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She's dancing

Post n°196 pubblicato il 20 Settembre 2008 da le_corps

Ho ballato da sola al centro della stanza, ho ballato allargando le braccia, ad occhi chiusi la testa fluttuante; ho ballato da sola a luci spente ho ballato fino a restare senza fiato, con la testa che mi girava e gli occhi che si smontavano. Ho ballato finché la musica andava finché il mio corpo s’alzava, e s’alzava, ed io potevo sentirlo e sentivo l’aria sentivo ogni singola particella che m’attraversava; ho ballato senza confini, ho ballato al centro della stanza, ho ballato che ero aria.
Lui se n’è andato, era ora. Un matrimonio sbagliato, e questo è tutto. L’amore non c’entrava, era stato convocato a sproposito in un equivoco d’amore. Stare insieme sembrava naturale, sembrava inevitabile come è inevitabile una sciagura naturale, una furia che travolge all’improvviso, un disastro che s’abbatte senza avvisare perché s’era assopito: dormiva. Anch’io dormivo, dormivo su un tappeto sbattuto per bene tre volte alla settimana, dormivo su un pavimento lucidato dormivo su superfici sterilizzate: il nostro era un amore pulito, igienico. Senza polvere senza aloni senza briciole nel letto.
Lenzuola croccanti e tese, e poi sacchetti di lavanda disseminati nei cassetti: maglie camicie e calzini imbottiti di lavanda, che poi la lavanda era la sua fragranza preferita, che poi quando tutto sa di lavanda è come se non avesse odore. Ma questo non potevo capirlo, allora; allora mi sembrava tutto univoco, non discutibile: il possibile era uno e si era già realizzato, non c’era altro da considerare: le alternative erano state rimosse o forse non avevano mai germogliato, be’ certo, in mezzo a tutta quella lavanda!
Ma era tutto così pulito e ordinato, con gli spigoli che brillavano, e le tazze disposte in ordine crescente e gli orli lisci e i manici levigati; ma era tutto così sistemato e soppesato, misurato e incastrato, era tutto così: un amore a fil di piombo, non potevi sbagliare.
E allora perché lui mi chiamava cicciona?
Ero una cicciona, dunque? Sì, evidentemente lo ero: se lui mi chiamava cicciona, ero indiscutibilmente una cicciona: significato univoco. Ma nella sua voce e nell’espressione del suo volto non c’era disprezzo no, c’era più che altro un senso di quieta superiorità, di rassegnazione alla mia inferiorità, inferiorità insita nella mia informità.
Perché le ciccione non sono pulite precise ordinate, e non hanno profumi, tanto meno di lavanda: le ciccione sono informi pure nell’odore; e non hanno spigoli da far brillare o piatte superfici da lucidare, e poi sudano, sudano dappertutto, anche sui tappeti e allora bisogna lavare i tappeti tre volte al giorno, e allora bisogna insaponare i pavimenti togliendo via il grasso tra mattonella e mattonella perché tutto sia bianco e deterso, perché tutto sia calpestabile in sicurezza: dove lui metteva piede non dovevano albergare germi: per lui il pavimento era un luogo pulito, più pulito di sua moglie.
Che poi la moglie ero io, sì, proprio io: la cicciona, quella sporca, quella che disturbava le linee rigorose dell’arredamento, quella disarmonica con tutti i mobili: del salotto del bagno e della camera da letto; disturbavo ogni ambiente con la mia presenza informe, con la mia presenza informe disturbavo la sua vista: macchiavo la superficie bianca della sua visione, e in più alteravo le forme nette e definite del tavolo dei comodini delle sedie, anche le piante avevano una forma più definita della mia!
Io ero priva di forma, ed ero buona per grattar via lo sporco dalle mattonelle per lucidare i rubinetti e lavare tappeti. Ero buona per rimediare ai miei errori, per far dimenticare la mia natura cicciona, la mia non conformità di cicciona, il mio debordare e insozzare.
Io ce la mettevo tutta per rimediare, ma per lui restavo sempre una cicciona.
Una cicciona in tutto e per tutto. Avevo tutto della cicciona, tutto tranne la bocca. Credo che lui considerasse la mia bocca un luogo sterile e sicuro al pari del pavimento, visto che con fiducia vi introduceva il suo pene, e lì lo lasciava permanere tra le 22 e le 22.30 di ogni sera.
Appoggiava la mano sinistra sulla mia testa, ed io sentivo la mia morbida capigliatura schiacciarsi, con tutti quei morbidi ricci biondi che perdevano forma, diventando anch’essi ciccioni. La sua mano aveva questo potere, la sua bocca il suo sguardo avevano questo potere: rendevano cicciona ogni cosa su cui si posavano. (Dunque anche me, ma questo lo capii solo dopo). Quando la luce si spegneva ed io mi ritrovavo carponi al suo fianco non ragionavo su di noi come coppia non ragionavo sulle implicazioni delle sue parole dei suoi rimproveri dei suoi silenzi, non ragionavo sulle eventualità dell’esistenza sulle circostanze impensate sulle improvvise virate, quando la luce si spegneva e la sua mano sinistra calava sulla mia testa non c’erano possibilità, c’era solo la realtà, l’univoca realtà della nostra storia impregnata di lavanda, del suo cazzo sbattuto sul mio palato e del mio essere cicciona.
La luce si spegneva. Lui se ne stava ad occhi chiusi, io invece li tenevo aperti, cercando di penetrare l’oscurità dell’aria mentre lui penetrava in tutta sicurezza le profondità delle mie mucose.
La luce si spegneva, e quando si riaccendeva era tutto uguale, invariato, era tutto pulito e ordinato. Il suo pene s’era sgonfiato e lui subito l’aveva ricacciato sotto la cinta sigillandolo dietro i bottoni dei pantaloni; i miei capelli invece erano tornati a gonfiarsi, lasciati liberi da quella mano tenace nell’oppressione impositiva nel ritmo: dopo tutto una cicciona che ne sa di musica e armonia, di accelerazioni e decelerazioni, dopo tutto una cicciona che ne sa di sospensioni e affondi: una cicciona può solo pulire, e ripulire tutto, alla fine, perché tutto torni uguale, perché tutto resti invariato: pulito e ordinato.

