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Post n°104 pubblicato il 03 Aprile 2006 da lilith258
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            Disegna, o scrivi, e immagina di navigare nell’Arca, scatola nera piena come il cavallo in partenza per Troia o il missile puntato sulla Luna, in compagnia del vecchio patriarca inventore del vino e collezionista di specie, immagina che il Diluvio, finendo, resusciti sulla superficie liquida alcune isole: così, vedresti venirti incontro, per il ritirarsi lento del livello delle acque, campanili, vette, cime d’alberi, tetti, torri, teste le cui punte iniziano a perforare la carta. Si raggruppano in arcipelaghi e il mondo, ritornato, forma da sé i propri giardini, dove non mancano bacini, vasche o ruscelli.
            L’inondazione, la piena o la trasgressione significano senza dubbio la più grande violenza sociale, una guerra che vetrifica il pianeta ricoprendolo con una superficie liscia e desertica, foglio vergine che precede qualsiasi disegno, pagina bianca non scritta, mentre il ritiro porta la pace, la mansuetudine; scrivi nella serenità o nella bontà, ed ecco che il mondo comincia. Ricomincia, come d’abitudine, dal paradiso, dal primo giardino. Niente giardino senza questa alba della Terra nell’alto del monte Ararat, dove si dice che l’Arca s’incagliò.
            Non siamo noi a tenere la penna o il tiralinee, ma l’oggetto stesso attira le loro punte da dietro o da sotto il foglio; le statue lo traforano, mentre questo scende verso di esse. Il metodo è: atterrare.
            Più avanzano l’età e il tempo, più il lavoro cresce e ha luogo l’atterraggio. Le cose stesse, concrete, carnali, piene, inerti, complete, belle, presenti, prossime e vicine, arrivano là. Il loro numero denso, incalcolabile, trafora così molteplicemente la carta che occorre scrivere perdutamente quando di essa non ne rimangono che brandelli, minuscoli come coriandoli. Astratta, la giovinezza ama dedicarsi ad una geometria o ad una teoria violenta e rara; la maturità, più terrestre e posata, s’incanta con la pluralità, accogliendo del locale il dettaglio, in massa.
            Nel mentre che questa si arricchisce, la pagina stessa ammutolisce e s’annulla; si crede così, ad un certo momento, di scrivere o disegnare con le dita sulla sabbia o sul suolo, come Dio ha dovuto fare nel mattino del primo giorno: tentazione divina breve poiché l’autore, a questo punto, torna a sua volta nella terra per chiedere o aumentare il compenso o dare il cambio nel vecchio lignaggio che si affanna a propagare lo spirito dei luoghi attraverso la propaggine che corra di paese in pagina. E prende, in questo momento, il suo posto autentico e proprio, quello dell’oggetto, vero luogo delle cose, la località del mondo che perfora il foglio dello scritto o del disegno e ne resta il solo autore.
            Non si muore che di un eccesso d’amore per il luogo. Non si scrive che d’un eccesso d’amore.
            La firma sorge dall’oltretomba.

Michel Serres, Statues.

 
 
 
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