Creato da le_corps il 27/02/2007

punto sul rosso

il teatro il delirio l'oblio

 

 

L'amour

Post n°225 pubblicato il 20 Dicembre 2009 da le_corps

Avevo speso euro 27 di carne speziata locale. Il cartoccio, caldo caldo, lo tenevo tra le mani mentre lui guidava con ai piedi ciabatte di gomma nera. Era estate, fine pomeriggio. Lui era in costume da bagno, un costume a mezza coscia, con una polo rosa-sbiadito sopra. Aveva guidato per cento chilometri in ciabatte e con un costume umidiccio addosso solo per venirmi a prendere e portarmi da lui, o meglio, a cena da una coppia di amici suoi, nella sua città e nella loro villa.
Era venuto a prendermi, avremmo cenato, e poi mi avrebbe riaccompagnata a casa.
Aveva guidato per cento chilometri e poi ne avrebbe fatti altri cento e poi cento ancora, solo per portarmi ad una cena. Ci teneva.
Aveva guidato in ciabatte col finestrino abbassato e la sigaretta appesa al labbro, aveva guidato col culo ancora bagnato perché non poteva aspettare, perché doveva arrivare il prima possibile, e abbagliarmi col suo sorriso.
Ero salita in macchina euforica, ma senza costume: lui mise il broncio perché nella villa c’era la piscina e avremmo potuto fare il bagno insieme (lui era stato in ammollo tutto il pomeriggio!).
Ma già scorgevo l’imbrunire, e c’erano cento chilometri da fare, e due persone nuove da incontrare (il suo migliore amico - il suo amico fraterno! - e la moglie) e non volevo mettermi in mutande già dalla prima volta.
Ma sì, ci saranno altre occasioni, e poi la villa è a loro disposizione tutto il mese, vedrai, è una villa immensa, con la piscina e il parco, vedrai, è proprio un villone, roba da ricchi – disse per dimenticare il broncio. Il broncio non gli si addiceva; il sorriso sì. Sorrideva in ogni circostanza, ed io ero così innamorata da ammirare estasiata la sua capacità di sorridere in ogni circostanza, nessuna esclusa, e per motivi diversi, se non opposti. Lui sorrideva sempre, e al sorriso abbinava quasi sempre una risata risatina o esplosione di riso. Ed io lo guardavo rapita, innamorata della sua giovialità.
Ero salita in macchina a mani vuote. Pensai che stavo andando ad una cena a mani vuote: gli feci notare il mio cruccio, e lui, pronto, mi suggerì il rimedio.
Avevamo appena lasciato la costa e imboccato la strada di ingresso al paese quando svoltò in accelerazione a sinistra cavalcò un marciapiede con le ruote anteriori e lì si piantò.
Macelleria Scannati dal 1922.
Sulla porta c’era una viavai di gente, le fettuccine di plastica della tendina di ingresso svolazzavano in avanti e indietro: entrava e usciva gente soddisfatta, con la sporta carica di manzi agnelli e vitelloni, di rognoni polli e fegatini, zampe di porco e teste di gallo. E, naturalmente, carne speziata locale, calda e piccante, morbida e croccante.
Mi sembrò un ottimo rimedio, per me per la cena e soprattutto per lui. Al solo pensiero di poter addentare quella buonissima carne speziata andava in sollucheri tanto che gli ultimi chilometri li aveva fatti in stato ipnotico, con le pupille dilatate e fisse, la bocca dischiusa e un fil di bava che si allungava sul colletto della polo rosa-sbiadito.
Pagai e uscii col mio cartoccio caldo tra le mani, contenta.
Quanto? - mi chiese lui.
Non preoccuparti, è solo argent! - cinguettai io.
Lui mi sorrise, indulgente.
Volevo dire quanti chili – precisò.
Ma non importava! Sganciò il freno a mano, e subito sgommò.
Ero innamorata di lui, il suo appetito mi commuoveva, dargli da mangiare mi inorgogliva.
Inoltre stavo per conoscere il suo migliore amico, il suo punto di riferimento professionale e affettivo, la sua memoria storica!
Il sole s’appressava alle montagne, il cielo era metà blu metà rosa con al centro un filo rosso di fuoco. Ed io ero tanto innamorata.
I
l vialetto ghiaioso ci portò ad una villa di solida geometria; da fuori:una composizione di cubiche volumetrie, moduli a incastro, linee rette e spigolosità; entrando: uno spazio disarticolato, su più livelli, un cromatismo bianco nero esasperato, e una cucina ahimè scomoda e disfunzionale. E corridoi inutili e vetrate scorrevoli ovunque. E poi bagni vetusti e arredamento consunto, e una patina di fasto e di gusto, ormai passati, a ricoprire il tutto.
Il vialetto ci aveva condotti ad una fatiscente villa anni Settanta, ma ero tanto innamorata, e pensai: una villa demodée! 
C’era la piscina, e tutt’intorno un giardino inselvatichito.
Depositai il mio cartoccio fumante e piccante su una superficie bianco laccata, e sorrisi.

