Creato da le_corps il 27/02/2007

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il teatro il delirio l'oblio

 

 

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Post n°210 pubblicato il 23 Dicembre 2008 da le_corps

È venuta a trovarmi senza ch’io potessi metterlo in conto, è venuta senza preavviso. Ha suonato alla porta, ho aperto ed è entrata. Mi ha detto ciao come se fosse la cosa più naturale di questo mondo, come se entrare in casa mia fosse una abitudine, l’abitudine di chi suona perché ha semplicemente dimenticato le chiavi di casa, l’abitudine di un inquilino distratto ma che ti aspetti.
Ed io invece non l’aspettavo, come potevo dopo tutto?                      

Lei suona e dice ciao, e con un angolo della bocca mi fa un sorriso, e mi guarda fissamente: no, non è da lei, guardare fissamente.
Lei guardava obliquo, per lo più; e voleva che anch'io distogliessi l’attenzione dagli occhi per metterla nelle parole: lei voleva essere ascoltata quando parlava, e non guardata, voleva che l’ascolto fosse tutto nel suono nella melodia nel senso, che le parole assorbissero e restituissero tutto il suo intendimento: le parole, nient’altro. Ascolta le parole, le parole! Mi incoraggiava, no, lei non implorava, non implorava mai.
Allora tenevo lo sguardo obliquo pure io e mettevo in fila le sue parole, davo loro un ordine, le ridisponevo per capirle meglio: per diluirne la sintesi o per districarne il groviglio. Ascoltare e interpretare necessitano di molta attenzione, e lei non tollerava distrazioni. E faceva bene.
Apro la porta, sorride ed entra. Come se fosse normale come se sapesse dove andare e cosa fare. E lo sa di sicuro. Lo sa senza premeditazione, è il suo fiuto a guidarla, a farle compiere il gesto più efficace: la sua è un’interpretazione all’impronta, ed io di impronte ne lascio anche parecchie.
Chiudo la porta con triplo giro di chiave, e già non so che dire e già non so che fare. Allora smetto di pensare, e respiro piano, bandisco l’affanno del pensiero, il suo ronzare ripetitivo il suo girare su se stesso. Prima che possa farle strada è già sprofondata sul divano con le gambe accavallate e una mano sulla nuca: carino qui.
Sì – sorrido io.
Come stai?
Bene.
Cosa ti manca?
Tutto.
E già sento le lacrime premere sotto le palpebre: la mia inclinazione all’autocommozione potrebbe essere scambiata per fragilità, ma io credo che sia solo un modo di accogliere se stessi, di massaggiare le proprie membra in un bel bagno di lacrime: cosa sono certe lacrime se non un potente balsamo riparatore da far colare nelle spaccature della pelle, nelle fratture del sentimento di sé? Se fossi stata meno rigida con me in passato, ora piangerei di meno: lo so. Ma non ha senso recriminare. Mi giro su me stessa e agguanto la macchinetta del caffè. Quando non so cosa fare preparo il caffè: compiere un’azione che si conosce bene, fare qualcosa che si può fare in sicuro automatismo aiuta. A non sbagliare, e ad ingannar le lacrime quando arrivano troppo presto. Ma anche le lacrime suonano inaspettate, e non fai in tempo a dire chi è che hai già spalancato loro la porta, e sei tutta bagnata.
Faccio il caffè, sì, mi sembra una buona idea un’idea che non va nemmeno pensata: il mio corpo mi soccorre con le giuste azioni non appena percepisce un vacillamento della mia coscienza. Ah, corpo corpo, come farei senza le tue improvvisazioni? Il mio corpo è il mio paracadute.
Svito la macchinetta del caffè davanti al lavandino, sciacquo i suoi pezzi sotto un getto d’acqua violento, per far prima, per pulire bene, ed anche per far rumore per poter dire: non ho capito, come hai detto, scusa? Ma è una scusa che non vale, quando le parole si sono già spostate dal divano al tuo orecchio, quando un corpo si è già spostato dal divano alle tue spalle e l’aria ha perduto elasticità e si è fatta vischiosa.

Respirare piano, respirare profondamente.

