Il Lampione

S'I' FOSSE FUOCO...

Riascoltando per caso una vecchia canzone mi è venuto alla mente uno strano personaggio appreso dalle antologie scolastiche e che mi provocò, allora sedicenne, un fascino particolare.
Cecco Angiolieri (1260-1312), senese, scrisse sonetti d’ispirazione autobiografica, sulla figura di un poeta inquieto e scioperato, i cui supremi valori egli stesso volle sintetizzare in un sonetto nel “la donna, la taverna e ‘l dado”.

TRE COSE SOLAMENTE M’ÈNNO IN GRADO

Tre cose solamente m'ènno  in grado,
le quali posso non ben men fornire,
ciò è la donna, la taverna e 'l dado:
queste mi fanno 'l cuor lieto sentire.

Ma sì me le conven usar di rado
ché la mie borsa mi mett'al mentire;
e quando mi sovvien, tutto mi sbrado,
ch'i' perdo per moneta 'l mie disire.

E dico: "Dato li sia d'una lancia!"
Ciò a mi' padre, che mi tien sì magro,
che tornare' senza logro di Francia.

Ché fora a torli un dinaro più agro
la man di Pasqua che si dà la mancia,
che far pigliar la gru ad un bozzagro.

Questo assoluto disimpegno fornisce motivi poetici di un profondo pessimismo, cui la critica volle attribuire una dipendenza diretta dalla biografia dell’autore. Tale analisi è sempre stata riduttiva: in realtà (anche se questa convenzione risulterebbe avvalorata dalle poche notizie biografiche, che ci danno il quadro di una vita effettivamente inquieta) la poetica di Cecco deve essere intesa come puro gioco lirico dagli ascendenti culturali ben definiti e rintracciabili nelle rime della goliardia medievale. I suoi temi ricorrenti sono l’amore sensuale spesso non corrisposto, l’odio per il padre, le imprecazioni contro la sfortuna e infine la “malinconia” tetra e irata che accompagna le delusioni amorose del poeta.

La mia passione per questo strano e singolare artista sta nel fatto che egli, come gli altri poeti detti “comico-realistici” si misero in polemica con le situazioni ed il linguaggio della lirica cortese d’ispirazione stilnovista, sul modello della tradizione latina dei rimatori “giocosi”, preferendo i temi concreti della vita quotidiana, a quel tempo considerati eretici.
Nel 1968 Fabrizio De Andrè dedicò, ad uno dei sonetti di Cecco, una trasposizione musicale nell’album Volume III:

S’I’ FOSSE FUOCO, ARDEREI ‘L MONDO

S'i' fosse foco, arderéi 'l mondo;
s' i' fosse vento, lo tempesterei;
s'i' fosse acqua, i' l'annegherei;
s'i' fosse Dio, mandereil'en profondo;

s'i' fosse papa, sare' allor giocondo,
ché tutti cristïani imbrigherei;
s'i' fosse 'mperator, sa' che farei?

A tutti mozzarei lo capo a tondo.

S'i fosse morte, andarei da mio padre;
s'i' fosse vita, fuggirei da lui:
similemente farìa da mi' madre.

S'i' fosse Cecco, com'i' sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
e vecchie e laide lasserei altrui.

Coerente con quanto scrisse in vita appare il fatto che la sua morte si fa risalire ad un periodo precedente alla data in cui avviene la rinuncia dell'eredità da parte dei cinque figli perché gravata da troppi debiti (25 febbraio 1313).