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Peli

Post n°195 pubblicato il 17 Settembre 2008 da le_corps

Adoro i tuoi peli, sono morbidi e folti, sono nuvola sono ovatta: li vorrei sulla mia fica, al posto dei peli della mia fica, che sono ispidi duri pungenti. Come rovi. Spine cresciute dopo troppo tagliare.
Tagliare tagliare sempre tagliare, perché la fica deve essere pulita e nuda, rosa ed esposta. La fica deve essere messa in bella mostra: un osso sporgente ricoperto di carne, carne senza peli e senza pelle, un osso proteso che punta in avanti e attiva l’impulso, e allora  il corpo parte di scatto e si lascia guidare, dalla sua fica naso-di-cane: spoglia e umida, senza neanche un pelo, gocciante e dilatata, per annusare meglio.
Loro la volevano così: grattata, quasi erosa: carne viva e inerme; loro volevano vedere il pezzo di carne, con tutte le sue grinze e le rughe, e i pori come grumi e i bulbi svuotati e le difese atrofizzate: un pezzo di carne da guardare dall’alto in basso: una fica da tenere in pugno con lo sguardo, una fica che è carne, nient’altro; carne che respira, con un respiro così debole e discreto da non disturbare: il pugno che la tiene; da non disturbare: l’occhio che ammira, gravido di sé, quel pezzo di carne spellata e sgrassata, deposta sul tagliere e fatta a brani, brani con poco respiro, crudi e sanguinolenti quanto basta. Ad eccitare l’occhio. Che guarda sicuro, dall’alto in basso, tutta quella carne pulita, per lui, e offerta, a lui, quella carne gocciante e viscida spaccata in due e disposta sull’osso che sporge, tra due gambe spalancate, quella carne rosa e viva con qualche rivo di sangue che la riscalda, prima di rapprendersi prima di diventare crosta.
Ogni pelo va tolto: tagliato estirpato; bruciato, se necessario, perché la carne va pulita e vista bene, prima di essere battuta e mangiata. Ed io tagliavo estirpavo: bruciavo, se necessario; e me ne andavo in giro con questo pezzo di carne tra le gambe, con questo pezzo di carne che mugolava e sospirava come se ragionasse tra sé e sé di qualcosa, ma lo faceva a bocca chiusa per non essere sentito perché era tutto un ragionare privato, un ragionare fine a se stesso, che non produceva nemmeno un lamento ché qualcuno avrebbe potuto sentirlo ché qualcuno avrebbe potuto scoprirlo, mentre se ne stava senza piume e senza pelle a scaldarsi col suo sangue, a ripararsi tra le gambe, nel riserbo delle gambe, che custodivano la sua carne viva e rosa finché potevano finché non dovevano allargarsi e fermarsi, nella giusta posizione, nella posizione del vedere, altrui, finché non dovevano aprirsi ed offrirlo, il loro pezzo di carne custodito, il loro pezzo di carne senza un pelo. Senza respiro.
È per questo che adoro i tuoi peli, che sono sempre stati lì: mai tagliati mai estirpati mai rimossi, ed anche la tua pelle è sempre stata lì, con i bulbi intatti e la superficie liscia e tenera, ricoperta da morbidi peli, peli morbidi e soffici come nuvola, una nuvola che leviga la pelle e ripara la carne, una nuvola che profuma di cielo. Una nuvola che custodisce il luogo della tenerezza della tenerezza immaginata. Quel luogo che sotto i peli sta.
Ma i miei peli adesso sono  rovo, un rovo inchiodato alla carne, che sanguina in silenzio, e il sangue rappreso diventa spina e la spina chiodo, e i chiodi affondano nella carne e la ricoprono, ma non la riparano, e la difendono, ma non la guariscono, perché i chiodi sono rovi: rovi, non nuvola.

 
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le_corps
le_corps il 17/09/08 alle 11:56 via WEB
Conobbi la mia fica in un giorno di pioggia: un pulcino tremante, con le piume fradice e le zampette piegate. Stava ferma su uno scalino, e guardava fisso davanti a sé, anzi: non guardava da nessuna parte, aveva lo sguardo annichilito. Conobbi, anzi no, riconobbi la mia fica in un giorno di pioggia. C’era qualcosa nel suo ripararsi e ritrarsi che me la rendeva familiare, c’era qualcosa in tutto quel patire, il freddo e la pioggia, che me la rendeva vicina. Mi avvicinai a lei con passi morbidi, per non spaventarla, e lentamente mi sedetti su quel gradino. Restammo a lungo in silenzio mentre la pioggia scrosciava, restammo a goderci i suoni e i rumori che la pioggia ovattava: era tutto un sentire sfumato e dilatato; era tutto uno stare sul bordo di un gradino, a respirare e sentire, a cercare l’unisono al di qua della pioggia, che pure non smetteva e ci proteggeva: uno schermo di pioggia tutto per noi, e noi tacevamo. Eppure il freddo si stemperava e le piume tornavano ad arricciarsi: l’acqua che ci impregnava evaporava, e con essa le nostre paure e ansie, e con essa la nostra estraneità: vicine molto vicine così vicine da sentire gli stessi rumori attutiti, sentire: solo quello, non avevamo bisogno di parole né di guardarci né di stringerci. Era tutto familiare era tutto aderente, e così inevitabile. Che ci incontrassimo, e ci conoscessimo, anzi no: ci riconoscessimo, sotto quel rovescio, quella intemperie benedetta, sedute su quello scalino.
 
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