L. stava affettando dei peperoni, mi proposi di aiutarla.
G., il marito, l’amico fraterno!, parlava al cellulare e mi fece un cenno di saluto con la mano tolta dalla tasca dei bermuda.
Il mio amato in mutande sgattaiolò dalla cucina attraverso una vetrata scorrevole, calpestò l’erba fino alla piscina, lanciò le ciabatte in aria e si lanciò, polo compresa.
Il sole s’era portato il filo rosso dietro le montagne. L’aria sapeva di fresco, l’acqua anche. Ed io affettavo peperoni sotto una luce bianca.
Dopo il tonfo, gli spruzzi e qualche bracciata, il mio amato riemerse sull’erba, tutto fradicio e tremante. Un pulcino intirizzito che tutto si stringeva a sé per placare i brividi. E mentre li placava, sorrideva, mi sorrideva, ed io lo guardavo, al di qua della vetrata scorrevole col coltello sul tagliere, e pensai: che cogl… che tipo naif, il mio amore!
Ero tanto innamorata.
Lo vidi correre in una stanza, gocciante e ciabattante.
Quando tornò, aveva indosso una polo asciutta color prugna e un costume anch’esso asciutto, ma asciutto prima del lavaggio perché un rigo di salsedine lo attraversava a metà.
Quando tornò, io affettavo ancora peperoni; lui mi strappò d’impeto al tagliere e tutto emozionato bisbigliò: facciamo un giro in giardino?
L. ci vide uscire senza protestare, prese il coltello e continuò ad affettare.
Il giardino era un lembo di terra brulla con qualche cespuglio verde spelacchiato ma resistente, e ciottoli sparsi; il lembo di terra brulla girava intorno alla villa, e lui ci teneva a farmi fare un giro intorno alla villa.
Fa freschino, disse lui sorridendo, meno male che avevo il costume del mare! – e calciò una pigna secolare. Poi si fermò, mugugnò qualcosa, e mi spinse contro il muro. Il muro mi raschiava le braccia ma non dissi nulla, accecata dal biancore dei suoi denti: mi mostrava la chiostra per compiacimento e soddisfazione, lo faceva sempre, ogni volta che, lo aveva fatto anche la prima volta ora che ricordo bene. Allora abbassai lo sguardo, e la vidi: la capoccia rosata del suo cazzo brunito faceva capolino dall’elastico del costume del mare: era sgusciata fuori e se ne stava ritta e gonfia per farsi ammirare in tutto il suo turgore, e un po’si dondolava per farsi meglio guardare bramare e acchiappare.
Sussurrai che non stava bene; protestai che non era il momento. Ma non era vero.
Difatti lui non capiva. Difatti lui non sentiva.
C’è del marcio, in questo posto, pensai.
Dalla mutanda del costume del mare esalarono prima odori marini: alghe putrefatte ammassate sulla battigia, pesci decomposti sulla riva; poi odori di mercato: il risciacquo di bancali e bilance a fine giornata, gli ingorghi di viscere nei canali di deflusso; quindi odori di pesce scongelato e ricongelato, di pesce irrimediabilmente scaduto, pesci senz’occhi che neanche l’ammoniaca avrebbe potuto salvare.
Pensai al tagliere abbandonato in cucina, a tutti i peperoni ancora da tagliare …
Mi feci guidare dal ricordo del loro afrore e abbandonai il retro della villa.
La capoccia rosata e semovente si appese all’elastico del costume del mare come delusa dal mancato riconoscimento: mise il broncio, ma solo per poco, pensando alle innumerevoli occasioni che il viaggio di ritorno le avrebbe riservato.
Sulla bocca di lui si mise un ghigno da anguilla astuta – il lucore di un godimento solo rinviato - e la capoccia del suo cazzo brunito tornò a rannicchiarsi nelle mutande del mare, al calduccio tra alghe putrescenti e pescetti avariati.
Nel tratto di giardino che mi conduceva alla cucina pensai – semplicemente – bidet!
Dopo tutto ero tanto innamorata, e il francese, si sa, è la lingua dell’amore.

