Creato da paoloalbert il 20/12/2009

CHIMICA sperimentale

Esperienze in home-lab: considerazioni di chimica sperimentale e altro

 

 

Sintesi del 2-Naftalensolfonato sodico

Post n°73 pubblicato il 15 Gennaio 2011 da paoloalbert

Bando alle ciance, oggi lo chef ha un raptus hard e propone a tutti i commensali un piatto di chimicaccia da stomaco buono:
il 2-naftalensolfonato sodico.
E' come un piatto di fagioli col lardo: o piace o non piace, senza tanti sofismi.
(In realtà lo chef non è così grossolano, ma ha un remoto secondo fine: l'idea di tentare di trasformarlo in futuro in qualcosa di più sfizioso: il beta-naftolo... ma se ne riparlerà).

 

Sodio naftalensulfonato 1

 

Veniamo subito al sodo, ecco cosa occorre:
- naftalene C10H8
- acido solforico
- sodio idrossido
- sodio cloruro
- vetreria opportuna

- in un pallone a due colli da 250 ml con applicato imbuto separatore e termometro che tocca quasi il fondo, introdurre 50 g di naftalina finemente macinata e riscaldare prima fino a fusione (80°) e poi piano piano fino a raggiungere la T di 160° (tolleranza di più o meno 5 gradi).
Dall'imbuto separatore far gocciolare lentamente, sempre agitando e in circa 5 minuti, 45 ml di H2SO4 conc., controllando che la temperatura si mantenga nel range previsto.
La miscela scurisce notevolmente; cessare il riscaldamento e tenerla in agitazione per altri 5 minuti.
[Non ho immagini per queste prime fasi].

Lasciar raffreddare e versare il prodotto in un becker da un litro contenente 500 ml di acqua, mescolando.
Se la solfonazione è stata corretta non si deve avere separazione di naftalina indecomposta ma tutto si deve sciogliere perfettamente (rimane una opalescenza dovuta ad una piccola quantità di 2-dinaftilsulfone C10H7-SO2-C10H7) insolubile).
Portare poco sotto l'ebollizione e neutralizzare la soluzione con NaOH al 20%; siccome c'è H2SO4 in eccesso ne serve una buona quantità e verso la fine procedere molto lentamente, senza far diventare basica la soluzione.
Portare all'ebollizione e se non si ha soluzione completa aggiungere lentamente acqua bollente fino ad avere una soluzione leggermente scura ma perfettamente limpida.


Sodio naftalensulfonato 2Lasciando raffreddare si ha abbondantissima separazione di 2-naftalensulfonato sodico, che essendo leggero e voluminoso fa quasi solidificare tutta la massa.
Filtrare su buchner (se è piccolo farlo in più passaggi) spremendo bene il prodotto, che rilascia l'acqua molto facilmente.
Ricristallizzare il prodotto come segue: preparare circa un litro di soluzione di NaCl al 10% ed in 500 ml di questa portata all'ebollizione sciogliere il prodotto mescolando energicamente; se non si scioglie tutto aggiungere ancora dell'acqua salata bollente, fino ad avere anche questa volta una soluzione limpida.
Filtrare come sopra, spremere il pù possibile e lavare appena appena con acqua ghiacciata e poi lasciar seccare all'aria.

Sodio naftalensulfonato 3Il 2-naftalensulfonato sodico si presenta sotto forma di squamette voluminose e leggere di colore leggermente beige e con una traccia odorosa del prodotto di partenza (ho detto una traccia, non deve puzzare di naftalina!).
La sintesi è abbastanza facile (ma attenzione alla T°!); rispettando le condizioni operative si riesce a rendere minima la solfonazione in posizione alfa (l'1-naftalensulfonato è più critico da fare) e non occorre alla fine separare gli isomeri.

La purificazione è discretamente lunga ma porta ad una buona quantità di prodotto e una volta tanto il costo è minimo (resa circa 55 g).

 

Sodio naftalensulfonato 4


Ricordo che la vera naftalina non è più usata come antitarme da tantissimo tempo; è stata sostituita dal 1-4-diclorobenzene Cl-C6H4-Cl il quale a sua volta è stato sostituito dalla molto più gradevole canfora C10H16O

That's all folks! Non è il caso di dire buon appetito... a meno che non ci sia in giro qualcuno che si chiama Eta Beta.

 
 
 

Ambientalismo vittoriano

Post n°72 pubblicato il 08 Gennaio 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Se dico "vittoriano", non vien subito da pensare a quel romantico periodo a cavallo tra la prima metà e la fine dell'ottocento?
Non par di vedere tutto quell'arco che va dai lanosi cappelli a cilindro fino alle solari pagliette belle epoque?
Il discorso di oggi si ambienta in questo periodo che ho così grossolanamente definito.

C'è da dire che le pareti delle case borghesi (specialmente inglesi) erano allora spessissimo ricoperte dalla tappezzeria, la cosiddetta "carta da parato": bene, facciamo finta ora che alla padrona di casa di una ipotetica dimora signorile del tempo piacesse una tappezzeria vivace, magari ad artistici fiorami, foglie e fregi come era di moda...

Poteva capitare, ed è effettivamente capitato in tante occasioni, che i signori abitanti di quella certa casa cominciassero ad avere strani sintomi, magari all'inizio semplici starnuti, poi tosse, lacrimazione, mal di gola, nausea, coliche, spasmi muscolari, diarrea, depressione, estrema debolezza...
Si capisce che tutti questi sintomi non erano concomitanti, ma apparivano in forma subdola, lenta ma sempre più invasiva, per arrivare a volte addirittura fino alle estreme conseguenze.
A volte succedeva a tutti i componenti della famiglia, altre volte magari solo a coloro che dormivano in una certa camera...

Cosa stava succedendo? Lo si è scoperto molto tempo dopo.

La fabbrica della carta da parati aveva usato per i propri pigmenti il bellissimo verde di Parigi (detto anche verde di Schweinfurt) oppure il verde di Scheele, due composti arsenicali allora molto in uso.
La presenza nella carta da parato di colle vegetali a base di amido, unita all'umidità dei muri ed a particolari condizioni favorevoli, avevano permesso lo sviluppo su quelle pareti di due microorganismi, il Penicillum brevicaule e il Penicillum divaricatum, che agendo per fermentazione sui composti arsenicali dei pigmenti avevano emesso minime ma pericolosissime tracce di arsina e alchilarsine; bastava che l'arsenico fosse presente in minime quantità (pochi ppm di As2O3 per mq) nella superficie della parete per rendere la stanza una insospettabile, lentissima ma micidiale camera a gas!
In Italia il problema fu studiato in particolare da Bartolomeo Gosio, e queste emanazioni furono da noi chiamate addirittura "gas di Gosio"!
Naturalmente quando la causa dei disturbi fu chiarita, l'impiego di queste sostanze fu proibito, anche se per qualcuno un po' troppo tardi...

Qualche formuletta si impone per capire meglio quella vittoriana tappezzeria:

- As, sua maestà l'Arsenico, un grigio semimetallo; è sempre lui il colpevole per definizione, è come il maggiordomo dei gialli delle barzellette!

- 3Cu(AsO2)2.Cu(CH3-COO)2, acetoarsenito di rame, detto verde di Parigi o di Schweinfurt, polvere di un bellissimo verde smeraldo, molto velenosa

- CuHAsO3, arsenito acido di rame, detto verde di Scheele, idem come sopra, con tonalità leggermente diversa

- As2O3, anidride arseniosa, è una polvere bianca e costituisce il terribile "arsenico" degli avvelenamenti delittuosi

- AsH3, arsina, un gas di odore agliaceo, velenosissimo

- (CH3-CH2)2=AsH, dietilarsina, liquido volatile, estremamente tossico e aggressivo

- (CH3)2=As-CH3, trimetilarsina, liquido volatile, idem come sopra

- (CH3)2-As-O-As-(CH3)2, ossido di cacodile, liquido di odore ripugnante, velenosissimo, di grande importanza storico-chimica, ma che ora non sto a dire.

