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Ah, le figlie le figlie...

Post n°204 pubblicato il 22 Ottobre 2008 da le_corps

Dico io per affermarmi, dico io e ripeto io perché mia madre da bambina mi riprendeva sempre e mi faceva sentire inadeguata: insicura, come mi ha suggerito con garbo la terapeuta.
Insicura, sì, ho ripetuto io con sicurezza.
Dico io sempre e con tutti, dico io prima di qualunque altra cosa e prima di tutti perché tutti sappiano dove sono e chi sono e che “io sono”, a prescindere da tutto e da tutti. Ma poi alla fine non prescindo mai davvero, io presumo di prescindere ma così non è, e lecco la mano di chiunque mi dica che ho ragione o che sono splendida o che ho delle belle tette o delle belle idee, e quando qualcuno mi dice brava, brava, così si fa, bene, hai ragione, mia cara, ragione da vendere, be’, solo allora io mi sento forte del mio io e allora con ancora più forza dico io, io, io. E lo dico come se posassi una pietra, la prima pietra, una pietra a fondamento di solide mura, le mura di una cittadella; e lo dico come se scolpissi i fianchi di un altare su cui risplendere, perché io risplendo solo così; e se nessuno mi parla se nessuno mi compiace o compatisce io non esisto e sto male e piango al telefono con la mamma, la mia cara mammina che c’è sempre, lei sì, è sempre con me quando ho bisogno. Ho provato a crescere a sua immagine e somiglianza ma qualcosa non ha funzionato, qualcosa s’è messo di traverso sulla strada dell’identificazione, dell’emulazione, qualcosa ha sbarrato il compimento della mia realizzazione, e quel qualcosa deve essere ancora in me, nascosto da qualche parte in me, mentre resto qui, ferma, ferma attorno al mio io io io al mio bisogno di distinguermi di sentirmi piena e potente, con tutte le mie idee sistemate e agganciate come strofinacci puliti e stirati, rigidi perché stirati, con tutte le mie conquiste da portare in alto come vessillo pericolante sulle teste dei passanti, degli interlocutori, che poi non è proprio un interloquire con le persone è più che altro un interloquire con me stessa, con quella parte di me bisognosa di conferme, le conferme della mamma, che non arrivavano mai, ed io sì che le aspettavo sera dopo sera assieme ad un bacio della buona notte ma neanche il bacio arrivava mai, ma io l’aspettavo, l’aspettavo comunque e intanto raccoglievo e mettevo da parte l’esempio di mia madre e le sue parole che mi si avviluppavano intorno come saliva, la saliva della mia mamma che voleva tutto il meglio per me, e non mi baciava mai ma mi stringeva con le sue braccia possenti e mentre mi stringeva mi sussurrava cose di un amore terribile di un amore mai più udito né provato: le sue parole filavano un bozzolo che mi riparava, un bozzolo più suo che mio, un bozzolo che mi sarei dovuta guadagnare infilando, nell’ordine, fatica e successo: un bozzolo da riscattare, sì, perché io, il bozzolo, me lo dovevo meritare!
Io io io, ma io non mi ritrovo più, io non sono più, fuori da quel bozzolo (che sto ancora pagando) io non sono, no, fuori non ci sono, fuori non ho confini né voce: che cosa terribile non aver voce.
Ed è per questo che se dico qualcosa la dico alzando la voce, facendola grossa, grossa e tagliente forse sprezzante, ma lo faccio solo per ricordarmi di aver voce, per immaginare di averla davvero una voce, ma poi, non sto qui a dirlo, ma poi è un dire più che altro a me stessa, mica agli altri.
Gli altri, gli altri; gli altri chi? Gli altri o mi blandiscono o non ci sono. Non mi interessano le loro ragioni, pertanto fingo di ascoltarli e rispondo come se li avessi davvero ascoltati: il come se è la salvezza dei miei giorni insulsi, fatti di passi falsi e di lunghe chiacchierate con mia madre che mi protegge, mi protegge sempre e mi dà tutte le indicazioni di cui ho bisogno, per orientarmi in questa vita senza confini, dove non ho voglia di ascoltare non ho voglia di dubitare: ciò che ho acquisito è inamovibile, ed è ciò che sono: qualcosa di solido e sicuro dove poggiare le mie gambe cedevoli e da cui lanciare la mia voce stentorea che mi ricorda tanto quella della mia mamma: abbiamo la stessa voce io e lei, anche se per il resto non ci assomigliamo granché, ed io mi sento impallidire al suo cospetto, perché ho fatto meno di lei e malamente, perché sono meno di lei, e peggiore non so, dopo tutto posso essere peggiore solo di me stessa, della me stessa che avrebbe dovuto riscattare il bozzolo. Ma no, non l’ha fatto; no, non ce l’ho fatta. E pago, pago l’affitto a mia madre, l’affitto di un bozzolo che non è mai stato finito che non è mai stato mio: colpa di questa mia saliva, saliva di pessima qualità: una saliva che evapora appena filata una saliva che non avvolge che non ripara, una saliva inutile. Come me. Non è vero, mamma?

 

 

Dove sono
 io
 c’è un meno
un meno in un
buco
un buco e un’attesa
immobile
e un vuoto
elastico
preso in prestito
tirate
tirate
tira
te
p
u
r
e
.
.
.

 

 

 
 
 
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