 

 
 
 

Quattro dita nel naso

Post n°224 pubblicato il 01 Dicembre 2009 da le_corps

La bimba è stata messa in punizione, la bimba l’hanno chiusa sul balcone. L’hanno nascosta nel pozzo, nel secchio del pozzo; c’era una fune attaccata al secchio, una fune per scendere nel pozzo, ma qualcuno l’ha presa e se l’è messa in tasca: qualcuno se l’è presa, e ha portato via la fune.
La bimba è giù nel pozzo, la bimba è su sul balcone, messa in punizione senza una ragione.
La bimba ha gli occhi chiusi. Ha gli occhi chiusi e muove il naso: il naso non dà vertigine, il naso sente l’aria ma non vede l’alto e non vede il basso. Tutto quell’alto e tutto quel basso potrebbero spaventare, la bimba messa in punizione.
La bimba ha gli occhi chiusi e muove il naso, muove il naso e tiene le mani in grembo: è il posto più caldo il posto più sicuro che ha, il grembo; e con le mani si accarezza le mani tenendole strette, al caldo, al caldo del grembo.

 La bimba è sola. È sola e muove il naso in cerca di compagnia, di un odore di quando era bimba, bimba prima della punizione. Chiusa fuori e chiusa dentro senza una ragione. Ma la bimba fa la bimba, e si fida, e non chiede spiegazione. Non urla non piange, non si lamenta dal secchio giù nel pozzo né dall’angolo su sul balcone.

Aspetta. E nell’attesa tiene gli occhi chiusi perché sa che gli occhi ingannano, che si prenderebbero gioco di lei: le farebbero credere ciò che non è, le farebbero credere che ciò che lei vede è ciò che è. Così, le farebbero credere che potrebbe cadere che potrebbe non risalire, le farebbero credere che è senza scampo, nella trappola di un pericolo ineludibile; le farebbero vedere che è piccola con le sue mani piccole, che è sporca con i suoi piedi scalzi e ferita con le sua gambe tagliate: le farebbero credere che quello che vede è quello che è. Gli occhi sono ingannatori.

Allora lei li spegne, e annusa.
La bimba è sola col suo naso, in compagnia degli odori del suo naso: l’odore avvolgente del rosmarino e quello penetrante del legno marcio. Le sue narici si dilatano per catturare effluvi, tutti gli effluvi del pozzo e del balcone, e poi altri, più lontani, per catturare tutti gli effluvi del mondo, e tutti i ricordi passati tutti i ricordi futuri; le narici si aprono si tendono ma non riescono ad accoglierli tutti; allora lei stacca le sue piccole mani dal caldo del grembo e comincia a catturare effluvi con le mani: il naso indica le mani fermano, e con le dita inizia a filare fili di odori e con le dita e con i denti ad intrecciarli, li avviluppa gli uni agli altri, e sono tanti e sono lunghissimi.
Le sue piccole mani filano una treccia lunghissima che risale il pozzo. È una treccia resistente. La carrucola inizia a cigolare, il secchio barcolla, cif ciaf fa l’acqua del pozzo e saluta il secchio, che sale, sale su.
Le sue piccole mani filano una treccia morbidissima che arriva fino a terra. È una treccia persistente. Il vento inizia a sibilare, sibila una canzone di prima della punizione, e lei ride e ad occhi chiusi scivola, ma non vede il basso, e non vede l’alto.
Lei non vede: sente.
Sente l’odore della risalita e della discesa, sente l’odore di uno spazio aperto dove correre e cadere, dove cantare e tacere. Un odore che è impossibile a dirsi, un odore nuovo, insperato: l’odore di tutti gli odori del mondo.
Quello che non vedi è tutto quello che c’è da odorare – si disse la bimba, senza chiedersi se avesse un senso, un’altezza o una profondità. Se lo disse ad occhi chiusi, lei che era in punizione senza una ragione.

