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Due figli partono e uno non torna. Sta scritto così. E non lo si può ignorare. I segnali, madre, i segnali ci sono tutti: sono segni puntuali, sono indizi da raccogliere e comporre.
Due figli partono e uno non torna. Deve essere così: sta scritto. Ma tu, madre, tu non sei mai stata brava a leggere gli indizi a comporre il quadro del destino mentre il destino si disfa e si fa. Tu, madre, hai sempre voluto essere in ritardo sul destino, per piangere una volta sola, per piangere un’ultima volta, quella che ti spaccherà il cuore e ti farà cadere a terra come foglia sulla terra: cadrai lieve, perché tu sei lieve e preziosa come foglia.
È toccato sempre a me leggere i segni, decriptare la linea di coerenza che li univa, scansare le trappole e riconoscere le false tracce: il cammino è impervio, l’ambiguità tiranneggia il mio vedere eppure lo solletica, e mi sollecita a vedere, a vedere ancor meglio, ed io non posso non vedere ed io non posso non patire la condanna del vedere.
Perché spetta a me, spetta a me giustapporre i frammenti coniugare le voci del tempo accordare il cielo con la terra, e quanta fatica questo mi costi, cara madre, non oso dirtelo perché tu non capiresti perché tu scomponi il filo del tempo per ignorarlo meglio, e intanto infili i tuoi anelli come fossero certezze, certezze da impilare: quel che è, per te, è quel che è adesso. (Uso parole mie, mamma. Per capire. Perché per te non esiste nemmeno l’adesso). Quel che è adesso, sì, ma c’è tutto un prima, mamma, e c’è tutto un mondo di spiriti volatili che lasciano segni, ma i segni per te valgono meno di scodelle, e son tutti opachi: sono posate che non vale la pena lucidare, sono materia dura e inerte. Allora spetta a me il gioco delle assonanze predittive, spetta a me svelare la non casualità del nostro esistere.
E in questo esistere ci sei pure tu, mamma, anche se tu vivi in un mondo di solo presente (o comunque qualcosa di molto simile al presente), un mondo dove la carne è carne e il marmo è marmo, e quel che è stato è contenuto tutto in un quadro che non muta luce né tempo né dinamica, un quadro dalla spessa cornice; e quel che sarà è una luce bianca e accecante.
Sì, faccio un po’fatica a chiamarlo presente, questo tuo presente slegato dal tempo, perché il presente da solo non basta, da solo non ce la fa a definirsi, il presente da solo non ha statuto.
E intanto tu ridacchi mentre svuoti una bottiglia di vino in un bicchiere, ridacchi pensando al presente che non c’è, all’assenza di tempo come unica possibilità del vivere, e ai tuoi anelli da infilare uno sopra l’altro: ogni anello è una storia ogni anello è a sé.
Non ci sono legami, è questo il tuo insegnamento; non ci sono frammenti, non ci sono simboli da ricomporre. Ognuno porta con sé un pezzo, ma è un pezzo unico. Siamo unici in questo senso, non è vero mamma? Il simbolo non ci appartiene, il simbolo non è nel nostro destino, tanto più che il destino non esiste, e se esiste non parla, e se parla non cambia, dunque il destino non è affar tuo, non è affar nostro.
È questo il tuo svelamento; e intanto il vino gira nel bicchiere e lo bagna quasi fino all’orlo, e quasi lo tange, quasi.
La vita per te è tutta in quel bicchiere, la vita per te è quel movimento circolare dentro il bicchiere, è quel liquido che sale ma non trabocca né tange l’orlo. È quel liquido che ruota su di sé, fino a ubriacarsi di sé. Come sei preziosa, mamma, e come lo sono i tuoi insegnamenti, e come lo è la spontanea crudezza del tuo vivere: la carne è carne, il marmo è marmo.
E se avessi ragione tu, mamma? E se fosse tutto un gioco, quello dei segni degli indizi, quello dell’invisibile connettersi di aliti animati e intelligenze smaterializzate?
Se fosse solo materia, materia che ruota, materia attratta e respinta, se fosse solo questione di magneti e polarità, se fossimo tutti anelli impilati, se avessimo semplicemente ognuno la propria orbita su cui scivolare in eterno, ovvero fino alla morte?
Perché di sicuro la morte c’è, e la morte spariglia gli indizi della vita, e la morte la capisci solo tu, mamma.
Due figli partono ma uno non torna. Se potessi scegliere, mamma, vorrei essere io, quella che non torna; se potessi vedere, vorrei vedere me, mamma. Vorrei, ma non leggo bene i segni, oggi i segni sono così confusi, e ridono, e sghignazzano, e si ammucchiano come carte la cui faccia cambia sempre. Oggi i segni sono mostri, mamma.
Vorrei metterli a tacere per ricomporre la scena, vorrei annodarli l’uno all’altro, e compierne l’incastro e svelarne la lettura. Ma oggi, mamma, i segni sono mostri, e ridono, e mostrano i denti.
Due figli partono, ed io non so se torno.
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