Dopo queste amene considerazioni di tossicologia pre-ecologica, quando la sensibilità ambientale era zero con tutte le sue ovvie conseguenze, ce ne sarebbero da fare altre, ma girate di 180 gradi, verso un altro estremismo.

Mi riferisco a quella moda oggi dilagante di esibire la propria ignoranza scientifica vedendo quasi tutto ciò che ci circonda come tossico e cancerogeno.
Basta bruciare un cartone o possedere un vecchio termometro a mercurio che qualcuno ormai comincia a guardarti com'era guardato Gian Giacomo Mora nella Colonna infame... permettetemi di estremizzare un po' anch'io!

Ma che fastidiosi questi estremismi!
Non dico di preferire le mie verdi carte da parato, ma tra queste e un moderno eco-talebano... non saprei cosa scegliere.

 

 
 
 

Giro di boa

Post n°71 pubblicato il 04 Gennaio 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Accendo ora il computer e mi accorgo che il "contachilometri" ha intanto doppiato quella che per me era una lontanissima boa.

Non so chi sarà stato il decimillesimo ospite di questo blog nato quasi per caso giusto un anno fa... è certo che per chi trova un po' di diletto anche nello scrivere (oltre che nello sporcare provette!) è una buona soddisfazione constatare che qualcuno apprezza, o almeno partecipa benevolmente a quanto si fa e a quanto si dice.

Auguri rinnovati a questo ignoto decimillesimo amico!

 
 
 

Buon duemilaundici!

Post n°70 pubblicato il 01 Gennaio 2011 da paoloalbert

2011

 
 
 

Fiat lux! E luce fu! (poca...)

Post n°69 pubblicato il 30 Dicembre 2010 da paoloalbert

La chemioluminescenza è una caratteristica di pochissime sostanze che in determinate condizioni emettono radiazione nel visibile per un certo tempo.
E' un fenomeno complesso il cui meccanismo esula completamente dalle intenzioni del blog, e pertanto rimando senz'altro gli interessati a letture più teoriche e impegnative di queste modeste note.

Volendo proprio riassumere al massimo, se si considera una reazione tra i reagenti A e B a dare il prodotto C: A + B → C* → C + hυ , succede che per certe sostanze la reazione porta al prodotto C* in uno stato eccitato ed il decadimento degli elettroni su orbite più tranquille (stato fondamentale) non porta alla formazione di calore ma di un fotone (hυ), e di conseguenza di luce.


Lophine 1A- Sciogliere 1 g di lophine in 20 ml di etanolo tiepido
B- sciogliere 1 g di NaOH in 20 ml di acqua ossigenata al 3% e aggiungere 20 ml di etanolo
C- diluire 2 ml di Na ipoclorito al 5% in 10 ml di acqua

 

 

Al buio totale, dopo aver abituato gli occhi, mescolare 10 ml della soluzione A e 10 ml della soluzione B e porre la miscela in un cilindro; aggiungere in un colpo mescolando i 10 ml della la soluzione C: risulterà una debole ma visibilissima luminescenza giallastra, che perdurerà per qualche minuto!

L'intensità di luce non è paragonabile a quella del luminol e tantomeno a quella del TCPO (bis-2,4,6-triclofenilossalato, o altri), ma il fascino di queste strane e rare sostanze chemioluminescenti è il medesimo per tutte, e "l'effetto lampadina" non è il più importante!

Le foto della luminescenza sono prese ad alta sensibilità e lunga esposizione (10 e 20 secondi); ho provato anche la ripresa di un video, ma purtroppo la luminosità si è rivelata insufficiente per un filmato accettabile.

Lophine 3

Lophine 2

 

Ecco finalmente il cigno promesso... un cigno da chimici naturalmente

Enjoy with lophine!

 
 
 

Sintesi della Lophine

Post n°68 pubblicato il 30 Dicembre 2010 da paoloalbert

Come anticipato a Natale e con mia personale soddisfazione devo tirare in ballo ancora una volta il simpatico Aleksandr P. Borodin, il quale cita nella sua prima relazione scientifica (1859) le ricerche effettuate sull'idrobenzamide e sui suoi derivati amarina2,4,5-trifenilimidazolo.

Quest'ultima sostanza è chiamata "lophine" ed è stata la prima sostanza chemioluminescente storicamente studiata da Radziszewski nel 1877.
Sulla chemioluminescenza dirò solo due parole la prossima volta.

L'idrobenzamide per riscaldamento a 130° ciclizza per riarrangiamento prima in un composto detto "amarine" e successivamente, spingendo la temperatura a 300° si deidrogenizza a trifenilimidazolo, cioè a "lophine".
Per questa sostanza la generazione di luce avviene per ossidazione sugli atomi di carbonio 4 e 5, aprendo il doppio legame tra i due fenili laterali e inserendo un ossigeno con gli elettroni attivati.
La sintesi migliore della lophine non è quella proposta, ma ha come reagente di partenza il benzile 1,2-diphenyl-1,2-ethanedione (C6H5-CO-CO-C6H5), il quale però è molto meno comune della benzaldeide e pertanto riporto la sintesi che ho seguito, interessante soprattutto dal punto di vista puramente storico.

Procedura

La fase seguente va eseguita in modo opportuno poichè vengono emessi vapori tossici ed irritanti.
Porre 5 g di idrobenzamide in una capsula e scaldare cautamente, mescolando col bulbo di un termometro da 350°; la sostanza prima schiumeggia, fonde ed emette abbondanti vapori, formando un liquido più viscoso, giallo.
Continuando il riscaldamento, con le opportune cautele, il prodotto diventa più viscoso e scuro; al punto in cui si fa più insistente l'emissione di fumo acre, tenere così per qualche secondo, cercando di non arrivare al punto di eccessiva decomposizione e poi lasciar raffreddare.
Staccare la crosta resinosa, simile alla colofonia, molto elettrizzabile e polverizzarla in un mortaio, oppure scioglierla con etanolo bollente e conservare la soluzione (a freddo separa parzialmente la lophine perchè poco solubile).
Resa circa 3 g di "crude lophine", ovvero molto grezza, non purificata, non certo quantificabile (con i miei mezzi) la % di trasformazione, che ritengo però non elevata.
Si presenta come una polvere gialla amorfa.

 

Lophine

 

La prossima volta vedremo come visualizzare la chemioluminescenza della lophine... ancora un po' di pazienza!

 
 
 

Sintesi dell'Idrobenzamide

Post n°67 pubblicato il 28 Dicembre 2010 da paoloalbert

Questo composto (scoperto nel 1836 da A.Laurent, che gli ha dato il nome), è apparentemente una anonima sostanza come migliaia di altre più o meno simili; vedremo invece che l'idrobenzamide possiede una potente chance in più: servì (e servirà a sua volta nella seconda parte di questo lavoro) alla preparazione di un'altra sostanza, decisamente interessante...
Ma andiamo con ordine.

Ho trovato sul Cumming del 1937 (le fondamenta ciclopiche della chimica sperimentale sono ancorate ai "vecchi" e sacri testi... chi non ricorda il Gattermann di Primo Levi?) una bella sintesina facile facile che ho sperimentato con successo: è una reazione di condensazione e si basa sulla reazione tra l'ammoniaca e la benzaldeide per generare una sostanza che si chiama 1-phenyl-N,N'-bis(phenylmethylidene)methanediamine, e che tutti chiamano molto più amichevolmente hydrobenzamide, oppure, se proprio siamo allergici alla lingua d'oltre Manica, idrobenzamide.

Il materiale occorrente è semplice e la sintesi anche, ma già dalla bella formula del prodotto si potrebbe immaginare che esso racchiuda una sorpresina finale; diamo il via dunque alla metamorfosi del brutto anatroccolo, il quale da subito lascia intravvedere con un po' di immaginazione un futuro cigno...