L’acqua scorre violenta e dritta, dal rubinetto allo scarico: le mie mani sono deposte sul fondo del lavandino e conservano nel loro palmo i pezzi metallici della macchinetta.
L’acqua scorre indisturbata: io sono immobile, in ascolto. Dell’acqua dell’acqua. Mi concentro sul suo rumore, ché è l’unico rumore in casa: ne cerco altri ma non ne trovo, se non ci fosse quello scroscio d’acqua dritto e violento ci sarebbe solo silenzio.
E nel silenzio non pensi, puoi solo sentire: un corpo accostato alla tua schiena, e una guancia fresca sul tuo collo caldo: allora, come va? – e una voce che ti cola sulla spalla e lentamente scende e si raccoglie nel tuo ombelico.
Ti aggrappi alle uniche parole possibili: non lo so, dici; e aspetti.
Aspettare è una cosa che ti è sempre riuscita bene, nella vita. Se le domande bruciano basta rinviare subito la palla a chi ce l’ha lanciata, finché la palla non cadrà a terra, scivolando via, o finché la palla non si tramuterà in un abbraccio.
Non sento più il mio corpo.
Il tuo corpo non può essere il tuo solo filtro, la tua sola porta d’accesso alla conoscenza al sentire all’essere. Il tuo corpo è un indicatore un segnalatore: una tumescenza gonfia di bisogni ma priva di soluzioni.
Perché sei venuta?
Perché il tuo corpo ha bisogno.
Di cosa?
Di essere guarito.
Da te?
Da chi sappia farlo, o voglia farlo, da chi non è troppo danneggiato o lo è così tanto da riuscire ad accogliere l’avaria altrui.
Sono avariata, dunque.
Hai il corpo funestato di croste, le croste vanno ammorbidite: è pelle che non ricorda più di essere pelle, che ha perso la sua porosità, la sua capacità di trasformare la vita, di nutrirsi e nutrire. Il corpo non è un involucro, il corpo è la nostra anima esposta che si fa toccare e che tocca, la nostra anima pronta a contaminare e contaminarsi.
Corpo corpo, parli solo di corpo…
Non rivolgere il pensiero alle mie parole, ora, sono energie mal spese, concentrati sulla tua anima, che è senza bisogni, che è vita fatta per esultare: non c’è differenza tra corpo e anima. Quando io parlo di corpo, parlo di tutto questo, sì, quando io parlo di corpo parlo di tutto questo e mentre ne parlo vivo, traspiro inglobo restituisco. Quando tu parli di corpo, è solo il pensiero che parla, un pensiero vizzo, che non esplode né vivifica, anzi, ti intasa la pelle e sigilla la tua porosità, e senza porosità sei destinata ad ammalarti.
È che io… non so…
Non dire altro, sono qui per aiutarti: sono abbastanza danneggiata per farlo.
Con una mano chiude il rubinetto, con l’altra mi preme la mano gelata.
Ora c’è silenzio, e calma. La casa respira, lei respira, e anche io voglio respirare.
Che le croste ritornino pelle e la durezza si ammorbidisca, che il mio corpo torni a succhiare e la mia anima a ondeggiare, e tu succhiami leccami mordimi e toccami, mettiti la mia anima tra i denti tra le cosce tra le dita, mettitela sotto le unghie, e poi scavala e poi bagnala e inondala; che il mio corpo sussulti e la mia anima palpiti, e tu succhiala leccala mordila, e annusala strappala riparala, e cercala, e amala.

 

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Commenti al Post:
non.sono.io
non.sono.io il 05/01/09 alle 18:38 via WEB
E' che io volevo solo pescare. E' semplice, uno pesca e poi mangia. L'uomo, mangia i pesci, quindi sembra facile: un'esca, un ramo. E si mangia. Nel mare, ricco di cibo, si pesca, e si mangia. Si pesca, e si mangia. Troppo facile, per essere semplice.
 
 
le_corps
le_corps il 05/01/09 alle 18:57 via WEB
La linearità ci disturba per la sua facilità. L’ordine e l’accessibilità ci garantiscono la sopravvivenza, ma solo quella. Meno male che i pesci hanno le spine e che non abbiamo imparato a masticarle. Un giorno saremo pescati anche noi, disossati e ingurgitati. La semplicità è di chi sa vivere, di cosa ti stupisci allora?
 
   
non.sono.io
non.sono.io il 05/01/09 alle 19:02 via WEB
Ah, un sacco di cose. Quel gioco per esempio, quello che si fa in due, uno davanti uno dietro, uno dietro uno davanti, uno sopra uno sotto, l'altro di lato, o in piedi, o seduto. Si vince sempre. Mica come l'amore... E poi a me il pesce fa schifo. Adoro il pollo.
 
     
le_corps
le_corps il 05/01/09 alle 19:09 via WEB
Se si vince sempre è una cooperazione non un gioco, nel gioco vero se qualcuno non perde nessuno si diverte nemmeno chi perde.
 
     
non.sono.io
non.sono.io il 05/01/09 alle 19:16 via WEB
Hai da accendere?...
 
     
le_corps
le_corps il 05/01/09 alle 19:21 via WEB
no, però ho del pollo avanzato.
 
     
non.sono.io
non.sono.io il 05/01/09 alle 19:23 via WEB
Sai fare le fettine di pollo panate? Potrei fare pazzie per le fettine panate...
 
     
le_corps
le_corps il 05/01/09 alle 19:29 via WEB
sarei capace di fare fettine di pollo panate tutte le sere. sì, potresti uscirci pazzo...per la mia monomaniacalità. tendo ad essere monomarca monoprodotto e monotimica.
 
     
non.sono.io
non.sono.io il 05/01/09 alle 19:31 via WEB
Oddio! Anche io! Ma, allora, sei tu...
 
     
le_corps
le_corps il 05/01/09 alle 19:38 via WEB
sì, sei tu.
 
     
non.sono.io
non.sono.io il 07/01/09 alle 00:21 via WEB
Ed io, sciocco, che pensavo di non essere io...
 
     
le_corps
le_corps il 09/01/09 alle 20:20 via WEB
e invece abbiamo ragione entrambi. non credo che si possa essere più sciocchi di così, a questo punto.
 
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