 



 

 
 
 

Quattro fuochi

Post n°223 pubblicato il 20 Ottobre 2009 da le_corps

Quattro fornelli accesi e nessuna pentola a scaldarsi. Quattro ghiere di fuoco o quattro girasoli, quattro luci. La sera è buia, il freddo è attaccato alle pareti, il pavimento è una lastra ghiacciata, le finestre si stringono a sé, le gambe delle sedie sono intirizzite, e i miei piedi pesanti come sassi. Sul tavolo vedo un piatto e un cucchiaio usati: sporco da incrostazione e odore di pasto lontano.
Il vicino mi ha offerto una stufa. Ha bussato alla porta, il campanello è senza suoneria: l’ho smontata.
Ha bussato alla porta senza accanimento, ha sussurrato il mio nome, quello inciso sulla porta: non è il mio.
Ho sentito che scaricava qualcosa in modo maldestro, qualcosa davanti alla mia porta senza zerbino: lo zerbino è all’interno. Qualcosa ha toccato il pavimento con un urto imprevisto, ho sentito il vicino che si schiariva la gola quasi a scusarsi che qualcosa gli era sfuggito di mano.
Doveva sentirsi davvero mortificato tanto che ha sceso le scale con cautela estrema, perché io non udissi un solo passo dei suoi. Non ho sentito la sua porta di casa chiudersi e, a dire il vero, nemmeno aprirsi.
Che fosse rimasto sul pianerottolo davanti alla mia porta l’ho escluso da subito. Conosco troppo bene il mio vicino, e questa è la mia unica certezza. A parte il freddo, certo.
L’unico rumore che sento è il frusciare delle fiamme: il mio respiro non disturba, buon segno. Nessun affanno, nessuna eccitazione. Il corpo è autosufficiente nell’ossigenarsi, tanto basta.
Porto una mano al naso: ghiacciato, ma per fortuna non cola.
Il naso che cola è proprio da mocciosa, da pianto immotivato, da fragilità strutturale. Da mancanza incolmabile. Il naso che cola può essere anche perfettamente asciutto: il carattere non dipende da un fazzoletto. Devo ricordarmi di dirlo a mia madre; devo ricordarmi anche di dirle un’altra cosa ma non ricordo cosa. I pensieri sono difficoltosi, sono come corde che sfuggono tra le mani, anzi no, come acqua e farina che chissà perché hanno deciso di respingersi, di non amalgamarsi. Il pensiero è un amalgama, e bisogna pensare perché i dolci riescano, perché le parole si leghino e le immagini si formino. Le mie immagini a volte sono come scarpe. Le scarpe, si sa, vanno a paia. Diciamo che riesco a trovare il paio giusto, scarpa con scarpa, ma poi manca il laccio; e, se c’è, o è troppo corto o basta per una sola scarpa, e quando io lo divido in due per darne un po’ all’una e un po’all’altra, ecco che è di nuovo troppo corto.
Se mi mettessi ad impastare ora, certo mi riscalderei, ma riuscirei solo ad aggrumare, cioè a dividere. Non riuscirei nemmeno ad accostare, a sovrapporre, a circondare, no, riuscirei solo a slegare, o ad aggrumare.
Una mia amica mi consigliava di sciogliere i grumi nel frullatore: funziona, diceva. Ma forse lei pensava a quei grumi accidentali, che si formano incautamente per troppo amore, per troppa cura o per troppa felicità. Quelli, sì, ci credo, ma se ora io mi mettessi a impastare a miscelare, a creare, farei dei grumi tanto grossi e grumosi da frustrare la frusta di qualunque frullatore.
Non ricordo a che ora il mio vicino ha bussato, cerco di fare uno sforzo, ma proprio non ricordo.
Di certo ha bussato, e poi c’è stato quel rumore metallico, di stufa. No, non sono una veggente, è bastato che mi chinassi a terra e infilassi gli occhi sotto la porta per vedere il cavo e la spina. Di una stufa, sì, di quelle piccole ma confortevoli. Una stufa elettrica, con presa tedesca e riduttore: il mio vicino è una persona previdente. È anche una persona di poche parole, ma prodiga di vagiti e sibili; qualche volta lo sento addirittura miagolare: no, non ha un gatto – che banalità!; qualche volta nitrisce pure, quindi? Un cavallo in soggiorno? No, è lui che diventa animale. E non lo fa solo con il suono della voce. Il suo verso è così pulito così vero che di sicuro lo accompagna con tutto il corpo: oltre al verso è capace anche del passo, ne sono sicura.
Il mio vicino è il mio unico dispensatore di sicurezze, di questi tempi. Con tutto il freddo che c’è, e questa nebbiolina.
Accendo i fuochi anche per quella, la nebbia; li accendo per diradarla, per aprire un varco nel suo ventre compatto, ma non sembra che funzioni. Ho la nebbia in casa, e non so perché. Non è il come ad essere importante ma il perché. No, non sono la stessa cosa. Il come è fisico, il perché è metafisico. E ancora non ricordo cos’altro dovevo ricordarmi di dire a mia madre, quando l’avessi sentita. Non ricordo nemmeno l’ultima volta che l’ho sentita, di sicuro prima della visita del vicino, ma di preciso non so. Non riesco a pensare molto, in questo periodo, ma dopo tutto quando si ha il problema della nebbia in casa come si fa? In questi casi la cosa migliore è aspettare. Che la nebbia sparisca, da sola. E quando si aspettano eventi di questo tipo, pensare non serve, pensare rovinerebbe l’attesa.
Essere autosufficienti nell’ossigenarsi: ecco la sola cosa di cui sincerarsi.