 

Idrobenzamide

 

- benzaldeide C6H5-CHO
- idrossido di ammonio NH4OH
- etanolo
- vetreria opportuna

- In una beuta da 100 ml porre semplicemente 10 ml di benzaldeide e 50 ml di ammoniaca concentrata; si forma immediatamente una emulsione bianca; mescolare agitando vigorosamente e ripetere l'operazione ogni tanto per le successive due tre d'ore.
Chiudere la beuta col suo tappo (meglio se di vetro normalizzato, il tappo in gomma o silicone rimarrà altrimenti un po' intaccato e sarà difficile pulirlo) e porla a riposo a temperatura ambiente per due tre giorni.
Nel mio caso la temperatura del lab era decisamente invernale, quindi ho giocato sul tempo ed ho lasciato i reagenti tranquilli di fare i loro giochetti per più di una settimana, dando una mescolatina ogni paio di giorni.
Alla fine si sarà formato un precipitato bianco di idrobenzamide; filtrare, seccare e ricristallizzare da etanolo/acqua 90/10 a caldo; per raffreddamento e lasciando in riposo almeno una notte cristallizza il prodotto. Resa 4 g (85 %).

L'idrobenzamide si presenta come una polvere bianca (velenosa, classe di rischio T) con odore di benzaldeide (probabile residuo), insolubile in acqua, p.f. teorico 110°, nel mio caso più basso.

 

Idrobenzamide 1

 

Per adesso mettiamo da parte l'anatroccolo; la prossima volta tenteremo di trasformarlo in cigno! Non si vede dalla formula che ha già due bellissime ali?

 
 
 

Buon Natale!

Post n°66 pubblicato il 22 Dicembre 2010 da paoloalbert

Piccola pausa natalizia dedicata a tutti i visitatori, prendendo spunto dal mio stimato chimico compositore Александр Порфирьевич Бородин (Alieksandr Parfirièvic Baradìn), che presto avrò l'onore di citare ancora una volta riguardo una sintesi che lo toccherà da vicino.

Lasciamo un attimo la chimica e godiamoci un frammento di queste intimistiche, nostalgiche, deliziose note delle sue Danze Polovesiane, dal Principe Igor... augurando a tutti ...

 

 

  ...Buon Natale!

 
 
 

Sintesi del Formiato di benzile

Post n°65 pubblicato il 19 Dicembre 2010 da paoloalbert

Prima della pausa natalizia voglio completare la trilogia degli esteri benzilici degli acidi grassi inferiori, proponendo la terza e ultima sintesi di un altro estere odoroso importante, quella del formiato.
Il metodo è sempre Fischer e ricalca quella dell'acetato (al quale rimando per confronto); non avendo a disposizione acido formico anidro ma solo all'85%, ho usato un grande eccesso di quest'ultimo (circa 1:4) per essere quasi sicuro di salificare tutto l'alcool e non trovarmelo poi come residuo.
Occorre anche questa volta armarsi di pazienza per i lunghi tempi di ebollizione a ricadere ed i successivi lavaggi.

 

Benzilformiato

Materiale occorrente:

- alcool benzilico C6H5-CH2-OH
- acido formico 85% H-COOH
- acido solforico H2SO4
- sodio bicarbonato NaHCO3
- refrigerante allhin
- vetreria varia

- In un pallone da 250 ml introdurre 28 ml di alcool benzilico e 46 ml di acido formico all'85%; mescolando aggiungere 2 ml di H2SO4 conc. e predisporre il sistema per riscaldamento a ricadere con mantello riscaldante o con bagno ad olio o sabbia. Ho usato questo sistema, immergendo nella sabbia il termometro.
Portare ad ebollizione e tenere a lento riflusso per circa sei-sette ore, con la temperatura che si assesta mediamente sui 190-200°.
Alla fine del tempo versare la miscela in 200 ml di acqua e mescolare, si forma un'emulsione bianca difficilmente separabile, quindi lasciar riposare una notte.
Dopo la separazione, decantare cautamente il liquido sovrastante (va via la maggior parte dell'abbondante acidità residua), aggiungere 100 ml di una soluzione satura di NaHCO3 e mescolare fino a sicura e completa neutralizzazione. Eventualmente insistere in questo particolare. Lasciar ancora separare (questa volta è molto più veloce) e lavare bene un altro paio di volte con acqua, sempre con le pause opportune per la separazione delle fasi a piccola differenza di densità.
Come detto, la procedura di lavaggio è lunga ma evita di dover estrarre con solvente (CCl4 o etere) e poi separare a sua volta l'estere dal solvente.
Alla fine separare dall'ultima acqua con imbuto separatore e seccare con 5 g di CaCl2. Si deve ottenere un liquido perfettamente limpido (se contiene umidità è sempre lattiginoso).

Distillare il prodotto (circa 30 ml) raccogliendo tra 200 e 208°,ottenendo 17 ml di benzile formiato (64%).
Il residuo della distillazione, più altobollente e leggermente giallino, ha quasi identico profumo.

D. 1,05 - P.e. 203°- Liquido limpido incoloro, oleoso (un po' contro la logica?), con odore fruttato, diciamo una via di mezzo tra il gelsomino e le mandorle, ma più debole e aspro, meno gradevole e diverso dal benzilacetato o propionato.
Il benzilformiato si trova in natura in piccola quantità solo nel mirtillo rosso.

Mirtillo rosso

 

Sarebbe interessante conoscerne l'effettiva purezza, per verificare la presenza di eventuali prodotti di ossidazione e/o reazioni secondarie... ma ci vorrebbe "un apparecchio con la spina!".

 

 
 
 

Intermezzo

Post n°64 pubblicato il 12 Dicembre 2010 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Devo decidermi a mettere ogni tanto qualche intermezzo... in mezzo a queste badilate di chimica, altrimenti si rischia l'indigestione!

Spesso quando scrivo qualcosa per questo blog mi ascolto in relax qualche musica preferita; per esempio oggi mi sono ascoltato  fra l'altro quel capolavoro di Bach che si trova qui sotto, e che in vicinanza del Natale ci sta a pennello.

Devo dire che i miei gusti musicali sono strani e assai "anomali"; l'unica musica che escludo tassativamente dalle mie orecchie è quella che per semplicità chiamerò "normale" , ovvero l'anglo/americana, cantata in inglese.
Quindi in definitiva mi precludo con mio gran piacere il 98% della musica correntemente ascoltata, radio e teletrasmessa.
(Le debite eccezioni naturalmente ci sono, ma sono, appunto, rare eccezioni).

Ma guarda che razza di gusti, dirà giustamente chi leggerà queste considerazioni!
Infatti chi mai si sognerebbe di mescolare Mozart a musica montenegrina o mongola? Willibald Gluck a un canto dell'Anarchia? Lady Gaga che canta l'inno americano? (memorabile!) - Ma magari qualcuno c'è...

E adesso ascoltiamoci in pace questo ennesimo gioiello del nostro amico Johann Sebastian, il Weihnachts Oratorium del 1734.


 
 
 

Giocando con la candeggina

Post n°63 pubblicato il 09 Dicembre 2010 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Oggi faremo un uso della chimica sperimentale molto utilitaristico e pratico; saranno più contenti coloro che di solito non capiscono in queste mie strane riflessioni che gusto ci sia nell'attaccare pezzi di molecola ad un'altra per crearne una terza senza alcun fine pratico, ma solo per farlo così, per pura soddisfazione intellettuale. Oggi, come dicevo, niente di tutto questo! 

Poichè il mio lab confina in qualche modo anche con la lavanderia di casa, vedendo sullo scaffale una bottiglia di candeggina mi è venuto lo sfizio di verificare in quale percentuale vi fosse contenuto il principio attivo, ovvero l'ipoclorito di sodio NaClO.

L'analisi della candeggina (almeno "questa" analisi...) si basa su due reazioni redox; in una reazione redox c'è una sostanza che si ossida e una che si riduce (non sto a dire cosa significa altrimenti non ce la caviamo più...).
Ecco la prima reazione:

ClO- + 2 H+ + 2 I- --> Cl- + I2 + H2O

Traducendo: l'ipoclorito ossida uno ioduro a iodio e lui si riduce a cloruro.

Ecco la seconda:

2 S2O3-- + I2 --> 2 I- + S4O6--

Traducendo: il tiosolfato riduce lo iodio a ioduro e lui si ossida a tetrationato.

