d’acqua”... “Ma gli occhi sono ciechi. Bisogna cercare col cuore “
(Saint-Exupéry, 1943, pag. 108).

Ho voluto ricordare queste parole perché penso che più di altre possano esprimere, in modo perfetto, la condizione dell’uomo contemporaneo, nella sua continua, inesausta, utopistica ricerca esteriore dei significati più intimi delle cose, di spiegazioni che non riesce tuttavia a trovare, di un approdo che diventa sempre più lontano e sempre più impossibile. In questa sua irrazionale e frustrante ricerca l’uomo non capisce che tutto questo suo girovagare non fa che allontanarlo sempre più dalla “sorgente” che potrebbe finalmente “dissetarlo”, ma che potrebbe  trovare solo ripiegandosi su se stesso e scrutando se stesso nella propria intima interiorità.
E sono proprio le parole del Piccolo Principe a proporre a tutti noi una nuova possibilità di ricerca, a suggerirci una nuova strada da percorrere per comprendere e spiegarci l’esperienza della solitudine, pur senza, probabilmente, arrivare a trovarne una soluzione accettabile, perché, se la strada può essere una, le solitudini sono, invece, innumerevoli e ognuno di noi ha un suo proprio modo d’immaginarsela, di rappresentarsela e di viverla.
La parola “solitudine” rimanda al concetto di “separazione” e il concetto di “separazione” rimanda, a sua volta, al parto e alla conseguente separazione del nascituro dalla madre, con la perdita di quel particolarissimo stato di protezione e di “sicurezza”, che gli era stato garantito dal periodo di una  lunga e tranquilla gestazione. Perdita che corrisponde alla sua prima drammatica esperienza di vita vissuta e che  la parola solitudine gli ricorderà, nel suo inconscio, per tutta la vita.
Certo se da un lato la solitudine offre all’uomo innumerevoli opportunità per maturare e divenire un soggetto autonomo, dall’altro è spesso depositaria di valenze assolutamente negative.
La solitudine è, addirittura, qualcosa di biblico e, in quanto tale, esiste, addirittura, ad Adamo ed Eva e risale alla perdita del loro “paradiso celeste”, con la successiva condanna a un’esistenza di dolore, quello stesso che la separazione e la perdita subita avevano traumaticamente determinato.
La solitudine esiste prima dell’essere vivente, esiste a partire dall’ovulo che, nell’attimo della fecondazione è solo, quando si trova improvvisamente e definitivamente separato dagli altri spermatozoi e lo isolato altrettanto definitivamente dalla popolazione cellulare materna. E con l’inizio della quattordicesima settimana l’embrione, il futuro feto, continua a vivere la propria solitudine, immerso e sperduto nell’universo liquido del ventre materno. I successivi momenti della nascita, della crescita e del raggiungimento dell’età adulta, rappresenteranno, per l’individuo, una rievocazione di questa sua solitudine originaria.
Qual può essere, dunque, il destino dell’uomo? Può l’uomo liberarsi  dalla solitudine?
Io sono del parere che non possa riuscirci, ma, sicuramente, l’uomo vivendo nella solitudine ha per lo meno imparato a conviverci.  E se la disperazione non è riuscita ad avere il sopravvento, a quelli che avranno avuto la capacità di salvarsi, il loro continuo tendere a un superiore anelito  di vita, sia materiale che spirituale, consentirà ad ognuno di loro di trovare le ragioni per continuare a tentare nuove strade, lasciando a tutti noi la testimonianza di nuovi percorsi,  ciascuno  con le proprie capacità e con le proprie convinzioni.
La solitudine,quindi, non è solo disperazione, ma anche speranza e forza, conquistata nella acquisita consapevolezza della propria individualità. E, dunque, è anche possibile, per quanto possa apparire paradossale, che nella solitudine si possa riuscire a trovare, addirittura,  una determinata forma di felicità, perché “solitudine” non significa solo “depressione”, ma anche “reazione” consapevole, perché la depressione non è solo fuga da se stessi e dal mondo, ma anche ricerca di se stessi e del mondo, attraverso un percorso di autoanalisi che “rieduchi” la persona alla solitudine, trasformandola in uno strumento che consenta un incontro di vera conoscenza con il proprio sé, facendo così emergere le emozioni più segrete e più regolarmente represse, partendo da una riappropriazione del valore del silenzio, come unica possibilità di preparazione e di maturazione di incontrarsi con gli altri in una rinnovata, feconda comunicazione, in una relazione che sfugga l’isolamento di un soggettivismo estremo, presupposto di una pretesa, sterile autosufficienza e di un rifiuto dell’altro in quanto diverso da sé.
Ma il processo durerà quanto durerà la nostra stessa vita e noi possiamo solo cercare di attribuirle un significato, trasformandola, ad esempio, in “ricordo”, quello cioè di una vita vissuta, come accade nel “Piccolo Principe”.
“No”, disse il piccolo principe. “Cerco degli amici. Che cosa vuol dire addomesticare?”
“E’ una cosa da molto tempo dimenticata. Vuol dire creare dei legami...”
“Creare dei legami?”
“Certo”, disse la volpe. “Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”.
“Comincio a capire”, disse il piccolo principe. “C’è un fiore... credo che mi abbia addomesticato...”
...
Ma la volpe ritornò della sua idea:
“La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio per ciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano...”
La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe:
“Per favore... addomesticami”, disse.
“Volentieri”, rispose il piccolo principe, “ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose”.
“Non si conoscono che le cose che si addomesticano”, disse la volpe. “Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!”
“Che bisogna fare?” domandò il piccolo principe.
“Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe. “In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino...”
Il piccolo principe ritornò l’indomani.
“Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe. “Se tu vieni per esempio tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore... Ci vogliono i riti!”.
“Che cos’è un rito?”(...)
“E’ quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore.”(...)
Così il piccolo principe addomesticò la volpe.
E quando l’ora della partenza fu vicina:
“Ah!” disse la volpe, “...piangerò”.
“La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi...”
“E’ vero”, disse la volpe.
“Ma piangerai!” disse il piccolo principe.
“E’ certo”, disse la volpe.
“Ma allora che ci guadagni?”
“Ci guadagno”, disse la volpe, “il colore del grano”.
(Saint-Exupéry, 1943).

 

 


  

 

 

 

 
 
 
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