***

Così S. ha comprato uno specchio, a figura intera dalla forma oblunga. L’ha scartato e lucidato, e l’ha posto al centro della stanza.
S. ora è davanti allo specchio, e si spoglia di tutto con circospezione: non guarda dritto, ma sbircia, sbircia e arrossisce, non riesce a capire. A capire cosa ci fa davanti allo specchio, a quello specchio a figura intera dalla forma oblunga. Reclinabile e fedele, stava scritto sull’imballo: per questo l’ha comprato.
Ha pensato: questo specchio dirà sempre la verità, comunque lo sposti, comunque lo inclini, indietro o avanti.
S. aveva bisogno di recuperare il rimosso: verità e fedeltà. Si trattava di un rimosso notevole di un rimosso che aveva lasciato una voragine, una voragine che lei aveva tentato di coprire con un tappeto, un tappeto!, un tappeto da sbattere tre volte a settimana un tappeto senza germi, igienico, su cui poter vivere un’intera esistenza.
Ora S. è davanti allo specchio, e si guarda. Non sbircia più, ma guarda dritto, dritto davanti a sé. Davanti a sé c’è una donna, la vede sì, e la riconosce come donna, sì è senz’altro una donna, ma ha bisogno di osservarla bene, nell’insieme e nel dettaglio, ha bisogno di seguire le linee, gli avallamenti e le sporgenze, di distinguere i colori e la consistenza del suo essere: dentro-fuori, è  necessario che lei faccia questo movimento: dentro-fuori. Davanti a lei c’è una donna, e lei non può permettersi di tralasciare nulla.
A partire dalle ciglia. È una donna con ciglia lunghe e chiare che racchiudono un colore, un colore sul quale è necessario soffermarsi e separarne le venature, è un colore frastagliato, è un colore multiluce.
Nemmeno i colori sono univoci – le sembra di mormorare, ma non è un mormorio, è un boato, una deflagrazione che fa tremare polsi e mandibola che fa chiudere le ciglia per lo spavento: un ginocchio si abbandona molle, l’altro resiste, anche lei resiste: le ciglia si riaprono, lo sguardo è fermo, dritto davanti a sé, e vede, vede una donna e la sua potenza. Dentro-fuori è un movimento spietato, quando il dentro è quel dentro, denso e plurivoco, e il fuori è quel fuori, una donna dai riccioli biondi e aerei, con un colore frastagliato negli occhi e una domanda negli occhi, una domanda così prepotente da cacciarle un urlo.
Un urlo che le inarca la schiena e le rovescia la testa all’indietro: il mento punta al cielo, e per prenderselo sfonda il soffitto.
Sì, sono io, e sono qui.
L’urlo ha parole che solo lei può udire.
L’urlo s’è fatto parola; e la parola, azione.
Lo sguardo è fisso davanti a sé: puntella sonda scava. Il petto, scosso, sussulta ancora: è l’urlo che si riposa, che riposa nel suo petto. Lei lo sente e lo vede mentre respira assieme ai suoi seni, mentre s’alza e si abbassa al ritmo dei suoi seni. Ha dei seni meravigliosi – riesce a vederli, e questo pensiero si tramuta in fitta, una fitta di coscienza bruciante e improvvisa che le dischiude la fica; gliela allarga fino a spaccarla, fino a scioglierla in un pianto, un pianto di singulti, un pianto scomposto. Che lei non asciugherà.
Glielo chiede il suo culo e glielo chiedono le sue mani: non asciugarlo, lascia che ti inondi lascia che ti sommerga: non asciugare non rimediare non pulire. Anche i suoi capezzoli glielo chiedono: sono così protesi e duri da farle male. Ma non abbastanza. Allora con due dita li preme, li gira e inizia a tirare, e tira fino a farli diventare gonfi e duri, sempre più duri, ed espansi; allora preme e tira con più forza, sempre più, fino ad aprirli, fino a farli sbocciare.

S. ha ballato da sola al centro della stanza, con gli occhi chiusi la testa fluttuante, ha ballato dentro e fuori dal suo corpo, ha ballato nel disordine dei suoi umori, nella densità del suo essere molteplice, del suo essere immensa e magnifica. S. ha ballato sui suoi passi.
Ora sì, ora lo so. Sono io, e sono qui.

 
 
 
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