Poste queste premesse, ho preparato:

- una soluzione 0,1 M di tiosolfato di sodio (p.m. 248,10), sciogliendo 2,48 g di Na2S2O3.5H2O  in 100 ml di acqua (questa soluzione va fatta esattamente)

- una soluzione circa al 5% di acido acetico, diluendo 2,5 ml di CH3COOH in 50 ml di acqua

- una soluzione circa al 5% di ioduro di potassio KI, sciogliendone 0,5 g in 10 ml di acqua

- una soluzione di amido in acqua, disperdendone 0,1 g in 5 ml di acqua

Procedura:

- misurare esattamente 10 ml di candeggina e portarli a 100 ml; prendere esattamente 10 ml di questa soluzione e diluirli in un becker con circa 50 ml di acqua

- acidificare aggiungendo 10 ml della soluzione di acido acetico

- aggiungere circa 5 ml della soluzione di KI; la soluzione assumerà istantaneamente una colorazione marrone, indice che lo ioduro (in eccesso) ha consumato tutto l'ipoclorito ed ha sviluppato la corrispondente esatta quantità di iodio

- con una buretta calibrata aggiungere goccia a goccia la soluzione di tiosolfato finchè la colorazione avrà assunto una colorazione giallina (stà diminuendo lo iodio riducendosi a ioduro ed il colore si attenua)

- aggiungere qualche goccia della soluzione di amido (la soluzione assume colore violaceo per il complesso che l'amido forma con lo iodio ancora libero)

- continuare la titolazione con la buretta, sempre mescolando, finchè la colorazione tende a sparire; il punto di viraggio non è semplice da cogliere, qui è indispensabile un po' di esperienza. Quando il colore tende a sparire vuol dire che non c'è più iodio libero e che tutto il tiosolfato aggiunto si è trasformato in tetrationato.

Ora un po' di calcoli...

Dall'analisi delle ossidoriduzioni risulta che un equivalente di ipoclorito viene "consumato" da due equivalenti di tiosolfato.
Passando ai pesi molecolari, ciò significa che 396,20 (248,10 x 2) g di Na2S2O3 corrispondono a 74,44 g di NaClO; il rapporto ipoclorito/tiosolfato è quindi 0,15

Abbiamo fatto una soluzione 0,1 M di Na2S2O3, la quale contiene 15,81 g/l di tiosolfato anidro, ovvero 0,0158 g ogni ml; siccome ad ogni grammo di tiosolfato corrispondono 0,15 g di ipoclorito, ad ogni ml consumato nella titolazione corrispondono quindi 0,0158 x 0,15 = 0,00237 g di NaClO
Ecco trovato il numero magico per il quale moltiplicare la lettura alla buretta per convertirli in ipoclorito!

Nel mio caso il punto di viraggio (su tre prove eseguite in sequenza) è stato raggiunto mediamente con 22,5 ml di tiosolfato: 22,5 x 0,00237 = 0,053
Questi 0,053 g di ipoclorito sono però contenuti in 1 ml di candeggina, viste le diluizioni che si sono fatte in partenza, e quindi per ottenere la percentuale basta moltiplicare per 100.

Eccoci finalmente al traguardo:

la candeggina conteneva il 5,3 % di ipoclorito di sodio NaClO!
Si trattava di una candeggina generica, di quelle tipiche da supermercato a basso costo.

L'analisi è stata condotta con approssimazione, ma sufficiente per i risultati che si volevano ottenere, che erano solo indicativi; ha portato comunque a dati compatibili ed in un'oretta con soddisfazione mi solo levato una curiosità!

Salvo errori ed omissioni, naturalmente!

 
 
 

Gadolinio e Disprosio, due sconosciuti?

Post n°62 pubblicato il 05 Dicembre 2010 da paoloalbert

L'altra volta ho parlato in modo discorsivo (e molto incompleto!) degli elementi delle terre rare; oggi l'argomento entra nel particolare della nuda chimica sperimentale e ci entra di brutto. Quanto segue è quindi strettamente riservato agli sporcaprovette impenitenti e amanti degli elementi esotici!

Metto le notizie in forma estemporanea e senza commenti, trascrivendo gli appunti che mi ero preso scavando di qua e di là nelle mille gallerie della miniera di carta di cui parlavo; i sali citati si riferiscono specificamente al gadolinio e al disprosio.

Taca banda!
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Tanto per conoscenza, i sali di questi elementi sono generalmente bianchi, incolori o color crema; sono quasi tutti igroscopici e cristallizzano con varie molecole d'acqua. Si possono cristallizzare dalle loro soluzioni concentrate per evaporazione a pressione ridotta in presenza di H2SO4 concentratto come disidratante.
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Gli ossalati precipitano da soluzioni debolmente acide (HCl 0,5 N) con eccesso di (COOH)2 - Crist. con .6H2O e ad alta temperatura (oltre 600°) formano l'ossido corrispondente.
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I cloruri anidri (gli alogenuri in generale) sono molto difficili da ottenere e si conservano sotto vuoto; gli idrati sono solubilissimi e crist. con .6H2O; scaldati all'aria si trasformano parzialmente in ossicloruri insolubili, es. GdOCl
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I bromuri sono solubili in etanolo e acetone; gli ioduri sono giallastri (da ossido + HI) e formano all'aria ioduri basici, M(OH)Ix
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Gli ossidi e i carbonati sono solubili in acido acetico dando acetati con .4H2O; a caldo le soluzioni tendono a dare acetati basici.
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Gli iodati sono poco solubili e precipitano; idem i periodati; il periodato di gadolinio ha formula GdIO5 (Gd2O3 + I2O7)/2
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Il solfito di gadolinio Gd2(SO3)3.11H2O si può produrre facendo passare una corrente di SO2 in una sospensione di Gd2O3 in acqua fino a solubilizzazione. Aggiungere etanolo e lasciar cristallizzare dopo un certo tempo. Filtrare, lavare con acqua/etanolo e seccare.
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Il solfato di gadolinio crist. con .8H2O
Il solfato di disprosio idem; per cristallizzarlo precipitarlo dalla sua soluzione con grande eccesso di etanolo, lavare con etanolo assoluto e seccare con H2SO4. Giallo pallido.
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I seleniati sono solubili, i seleniti invece precipitano con un selenito alcalino Na2SeO3 e formano GdH(SeO3)2.3H2O
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I lattati si ottengono per scambio tra lattato di bario e i solfati corrispondenti; cristallizzano bene con 1,5.H2O
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I tartrati si ottengono aggiungengo goccia a goccia una sol. di ac. tartarico ad una sol di acetato. Il tartrato precipita e pian piano cristallizza, evaporare a b.m.
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I fluoruri sono insolubili e molto stabili anche ad alta T. Da KF in sol. debolmente acida.
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I complessi con acetilacetone si formano facilmente con le solite procedure, non sono colorati.
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Gd e Dy non formano solfati doppi.
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2Gd2(CrO4)3.5K2CrO4.7H2O si ottiene per scambio stechiometrico con Gd(NO3)3 e K2CrO4 - Precipita gelatinoso e pian piano cristallizza.
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I nitrati anidri sono sono molto difficili da ottenere. I sali idrati da ox + HNO3. Cristallizzano con 5 e 6.H2O
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I fosfati sono insolubili. Dai cloruri + Na2HPO4 - GdPO4.5,5.H2O
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Sali doppi stechiometrici: 2Gd(NO3)3.3Ni(NO3)2.24H2O, idem col manganese e col magnesio.
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KGd[Fe(CN)6].5H2O e idem col Dy ma .5H2O poco solubili, precipitano. Stesso colore degli alcalini.
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I ferricianuri hanno 4 e 4,5.H2O, precipitano e cristallizzano rosso granato.
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I tiocianati per scambio da Ba(CNO)2 e i solfati corrispondenti; crist. con 6 e 7.H2O - Evaporare in vuoto con H2SO4
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I bromati crist. con .9H2O variano molto la solubilità con la temperatura. E' uno dei metodi di separazione. Solubilità 500 g/l a 0° e 2000 g/l a 40°
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Terminano qui i miei appunti; se a qualcuno possono servire per giocarci un po', ben venga! (Max sei avvertito...)

