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Yo-yo

Post n°205 pubblicato il 29 Ottobre 2008 da le_corps

Papà, ho bisogno di amputare un dito; papà, ho bisogno di amputare un braccio, di amputare un piede e una gamba; papà, devo strappare tutti i nei e dar fuoco a tutti i peli, sì tutti, devo bruciarli tutti e scoperchiare la pelle e farla bruciare all’aria, farla friggere dall’ossigeno; ho bisogno di amputare incidere e tagliare, papà, tu lo capisci vero, vero che lo capisci?
Ho bisogno di arrostire i miei capezzoli di scavare nel mio petto di scorticare l’osso del mio culo, ho bisogno di carne viva di carne vera ho bisogno di un cuore di un centro e di una luce bianca, bianca come latte, che mi nutra come latte, una luce lattea che allatti il mio sguardo, che mi faccia bianca e trasparente come vetro, vetro che non ferisce; ho bisogno di uno sguardo che mi trafigga, papà, e che scongiuri tutta questa opacità.
Tu sai che io non posso più aspettare che da qui me ne devo andare, da questo corpo che inganna e depista e che è troppo e che è poco, questo corpo che do in prestito in uso in affitto e che non sento non muovo non riparo, questo corpo troppo pesante, pesante come la mia anima pesante, questo corpo che mi occlude come una manciata di terra nella bocca come un pugno di pietre nella gola, e no, papà, non è volontà di nocumento non è ricatto non è debolezza, perché io non sono debole, papà, ma forte, così forte da amputarmi una mano e lasciartela sulla tavola prima di partire, la lascerò accanto al mio piatto perché tu mi abbia in cuore guardandola, guardando quel pezzo di me che avrò sacrificato in nome di un ricordo e di un sorriso sfumato, labile sulle tue labbra, e bruciante come pensiero strappato: sì, per questo la mia mano l’avrò strappata al corpo e deposta sulla tua tavola, un tempo nostra: per un sorriso slabbrato per un ricordo rubato.
Ma la mia mano presto smetterà di sanguinare e i tuoi occhi tu li volgerai altrove: tornerai al tuo piatto, a guardare il cucchiaio che si riempie di riso, e il riso che si avvicina al tuo mento, e il tuo mento si abbasserà mentre chiuderai gli occhi e assaporerai un sapore che sa di chicchi sgusciati e di acqua, di lavoro e di terra, che sa di infanzia e di vecchiaia incollate nello stesso piatto, di infanzia e vecchiaia che fumano calde sotto il tuo naso, e sono così calde che al posto tuo io ci soffierei sopra ma tu no, tu le ingoi ad occhi chiusi e le assapori, e cacci dalla bocca un cucchiaio splendente che quasi mi abbaglia, che quasi mi viene un sospetto: che sia quella, la luce, la luce che ancora non sgorga, dal mio corpo smembrato e spolpato dal mio corpo eviscerato ed offerto, dato in uso in prestito e in affitto, questo corpo ripulito e svuotato, spurgato e disinfettato, mondato di ogni sporcizia e diafano per farsi attraversare e sottile e teso come corda da far risuonare, ma non da me, io non son capace di attraversarmi io non son capace di farmi suono, io posso solo sgrossare limare, posso solo tentare di perfezionare lo strumento, grattando via il superfluo rimuovendo la sua opacità.
Amputo sgrosso e limo, per farmi corpo da fendere con lo sguardo, per farmi anima da tendere in fondo ad un filo.
Ma no, che sciocca, io non posso, non posso fare nulla io, perché io non sono niente, perché io non sono e basta, è questa la verità non vista: non esistono confini perché l’io non esiste: l’io è annegato liquefatto dissipato, l’io non esiste: e il mio corpo non esiste perché il corpo non esiste, e la mia anima non esiste perché l’anima non esiste, e quella mano non è la mia mano, perché semplicemente non è una mano, e tu lo capisci, vero papà?
E non hai bisogno di far finta di nulla, perché tu sei il nulla, papà, e quindi sei tutto, e mai, mai t’ho sentito dire io e mai t’ho visto muovere da io, o ridere da io, eppure mi capisci, ora che amputo taglio e sgrosso per rifinire il mio io, sì tu mi capisci e mi capaciti perché tu sei niente e tutto, e ti aggreghi e disaggreghi come chicchi di riso come polvere come suono.
Ma ora devo andare, papà, prima che faccia buio, devo andare più lontano del mare, più lontano del cielo e del mare, più lontano di qualunque orizzonte; sì, ora è bene che io vada, papà, e la mia mano te l’ho data, apparecchiata accanto a un piatto senza fondo, il piatto buio delle mie paure.  

 

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