 
 
 

Focolai

Post n°222 pubblicato il 16 Settembre 2009 da le_corps

Una mano di uomo sul mio fianco destro: ecco di cosa avrei bisogno. Una mano che non ha fretta, che sa quanto premere, una mano che sa essere larga e sicura come un abbraccio intero. Una mano che lenisca questo dolore che non va via. Una notte accartocciata sul divano può andare, tre di fila no. Ho il fianco dolente, ma probabilmente è solo l’epicentro di un dolore che sta altrove. Il nostro corpo è tutto un gioco di riflessi, la nostra vita anche. Un gioco che giochiamo senza incorrere in domande scomode, domande tipo da dove parte il dolore? oppure quello che ho detto era veramente quello che volevo dire?
Ciò che è vero si confonde, ormai, ciò che è vero è ricacciato nel profondo del sogno o dell’incubo, e usiamo la parola vero per ammantare di sincerità, anzi, di autenticità ciò che facciamo: la usiamo per spostare e giustificare. Ormai siamo ciò che diciamo di essere, e le parole ci sono complici nel preparare e ammannire a noi stessi e agli altri una definizione di sé, purché sia. Con le parole imbastiamo discorsi: discorsi bastardi, nati contraffatti da una madre che dice una cosa al posto di un’altra: per abitudine per difesa per radicamento nella sfiducia. Una madre snaturata come tante: un dispositivo del rimpiazzo, e dell’evitamento a fin di bene. Una madre che non si accorge che qualcun altro sta vivendo al posto suo, il che andrebbe pure bene, solo se ammettesse a se stessa di essere proprio qualcun altro, solo se il suo corpo non si ammalasse tanto stupidamente, solo se…
Ma non volevo dir questo. Volevo parlare del mio bisogno, di quella mano di uomo larga e sicura, fatta per il mio fianco, fatta per allontanare il dolore di queste tre notti. Il divano è un posto piccolo anche per il mio piccolo corpo.
Il divano è un posto scomodo eppure così comodamente consolatorio.
Il divano è il luogo del prolasso di ogni contenimento, un luogo privato, di libera minzione.
Lì, sul divano, ti proteggi con poco e ti basta poco per sentirti al mondo e non subirne il peso, perché senti che niente ha peso, niente di quello che hai fatto prima di quel momento, prima di rannicchiarti su quel divano, sola ma forte, forte di una lucida disperazione, così lucida e così utile alla vista: la prima notte.
La prima notte siamo delle indomite su quel divano: niente ci può sopraffare, né il freddo né il dolore; il dolore fisico ci ricorda il dolore del cuore, e viceversa, ma entrambi li sopportiamo: la prima notte.
La prima notte siamo indomite e guerriere con i pugni serrati e sferrati nel vuoto come se il vuoto non fosse vuoto, come se la solitudine lo riempisse.
Ma alla terza notte, la forza della solitudine lascia il posto alla desolazione, la desolazione dell’ennesima fuga: quando la realtà rischia di sovrastarti, scappi, ti rintani su un divano che diventa il tuo fortino, il confine entro il quale inscrivere un corpo e una volontà, qualunque essa sia, un confine proprio, individuale e pertinente, che giri attorno ad un regno, dove basta una corona di propositi futuri e di prove passate per dirsi regnanti. Un regno in cui Tu giochi tutte le parti: un regno che non funziona.
Alla terza notte, il tuo corpo è un ammasso di macerie rovinate sul cadavere del tuo spirito: un disastro in cui il cuore è disperso, per cautela: quando non si trova è ufficialmente disperso.
E al risveglio ti chiedi: dov’è quella mano di uomo larga? O di donna larga? Dov’è quella mano, anche non sicura e non ferma, ma incerta e tremante, che preme troppo piano per paura di far male o troppo forte nel timore di non alleviare?
Dopo la terza notte passata sul divano, ho il fianco destro dolente per riflesso, un regno disfatto e un telegramma al posto del cuore.