 
 
 

Scavando fra le Terre Rare...

Post n°61 pubblicato il 02 Dicembre 2010 da paoloalbert

Nella splendida biblioteca storica della mia città (non dico quale) ho da poco scoperto che esiste una monumentale opera enciclopedica in francese sulla chimica inorganica che farebbe la felicità di qualsiasi chimico sperimentale.
Si tratta del Traité de Chimie Minerale (A.V) in 17 volumi, edito a Parigi (1930-1960), per complessive 15.000 pagine.
Incoraggiato dalla richiesta dell'amico Max, appassionato sperimentatore di Terre Rare, mi sono messo a scavare in questa cartacea miniera dai mille meandri alla ricerca mirata di notizie ben specifiche, ovvero tutto quanto si potesse sapere sui composti del Gadolinio e del Disprosio...

Chi è un po' avvezzo alla chimica (e anche chi non lo è!) intuisce facilmente che la richiesta non è delle più semplici: su qualsiasi testo di chimica, anche ponderoso, gli elementi delle terre rare vengono liquidati quando va bene in un solo capitolo ed i relativi composti sono appena accennati nelle caratteristiche generali, che poi sono tutte simili; difficilissimo che si scenda in particolari che non siano esclusivamente teorici in una chimica così di nicchia. Bisognerebbe poter accedere a testi specifici su questi elementi, ma ciò è del tutto impossibile per i comuni mortali al di fuori di una istituzione di ricerca specifica (ammesso che da queste parti esista...).

A noi sperimentatori sporcaprovette interessano poco gli orbitali, il momento magnetico o quant'altro, ma vogliamo invece dati concreti su due elementi che sono rari fra i rari! Cosa significa dati concreti? Ecco un paio di dati concreti come io li intendo: il tartrato di gadolinio è solubile? Che colore ha il ferricianuro di disprosio? Esistono i solfati doppi? Eccetera... e scusate se è poco!

Dopo questa inquietante introduzione, qualcuno (il solito coraggioso...) si chiederà cosa diavolo siano queste Terre Rare, che hanno perfino l'onore della lettera maiuscola.

Sono considerate "terre rare" un gruppo di minerali, prevalentemente silicati e fosfati, di 17 elementi compresi tra i metalli detti di transizione; di transizione perchè si trovano in mezzo alla tavola periodica, tra il gruppo II ed il gruppo III, caratterizzati da avere una configurazione elettronica particolare che ne rende le caratteristiche tutte simili tra di loro, tant'è che sono difficilissimi da separare l'un l'altro.
Di questi 17 elementi, 15 sono detti "lantanidi" (dal numero atomico 57 al 71) e gli altri due sono lo scandio e l'yttrio, che sono considerati nel gruppo t.r. pur avendo una configurazione elettronica leggermente diversa. L'unico elemento non esistente in natura è il n.a. 61, il promezio, che essendo radioattivo ed instabile non è destinato a sopravvivere. Una singolare curiosità è che in un momento si era creduto di aver intravvisto questo elemento in minerali in Italia, ed era già stato incautamente battezzato col nome di Florenzio...

Le prime scoperte sulle terre rare furono fatte da Gadolin nel 1794 nella penisola scandinava, ma questi minerali sono anche diffusi (nella loro rarità) anche in Brasile, Urali, India, Sud Africa, Groenlandia.
I metalli costituenti sono tutti elementi principalmente trivalenti e nei minerali vanno a sostituire parzialmente o totalmente elementi comuni a valenza minore come il calcio, il magnesio, il ferro e altri grazie al loro raggio atomico quasi uguale.
La gadolinite per esempio è un silicato di ferro, yttrio e berillio; le formule dei minerali sono comunque in genere assai complesse e variabili.
L'estrazione di questi metalli è sempre laboriosa, ma, molto semplificando, possiamo dire che si fa per trattamento dei minerali con acido solforico concentrato, eliminando la silice, precipitando gli ossalati dai solfati e trasformando questi ultimi in ossidi per calcinazione.
Qui viene il difficile, cioè la separazione: si sfrutta in genere la piccola ma diversa solubilità di alcuni sali (anche organici), o la cristallizzazione frazionata di alcuni sali doppi, oppure la diversa stabilità al calore dei nitrati, e così via. Attualmente viene usata la separazione mediante resine a scambio ionico.
Ecco infine l'elenco dei 2+15 elementi costituenti le Terre Rare:

-Scandio, Yttrio
-Lantanio, Cerio, Praseodimio, Neodimio, Promezio, Samario, Europio, Gadolinio, Terbio, Disprosio, Olmio, Erbio, Tulio, Ytterbio, Lutezio

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La prossima volta parlerò di quello che son riuscito a trovare scavando nella miniera cartacea citata all'inizio, andando alla fortunosa ricerca di sali di Gadolinio e Disprosio!

 
 
 

Sintesi dell'Eosina e dell'Eosinato d'ammonio

Post n°60 pubblicato il 27 Novembre 2010 da paoloalbert

Mi ricordo che da ragazzo guardavo sempre con intimo sollievo (perchè non era capitato a me!) quelle pitturate di mercurocromo fatte senza economia che arrossavano braccia e gambe di qualche sventurato coetaneo feritosi nei vari modi in cui una volta giocando ci si feriva (oggi il mondo è cambiato anche in tal senso...).
Cos'era quella sostanza terribilmente e impietosamente rossa, che trasformava nell'aspetto una banale sbucciatura in una ferita da eroe di guerra?
Era appunto il mercurocromo (o merbromina), un composto organico antisettico contenente nella molecola il mercurio, ora poco o non più usato nonostante la tossicità esigua.

Perchè questa strana introduzione iniziale? Perchè oggi si andrà a preparare un parente stretto della merbromina, cioè il tetrabromoderivato della fluoresceina, ovvero l'eosina ed il suo sale di ammonio.
Anche il colore è il medesimo, un rosso vivo intenso, che si attacca alla pelle in modo estremamente tenace.

Materiali occorrenti:

- Fluoresceina
- Bromo
- Etanolo
- Ammoniaca
- Vetreria opportuna

La bromurazione della fluoresceina è facile e immediata, con ottima resa.
Non mi soffermo sulle procedure di sicurezza per l'alogenazione, comunque è opportuno muoversi al rallentatore quando si ha in mano la bottiglia di Br2 per portarla all'aperto o in luogo adatto a questi esperimenti... Con certi composti non si scherza. Ecco le reazioni

 

Eosina 1

 

Eosina 2- Porre in una beuta da 25 ml 2 g di fluoresceina (ved. preparazione precedenta) ed aggiungere 10 ml di etanolo.
Agitare bene la sospensione (la fluoresceina è poco solubile in quasi tutti i solventi) ed aggiungere cautamente goccia a goccia 1,5 ml (4,6 g) di bromo.
Quando se ne è aggiunto circa la metà o poco più la fluoresceina si scioglie perchè forma il dibromoderivato molto solubile in alcool, di colore rosso scuro.Continuando l'aggiunta comincia a precipitare il tetrabromoderivato, del medesimo colore.

Lasciare in riposo un paio d'ore, filtrare su buchner e lavare bene prima con poco etanolo poi con acqua. Seccare all'aria il prodotto di addizione eosina.etanolo.
Per ottenere eosina pura occorre far seccare in forno a 110° in modo da eliminare completamente l'etanolo.
L'eosina si presenta come una polvere rosso aranciato, completamente insolubile in acqua; presenta anch'essa una bella fluorescenza con toni verde rossastri, ma meno intensa rispetto alla fluoresceina. Ha un estremo potere colorante per la pelle (è un colorante cellulare usato in istologia!), ne basta una traccia per colorarla di rosso vivo. La tonalità è la stessa del vecchio mercurocromo, il quale non è altro che una diromofluoresceina con un gruppo -Hg-OH al posto del terzo atomo di bromo.
Per renderla solubile in acqua e vedere la fluorescenza si può trasformarla nel sale sodico, oppure, ancora più interessante, è l'esperimento che segue:

Eosina 3-Ammonio eosinato

- Mettere in un cristallizzatore una ventina di ml di ammoniaca concentrata.
Coprire il cristallizzatore con un foglio di carta da filtro e fissarlo ai bordi con un elastico o con nastro adesivo. Sulla carta da filtro disporre uno straterello sottile di eosina, coprendola con un imbuto di vetro rovesciato.
L'ammoniaca gassosa investe per diffusione l'eosina, il colore scurisce quasi istantaneamente ed in un paio d'ore, mescolando ogni tanto, la trasformazione in eosinato d'ammonio sarà completa e per comoda via secca.

