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Carneade, chi era costui?

Post n°11 pubblicato il 02 Novembre 2007 da ambroseb
 

L’Ottavo capitolo dei Promessi Sposi si apre con la celebre frase pronunziata da Don Abbondio: «Carneade! Chi era costui?». Il curato è seduto sul suo seggiolone, in una stanza del piano superiore, con un libricciolo aperto davanti, quando Perpetua entrò a dirgli che alcune persone lo cercavano. Ed egli continua «Carneade! questo nome mi par bene d'averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui?». “Il libro su cui meditava in quel momento il curato, convalescente della febbre dello spavento, era un panegirico in onore di san Carlo, detto con molta enfasi, e udito con molta ammirazione nel duomo di Milano, due anni prima. Il santo v'era paragonato, per l'amore allo studio, ad Archimede; e fin qui don Abbondio non trovava inciampo; perché Archimede ne ha fatte di così curiose, ha fatto dir tanto di sé, che, per saperne qualche cosa, non c'è bisogno d'un'erudizione molto vasta. Ma, dopo Archimede, l'oratore chiamava a paragone anche Carneade: e lì il lettore era rimasto arrenato. In quel momento entrò Perpetua ad annunziar la visita di Tonio.”

Questo passo del celebre romanzo storico ha successivamente contribuito ha far diventare il nome di Carneade sinonimo di sconosciuto, tanto da sentir dire spesso, a proposito di gente assolutamente non conosciuta “E’ un carneade!”. Manzoni in quel momento voleva sottolineare alcuni tratti della personalità di Don Abbondio. In particolare l’approsimatività della sua erudizione tanto che lo scritore afferma: “Bisogna sapere che don Abbondio si dilettava di leggere un pochino ogni giorno; e un curato suo vicino, che aveva un po' di libreria, gli prestava un libro dopo l'altro, il primo che gli veniva alle mani.”; il fatto che preso dallo spavento non riuscisse a ricordare un grande filosofo (Carneade) mentre ne ricordava benissimo un altro  (Archimede) perché aveva fatto anche altre cose definite “curiose”. Ironia della sorte questo intendimento portò l’allora noto pensatore greco a divenire sinonimo di illustre sconosciuto.

Ma “Carneade, chi diavolo era costui?”.

Nato a Cirene (214 a.C.) frequentò l'Accademia platonica, della quale divenne scolarca nel 167/166 a.C. Se tra i filosofi dell’antica Grecia non viene annoverato tra i grandissimi, di ben più altro spessore è la statura che egli conquistò come oratore. Nel 155 a.C. fece parte della celebre ambasceria inviata a Roma dagli Ateniesi multati per aver saccheggiato Oropo; celeberrimo divenne il suo  successo argomentando, in due giorni successivi, a favore e contro l'esistenza di una legge naturale universalmente valida. La sua morte avvenne nel 129/28 a.C. Anche Carneade, come altri filosofi antichi, non scrisse nulla, ma il suo discepolo, Clitomaco, originario di Cartagine, ne espose le argomentazioni nei suoi scritti, che sono però andati perduti. Il discorso tenuto nel corso dell’ambasceria che lo rese famoso come retore, venne ripreso da Cicerone nel De re publica. Nel passo che riporto qui sotto vengono illustrati i ragionamenti di Carneade in merito alla differenza fra i vari popoli nella pratica del diritto. Essa è spiegabile con il fatto che il diritto deve essere in sintonia con ciò che viene considerato utile. Ne deriva che non la giustizia, bensí l'utilità è il valore che sta a fondamento delle conquiste romane.

Cicerone, De re publica, III, 12 e 15

1.  O se vorrà seguire la giustizia, pur essendo ignaro del diritto derivante dalla divinità, abbraccerà come vero diritto le leggi del proprio popolo che furono escogitate non già dalla giustizia ma dall'utile. Per qual ragione infatti si sarebbero costituiti svariati e differenti diritti secondo ogni popolo, se non per il fatto che ciascuna nazione sancì per se stessa ciò che ritenne vantaggioso per sé? Quanto sia distante l'utile dal giusto lo dimostra lo stesso popolo romano, che con l'indire guerre servendosi dei feziali e commettendo legalmente dei soprusi e sempre bramando e rapinando l'altrui si procacciò il dominio di tutto il mondo.

2.  Gli uomini sancirono il diritto per proprio utile, dal momento che esso venne spesso cambiato a seconda dei costumi e nell'ambito di una medesima società a seconda dei tempi, e pertanto non esiste alcun diritto naturale; tutti, sia uomini sia gli altri esseri viventi sono portati all'utile proprio, sotto la guida della natura; di conseguenza o non esiste affatto la giustizia o , se essa esiste in qualche modo, è il colmo della stoltezza, perché in servizio del vantaggio altrui nuocerebbe a se stessa.

3.  Inoltre primo stimare il patrio vantaggio nel caso che si eliminasse la discordia tra gli uomini, si ridurrebbe a nulla. Che è infatti il vantaggio della patria se non il danno di un'altra città o di un altro popolo? cioè allargare i confini con acquisti strappati ad altri con la violenza, ingrandire il dominio, imporre tributi maggiori...

4.  Pertanto chi abbia procacciato alla propria patria questi beni, come essi li chiamano, chi cioè abbia riempito l'erario di danaro a costo della distruzione di città e dell'annientamento di popoli, che abbia occupato territori, chi abbia reso piú ricchi i propri cittadini, questi è innalzato con le lodi fino al cielo, in costui si ritiene che consista somma e perfetta virtú; ed è questo un errore non soltanto del volgo e degli ignoranti, ma anche dei filosofi, che perfino danno insegnamenti per l'ingiustizia, perché dottrina ed autorità non vengano a mancare alla stoltezza ed alla malvagità.

      [...]

5.   Tutti i popoli fiorenti per domíni, ed in particolare i Romani che si impadronirono di tutto il mondo, se volessero essere giusti, cioè restituire le cose altrui, dovrebbero ritornarsene alle capanne e giacersene in povertà e miseria...

(Cicerone, Opere politiche e filosofiche, UTET, Torino, 1953, vol. I, pagg. 178-179 e 181).

 

Nell’affermare che se i romani volevano essere giusti avrebbero dovuto restituire i loro possessi agli altri e andarsene, Carneade sottolinea che in tal caso sarebbero stati stolti. In questo modo arrivò alla conclusione che saggezza e giustizia non andassero d'accordo.

 
 
 
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