 
 
 

Démarrer

Post n°221 pubblicato il 15 Agosto 2009 da le_corps

Oggi i tram viaggiano più leggeri, tutta la città è più leggera: l’aria respira le nuvole pure; gli aerei volano bassi come sopra una distesa salata e tranquilla; e quasi sento odore di casa. È un ricordo ad occhi chiusi, un ricordo sgrossato e pulito: un cuore di foglie tenere e croccanti.
Gli aerei volano bassi sopra un mare di nostalgie.
Volare è un gioco, ho pensato quando mi sono trovata sopra le nuvole e l’unica luce possibile era il bianco accecante del cielo che così bianco non avevo mai visto. E il gioco è rappresentazione, reviviscenza e reminiscenza, ma solo se il gioco ha un cuore vitale, solo se chi gioca è pronto ad accettare la morte come parte del gioco, anzi, come sua nutrice.  La creazione è solo all’apparenza vita che scaccia la morte; la creazione è vita solo se ingloba la morte, solo se fa della morte la sua alleata. Ogni morte ha in sé un germe. Ogni idea nuova ha in sé la stratificazione di cadaveri di idee. La vita concima la vita con la morte.
Divora la fine della tua relazione, così esorto la mia amica dai capelli biondo cenere che mi ha parlato di sé con accento francese. Parliamo davanti a due vassoi di carta con resti di soia e semi di zucca: lei ha i capelli raccolti con due ciuffi che le lambiscono le guance, ed un collo cortese che non denuncia la sua vera età.
È come galleggiare: non devi far altro che assecondare il moto naturale del mare, far fede nella matematica perfezione del tuo corpo una volta privato della gabbia della tua mente. Ricorda che quando pensi, sbagli. Se ti sorprendi a pensare, fai un salto in alto, più in alto che puoi, oppure prendi la tua gamba più pigra e tendila a infinito. Ecco, sì, prova a sentirlo, l’infinito: sentirai dapprima una vertigine poi una stretta al petto come se il tuo busto venisse compresso tra due soli, il tuo pube vorrà precipitare in basso, le tue orbite schizzare in alto, ma tutto questo sarà naturale e tu sarai tornata finalmente sughero. Non è facile, non è facile non pensare quando il pensare è un confortante girare in tondo, è una ripetizione che conosciamo, un moto tanto inutile quanto rassicurante. Se il pensiero ti rassicura, gettalo via, non è un buon pensiero. Se al contrario, ti fa cadere la fica sul pavimento, tienilo: hai inglobato la morte e l’hai usata come concime, un concime naturale, organicamente perfetto.
La mia amica ha il seno palpitante e mi guarda intensamente ma il suo occhio mi attraversa per andare a toccare nostalgie sue, che io non conosco. Ha le labbra ben disegnate, anche a fine pasto, e anche il riempimento ha tenuto: una tinta rosa pallido colora le sue labbra sofficemente adagiate l’una sull’altra. Ne seguo il contorno e finisco il mio discorso.
Lascia andare e lasciati andare, ma non farti fuorviare dall’uso comune di queste parole: diffida in generale dell’uso comune perché è un uso inconsapevole.
E’ ora di andare. Ci alziamo, dopo aver deglutito l’ultimo sorso di tisana. Lei è contenta: di aver assaggiato la cucina vegana, o solo di aver scoperto un nuovo posto dove soddisfare le sue curiosità. Si dice molto curiosa, sempre intenta a fiutare nell’aria, col suo naso francese. Prima di uscire compra una confezione di tè verde e un barattolo di miele.
Il tram affollato ci accompagna per un tratto, poi ci separa. Lei mi abbraccia e mi sorride vispa; scendo e la saluto dalla banchina prima di rincorrere il mio autobus per casa.
Salgo, mi aggrappo alla prima maniglia libera e mi lascio dondolare.
Chissà se sono riuscita a spiegarmi col discorso del volo del pube e del sughero. Ma poi smetto di chiedermelo, amica mia, spero solo che tu possa ritrovare la tua creatività e riconoscere l’apporto della morte senza che essa ti spaventi. Senza che i tuoi sogni ti spaventino. Quei sogni notturni simili ad incubi, che tu chiami rivelatori. Quei sogni pieni di tasche vuote, il cui pensiero ti fa dannare e girare in tondo. Allora tu, pronta, alza la gamba, tendila forte!
Le tasche vuote dei tuoi sogni, e della vita, sono piene finché non ci hai messo dentro le mani. Ma, amica mia, solo i pessimi attori recitano con le mani in tasca, a meno che in tasca non ci sia una pistola.
Oggi la città è immota, a parte l’aria, che solleva le tende e fa sventolare le carte; e a parte i tram, che scivolano senza attrito su rotaie ben lucidate, scivolano e non fanno fermate.
Oggi, amica mia, c’è un gran silenzio di persone vacanti e la città è un grande mare.  