Eosina 5Eosina 4 

 

Questo composto si presenta come una polvere di un bel verde oliva scuro a riflessi metallici (la foto non rende il colore), di enorme potere colorante e solubile in acqua; tracce di esso impartiscono  all'acqua la fuorescenza verde rossastra che si vede in foto, ed alle mani delle belle macchie rosse indelebili per qualche giorno! 

 

Eosina 6

 
 
 

Pirotecnia, Händel e fuochi artificiali

Post n°59 pubblicato il 21 Novembre 2010 da paoloalbert

Tutti gli anni, il lunedì più vicino a ferragosto, da una splendida posizione panoramica collinare a 700 m di altezza e prospiciente la mia visualità estiva, si effettua un tradizionale e seguitissimo spettacolo pirotecnico, che fa alzare gli occhi a migliaia di spettatori raggiunti anche a grande distanza dalle luci e dai colori di questi meravigliosi fuochi.

 

Santa Viola 

 

A parte l'effetto coreografico, come è possibile realizzare questi spettacoli? Come si ottengono queste luci colorate?
Riprendo in mano un libretto ora introvabile che avrò letto in passato forse mille volte: "Pirotecnia e fuochi artificiali" del colonnello Attilio Izzo, edito da Hoepli nel 1950.
Poichè in rete si trovano ottimi scritti sull'arte pirotecnica, sui vari prodotti e sui moderni sistemi di controllo dei lanci, non mi soffermo su queste informazioni ma su quelle più prettamente chimiche.

La base di lancio di ogni fuoco è ancora la gloriosa polvere nera, fatta, come quasi tutti sanno, di una miscela di nitrato di potassio, KNO3, di carbone di legna e di zolfo.
Questa miscela accesa in un punto provoca in tutti i granelli una serie di velocissime reazioni di ossidoriduzione con sviluppo di una ingente quantità di gas ad alta temperatura, che provoca gli effetti ben noti di deflagrazione e spinta.
Il colore della combustione della polvere nera è più o meno quello del carbone, cioè aranciato, scintillante, non particolarmente vivo, e si vede chiaramente all'atto del lancio, a terra, seguito da un botto sordo, che è la violenta spinta verso l'alto del "fuoco" che dovrà accendersi in cielo con il relativo colore.

Analizziamo ora i colori, che sono quelli che ci interessano di più.
Un colore è dato dalla combustione (che è poi sempre una reazione redox) di un combustibile e di un comburente fornitore di ossigeno.
Il combustibile in genere è carbone, gomma lacca, zolfo, lattosio, destrina, nerofumo, PVC, ecc., le formulazioni sono infinite, ogni pirotecnico ha la sua gelosa ricetta speciale...

Determinante ai fini del colore del fuoco è il comburente o un sale ad esso miscelato: sono in genere sostanze fortemente ossidanti derivate da un metallo i cui sali colorano la fiamma.
Ecco qualche esempio, fra quelli più usati:

Luci rosse: sali di stronzio, nitrato Sr(NO3)2, carbonato SrCO3

Luci verdi: sali di bario, nitrato Ba(NO3)2, clorato Ba(ClO3)2

Luci gialle: sali di sodio, ossalato Na2(COO)2, nitrato NaNO3, carbonato Na2CO3

Luci azzurre: sali di rame, carbonato CaCO3, cloruro CuCl2, ossicloruro CuO.CuCl2, solfato ammoniacale CuSO4.nNH4OH.

Luci viola: miscele di coloranti rossi e verdi (Sr + Cu + eventuale Hg2Cl2)

Luci arancio: miscele di coloranti rossi e gialli (Sr + Na)

Luci bianche: alluminio Al, magnesio Mg, siliciuro di calcio CaSi2, antimonio Sb

L'ossidante classico era una volta il clorato di potassio KClO3, ora sempre più sostituito dal perclorato KClO4, molto meno pericoloso.
Il colore della fiamma dello ione potassio è violetto, ma troppo poco intenso per essere determinante, quindi il perclorato serve essenzialmente per far bruciare velocemente e ad alta temperatura il combustibile. A questa temperatura gli ioni dei metalli sopra citati impartiscono alla fiamma il loro caratteristico colore, creando l'effetto coreografico voluto.
E i tre "botti" finali? Questi devono produrre solo la maggior quantità di rumore possibile e sono quindi delle piccole "bombe" non colorate (producono solo un intenso lampo bianco giallastro), ma la cui velocità di "ossidazione" deve essere elevatissima: le ricette sono tante ma non ne metterò qui nemmeno una...

 

 

E dopo questo trionfo di sali di stronzio e bario, godiamoci Händel ! 

 
 
 

Sintesi del Periodato di potassio

Post n°58 pubblicato il 18 Novembre 2010 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

La sintesi di oggi è una sintesi decisamente estiva, quando lavorare all'aperto, magari nella frescura di un bell'albero ombroso, è una soddisfazione che rende ancora più piacevole il lavoretto che si va a fare... tanto più perchè oggi SI DEVE lavorare all'aperto!
Il motivo è che uno dei protagonisti della nostra commediola odierna è il cloro, ed il cloro è un elemento molto cattivo, che non sta volentieri in una stanza in compagnia di qualcuno che debba respirare...
Per compensare la sua cattiveria, ha anche delle buone proprietà: per mezzo di lui è possibile ossidare suo fratello iodio alla massima valenza  e passare dallo ione iodato (V) a periodato (VII), cioè da -IO3 a -IO4; ho provato con successo un metodo classico ed è quello che vado a descrivere.

Materiali occorrenti:

- Potassio iodato KIO3
- Acido tricloroisocianurico C3O3N3Cl3
- Acido cloridrico
- Potassio idrossido

 

Sono partito dai 14 g di KIO3 ottenuti per elettrolisi e purificazione come descritto in un post precedente.

-Sciogliere lo iodato in 150 ml di acqua tiepida, aggiungere 15 g di KOH e porre la soluzione in un recipiente alto e stretto (ideale un cilindro graduato); pesare ora tutto il sistema.

Potassio periodato 1LA SUCCESSIVA OPERAZIONE VA TASSATIVAMENTE ESEGUITA ALL'APERTO, come si diceva all'inizio.

In un pallone a doppio collo da 250 ml mettere 15 g di TCCA acido tricloroisocianurico ed in un imbuto gocciolatore porre 80 ml di HCl al 15%; far gocciolare molto lentamente l'acido nel TCCA in modo da avere un flusso regolare di cloro, che viene fatto gorgogliare (tre/quattro bolle al secondo) con un opportuno tubo in vetro sagomato sul fondo del recipiente con la soluzione di iodato.
Continuare con il cloro fino ad esaurire il TCCA e poi ripesare la soluzione: se l'interfaccia liquido/gas era corretta si deve aver avuto un aumento di peso di circa 6 g; in caso contrario continuare.
E' avvenuta la seguente reazione:

3 KIO3 + 6KOH + 2 Cl2 --> K4I2O9 + 4 KCl + 3 H2O


Potassio periodato 2

Il K4I2O9 rimane nella soluzione fortemente alcalina.
Aggiungere ora lentamente HCl a media concentrazione fino a rendere la soluzione decisamente acida e concentrare per ebollizione eliminando circa 1/3 dell'acqua. Lasciar riposare una notte al fresco: cominceranno a formarsi dei cristalli di KIO4 che per ulteriore riposo e concentrazione (magari al sole, visto che è estate...) si depositeranno quasi quantitativamente.

K4I2O9 + 2 HCl --> 2 KIO4 + 2 KCl + H2O

Lavare opportunamente con acqua fredda e lasciar asciugare.

Il periodato si presenta sotto forma di bei cristalli bianchi/trasparenti molto pesanti (d.3,62); la solubilità è 8 g/l a 20°-
La resa finale da me ottenuta è stata di 13 g di KIO4 partendo da 14 g di KIO3, quindi circa dell'87%.

Potassio periodato 3

 

Ecco il risultato ottenuto.
E ora che ce ne facciamo del KIO4? Questa è proprio LA domanda da NON fare ad un chimico sperimentale! Per gli usi basta la soddisfazione di averlo fatto.

 

 
 
 

Sintesi del Propionato di benzile

Post n°57 pubblicato il 13 Novembre 2010 da paoloalbert

Ogni tanto, irregolare ma prevedibile... zack! : ecco che arriva l'estere!
Chi è l'attore protagonosta di oggi? Qualche post fa dicevo che avrei congiunto in matrimonio l'alcool benzilico con i primi tre acidi carbossilici (non tutti assieme povero alcool!) presentando poi i risultati: dopo le prime nozze già celebrate (acetato di benzile), ecco dunque il propionato; tengo per ultimo il formiato perchè quest'ultima unione mi ha un po' deluso, ma ne parleremo a suo tempo.

Per la parte generale ved. eventualmente l'acetato.

Benzilpropionaato 1

Materiale occorrente:

- alcool benzilico
- acido propionico
- acido solforico
- CaCl2

- refrigerante allhin
- vetreria varia

 

Benzilpropionaato 2

- In un pallone da 250 ml introdurre 30 ml di alcool benzilico e 50 ml di acido propionico; mescolando energicamente aggiungere 1 ml di H2SO4 conc. (ho messo volutamente poco acido e preferito giocare sul tempo piuttosto che rischiare ossidazioni inopportune vista la T° elevata in gioco) predisporre il sistema per riscaldamento a ricadere con mantello riscaldante o con bagno ad olio o sabbia.
Portare appena sotto ebollizione e tenere a minimo riflusso per una decina di ore ad una T° di circa 200-205° agitando ogni tanto.

Alla fine anche di questa giornata (!) versare la miscela in 150 ml di acqua e mescolare accuratamente.
Il propionato di benzile CH3-CH2-COO-CH2-C6H5 si emulsiona con l'acqua acida ma si separa lentamente senza problemi.
Dopo la separazione, decantare cautamente il liquido sovrastante eliminando in questo modo la maggior parte della notevole acidità residua.
Aggiungere altri 150 ml di una soluzione satura di NaHCO3 e mescolare fino a neutralizzazione completa dell'acidità; eventualmente aggiungere pian piano altro bicarbonato fino a neutralizzazione perfetta.
Lasciar ancora separare le suggestive bolle che sembrano oleose e lavare bene un altro paio di volte con acqua pura.
E' interessante questa fase perchè l'estere e la soluzione acquosa salina arrivano al punto di avere densità quasi identiche e si forma quell'effetto che si vede in quei termometri gadget a bolle di liquido colorate.

Alla fine separare dall'ultima acqua con imbuto separatore e seccare con 5 g di CaCl2.
Si deve ottenere un liquido incoloro perfettamente limpido (se è leggermente lattiginoso contiene ancora umidità).
Ho lavato accuratamente il prodotto volendo evitare la distillazione (da fare a pressione ridotta), ottenendone 32 ml, circa il 71%; non ve volevo perdere metà e rischiare la decomposizione con una distillazione normale visto il p.e. molto elevato (220°) e la piccola quantità di partenza.
D. 1,05 - P.e. 219-220°-

 

Benzilpropionaato 3

 

Anche il propionato di benzile è un liquido limpido incoloro, leggermente oleoso e con forte odore gradevole aromatico fruttato, molto simile all'acetato ma meno "duro" di questo; è un costituente anch'esso dell'essenza di gelsomino e simili ed è ampiamente usato in profumeria per fragranze di tipo fruttato o orientali.

 
 
 

Acido carbossilico... chi è costui?

Post n°56 pubblicato il 11 Novembre 2010 da paoloalbert

Parafrasando al plurale la celebre frase di Don Abbondio, cosa sono questi acidi carbossilici?
E perchè questa domanda?
Semplicemente perchè il discorso di oggi non è dedicato ai chimici ma... ai passanti!
Non sono infinite le vie del Signore? E allora non potrebbe capitare che qualche anima dispersa passando di qui per caso abbia il coraggio di mettersi a leggere qualche riga di quello che dico, magari avendo sentito nominare questi acidi in maniera estemporanea?
I chimici quindi per oggi possono farsi un giretto...
________________________

Passante, ti è chiara innanzitutto la differenza tra Chimica Organica e Chimica Inorganica?
La chimica inorganica tratta di tutti i 92 elementi della natura e dei relativamente pochi loro composti, la Chimica Organica tratta solo del carbonio e dei suoi milioni di composti.
Come è possibile questo paradosso? Novantadue ne fanno pochi e uno solo ne fa milioni? Per ora prendiamo per buona questa singolare affermazione e accettiamola per vera (come in realtà è).

Intanto c'è da dire che gli acidi carbossilici fanno parte della chimica organica e quindi per forza devono contenere il carbonio.
Altro apparente paradosso: il carbonio si lega solo con pochi altri elementi per dare origine alla sua prolificissima milionaria famiglia e fra questi pochi preferiti ci sono solo l'idrogeno, l'ossigeno e l'azoto. (Spesso, e di enorme importanza soprattutto in biochimica, c'è anche qualche altro invitato speciale, come il fosforo, lo zolfo ed altri, ma la stragrande maggioranza dei composti organici del carbonio è fatto solo di idrogeno, ossigeno e azoto, spesso nemmeno insieme).

L'atomo di carbonio forma dei legami (e qui ci vuole un provvidenziale omissis...) con gli altri atomi adiacenti, formando delle "combinazioni" fisse che originano poi le proprietà della molecola completa.
Fra queste numerose combinazioni fisse ve n'è una particolare, questa:

 

Carbissile

 

Quando questa struttura appare in una molecola la fa definire "acido carbossilico", perchè il gruppo -COOH è proprio detto "carbossile".
La lineetta iniziale indica che il gruppo carbossile deve essere attaccato a qualcos'altro, che ora non è il caso di approfondire per non complicare troppo le cose. La cosa sicura è che quando in una molecola c'è un -COOH, quella molecola è formalmente un acido (anche se non è detto che sia un "acido" come lo si intende di solito, non è "corrosivo", anzi a volte non è nemmeno "acido" al gusto).

Facciamo qualche esempio pratico:
H-COOH --> attaccato al carbossile c'è il minimo che può esserci, cioè un atomo di idrogeno.
Questo è l'acido formico (tutti gli acidi hanno una nomenclatura ufficiale, ma è molto più suggestivo questo vecchio nome tradizionale che deriva dalle formiche rosse) ed è l'acido capostipite di tutti gli altri, i quali avranno attaccato alla lineetta qualcosa di più complesso di un semplice H.

L'acido numero due? Questo tutti lo conoscono perchè è l'acido acetico, costituente fondamentale (diluito al 6%) del normale aceto da tavola, dal quale ne trae il nome. In questo caso la famosa lineetta è collegata con un gruppo -CH3 (detto "metile"), e la formula di conseguenza è CH3-COOH

Il terzo acido aggiunge al CH3- anche un -CH2- e quindi la somma totale diventa CH3-CH2-COOH e l'acido originatosi prende il nome di acido propionico (ripeto che c'è un motivo per i nomi, ma non lo dico ora).

L'appetito vien mangiando: agggiungiamo ogni volta un -CH2- in più e andiamo avanti con la catenella... CH3-CH2-CH2-COOH: ecco l'acido butirrico... CH3-(CH2)3-COOH: ecco l'acido valerico (o valerianico), e così via.
Naturalmente il carbossile può unirsi a gruppi molto più complessi di quelli appena visti, ed è ciò che origina una infinità di acidi organici, i quali però mostrano tutti una caratteristica comune: il loro bravo -COOH che spunta da qualche parte della molecola!

Termino qui questa incompletissima disanima sugli acidi organici, sperando che quell'improbabile passante al quale era rivolto questo semplice discorso non se ne sia scappato a gambe levate anzi tempo...

 
 
 

Compagni di scuola...

Post n°55 pubblicato il 06 Novembre 2010 da paoloalbert

Niente paura... non si tratta dei miei compagni di scuola! Ma andiamo con ordine...

Tempo fa tentai l'interessante reazione elettrolitica di Kolbe (siamo in chimica organica), della quale magari qualche volta parlerò; mentre cercavo la fotografia di questo grande scienziato tedesco mi sono imbattuto in Wiki e nel  cammino accademico di questo personaggio...
Sentite, sentite chi, a cavallo della seconda metà del XIX secolo, ruotava intorno alle università di Gottinghen, Marburg e Leipzig, a diverso titolo frequentate dal nostro amico Adolph Wilhelm Hermann Kolbe!
Per gli appassionati di storia della chimica non c'è che l'imbarazzo della scelta... da chi partiamo?
Tanto per gradire partiamo da un paio di insegnanti del nostro "alunno" Hermann?
Eccoli: Wohler e Bunsen!

- Friedrich Wohler: possiamo chiamarlo il padre della chimica organica? E' colui che con uno storico esperimento demolì la secolare Teoria della Forza Vitale, secondo la quale tutte le sostanze organiche hanno origine biologica e che dall'"inorganico" non si può passare all'"organico"!
Già, fino al momento in cui Friedrich riscaldò del cianato di ammonio, ottendo... miracoloooo!... --> l'urea!

- Robert Bunsen: quello del "becco Bunsen"? Sì, proprio quello! Ma ha fatto anche qualcosina di più, e scusate se è poco: grazie ai suoi studi fondamentali sulla emissione spettroscopica ha scoperto (con Kirchoff) gli elementi cesio rubidio, oltre ad aver condotto una miriade di altre ricerche scientifiche nel campo dei composti arsenicali e della chimica in generale.
_____________________________

Ecco invece un breve ed incompleto elenco di altre pietre miliari della Chimica che a diverso titolo furono in contatto con Kolbe; compagni di studi possiamo dire, e qui mi riallaccio al titolo del post:

- Peter Griess: per le sue ricerche sull'azoto organico e le diazotazioni è addirittura passato alla storia per il suo celeberrimo reattivo (reattivo di Griess) per la ricerca dei nitriti.

- Thedor Curtius: studi fondamentali sulle azidi e l'acido azotidrico; Reazione di Curtius, in cui una acilazide riarrangia in isocianato.

- Vladimir Markovnikov: proprio quello della regola che porta il suo nome, e che afferma che nelle reazioni di addizione elettrofila l'idrogeno si lega al carbonio più idrogenato del doppio legame.

- Ernst Otto Beckmann: l'inventore del sensibilissimo termometro differenziale per lo studio delle proprietà colligative e della scoperta della Trasposizione di Beckmann, nella quale da una ossima si può ottenere un'ammide.

- Carl Graebe: importanti studi sui coloranti, la fucsina, l'alizarina, la purpurina, ecc.

- Constantin Fahlberg: scopritore del 1,1-Dioxo-1,2-benzothiazol-3-one, ovvero la saccarina.

- Nikolai Menshutkin: al quale si deve l'omonima reazione, nella quale una ammina terziaria viene trasformata in sale di ammonio quaternario per mezzo di un alogenuro alchilico.

- Jacob Vohlard: ancora scoperte e importanti ricerche di chimica organica su alogenazioni, aminoacidi, la sintesi del tiofene, la ciclizzazione, determinazioni in chimica analitica.

...e ce ne sarebbero ancora, ma basta, mi fermo qui!

Se tali e tanti erano i semplici "compagni di scuola" di Kolbe, per estensione possiamo facilmente immaginare  quale fosse l'impegno tedesco nella ricerca universitaria, specificamente chimica, nella Germania di fine ottocento!

Quasi quasi verrebbe voglia di paragonarla all'attuale situazione della ricerca italiana... No, fermi con le scarpe! Giù le uova! Ho scherzato! Non tiratemi  niente addosso...!!!

 
 
 

Preparazione elettrolitica dello Iodato di potassio

Post n°54 pubblicato il 01 Novembre 2010 da paoloalbert

Il 10 aprile 2010 (post n.25) ho presentato la sintesi elettrolitica del bromato di potassio KBrO3; poichè è stato un lavoretto di soddisfazione, ho ripetuto l'esperienza sostituendo lo iodio al bromo e facendo stavolta la sintesi dello iodato di potassio, KIO3.
Le modalità operative ricalcano in gran parte l'esperienza precedente, alla quale quindi rimando per quanto riguardo la parte introduttiva e generale.
Volevo verificare se anche l'ossidazione dello ioduro a iodato per via elettrolitica fosse possibile con una resa decente, portando a buoni risultati (cosa che fortunatamente si è verificata).
Come alimentazione elettrica della celletta ho usato il semplicissimo alimentatore di cui metto lo schema, che si è dimostrato adattissimo per questo tipo di esperimenti, senza dover scomodare complessi alimentatori stabilizzati, certamente efficienti ma del tutto superflui per questo scopo. 

 

Alimentatore

 

La fotografia mostra l'alimentazione della celletta con l'accrocco elettrico assemblato in maniera volante e provvisoria, prima di essere debitamente inscatolato per gli usi futuri; in primo piano l'indispensabile amperometro e a destra il potenziometro  ceramico a filo per la regolazione della corrente.
La celletta è posta sopra il solito agitatore magnetico, tenuto in funzione durante tutta l'elettrolisi per evitare la disomogenea distribuzione dello iodio attorno all'anodo.

 

Potassio iodato

 

L'"incasinamento" del banco di lavoro è dovuto proprio alla sperimentazione pratica dell'alimentatore... la prossima volta sarà molto più ordinato!

Materiale occorrente:

Potassio ioduro KI
Potassio bicromato K2Cr2O7
Cella elettrolitica (ved. post dedicato)
Alimentatore regolabile in corrente 0-5 Ampere

Sono partito da 20 g di KI, sciolti in 40 ml di acqua, aggiungendo i soliti 50 mg di bicromato come catalizzatore.
Anche in questo caso l'ossidazione è molto lunga (circa 10 ore a 3 A); appena data corrente si separa iodio al'anodo e la soluzione scurisce fortemente, rimanendo tale fino alla fine dell'operazione; si ha ovviamente anche forte riscaldamento per effetto Joule e ogni tanto va quindi aggiunto qualche ml di acqua per riprstinare quella evaporata o decomposta per elettrolisi.
Non si deve esagerare nella densità di corrente (A/cmq) altrimenti si ha proprio elettrolisi dell'acqua e formazione di ossigeno all'anodo, cosa da evitare.
Una corrente media di 3 A su pochi cmq di elettrodo è un buon compromesso.
Ad un certo punto comincia a separarsi lo iodato: è conveniente filtrarlo un paio di volte durante l'operazione e continuare l'elettrolisi fino a quando non se ne forma più e diventa sempre più evidente la decomposizione dell'acqua.
Lavare opportunamente il precipitato con acqua molto fredda e ricristallizzarlo da acqua; all'inizio è grigio per le piccole tracce di carbonio derivanti dagli elettrodi, ma dopo un paio di ricristallizzazioni la parte scura rimane aderente alla carta da filtro e lo iodato è perfettamente incoloro e cristallino.
La resa, partendo da 20 g di KI è stata di 14 g di KIO3, quindi del 55% comprese tutte le perdite:  direi che non sarà semplice aumentarla e la ritengo del tutto soddisfacente.

 

Potassio iodato 1

 

Questi 14 g di KIO3 sono stati destinati a miglior causa, ovvero alla sintesi del  periodato di potassio KIO4 per ulteriore ossidazione in altro modo, come si vedrà in un successivo post dedicato.
Stay tuned!

 
 
 

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