 

 

 
 
 

Bonjour...

Post n°220 pubblicato il 18 Giugno 2009 da le_corps

Sono tre giorni che non mangio, o meglio, che non faccio un pasto decente. Sono tre giorni che lui non dorme, o meglio, che fa fatica ad addormentarsi. Lui dice che è per il caldo, ma mente: il campione di verità scivola su rivoli di sudore e nemmeno se ne accorge.
Sono dieci giorni che non metto una pentola sul fuoco, non lavo bicchieri, non prendo in mano una scopa, non sposto un granello di polvere. L’ordine non mi attrae, il pulito non mi attrae, in questa casa. Per fare le cose occorre un motivo, una spinta; un inciampo. Mi lavo e mi vesto, faccio qualche lavatrice perché mi servono mutande e calzini, pantaloni e magliette, per andare al lavoro. Il lavoro, qualunque esso sia, è un motivo per fare le cose, una costrizione a farle, una necessità di farle. E allora mi lavo e mi vesto: faccio un po’d’ordine e di pulito per uscire e andare al lavoro. Mi piace il lavoro, qualunque esso sia, mi fa dimenticare tutto il resto. E quando esco non ho poi molta voglia di tornare a casa. Sono giorni che è così. Ma lui nemmeno se ne accorge. Per tornare ci vuole un motivo, così come per partire.
Sono tre giorni che non mangio, dieci che non metto una pentola sul fuoco, ed ogni sera dico “domani cambio le lenzuola del letto, sai, con tutto questo sudore!”, ma poi non lo faccio.
E lui nemmeno se ne accorge.
Tanto un letto è un letto, una sedia è una sedia, e la ragione è ragione. Che poi tutto questo non sia vero è impossibile dirlo. Come dire, le cose stanno così. La verità è una, verità verità vo’cercando, e verità trovo, io. Le tue sono solo rappresentazioni, idealizzazioni; le tue parole dipingono la verità a tuo piacimento e, in fin dei conti, sono solo un inganno:  narrazione, nient’altro che narrazione! Ecco, a me la narrazione non mi interessa. Perché tu scrivi in un certo modo, scrivi di certe cose, ma quelle cose non stanno proprio così, anzi per niente. E verità, verità vo’cercando! E quando la trovo, mi fermo, estasiato. E l’apprezzo: apprezzare la verità è,in fondo, apprezzare la vita stessa. E lo puoi fare solo se annulli l’ego. Dovresti provare, sai? Rinuncia a te stessa e punta alla crudezza della verità, alla sua scabrosità, alla.
Al lavoro sto bene, al lavoro posso dimenticare qualunque cosa mentre introduco nella mia vita un esile senso di utilità: lavoro e mi apprezzo da me. Il lavoro è una necessità materiale e una masturbazione affettiva, qualunque esso sia.  E dopo il lavoro, tornare mi fa fatica. È il ritorno ad una tavola sguarnita ed un piatto vuoto, ad una televisione in sottofondo, a mucchi di polvere da ignorare e lavaggi da avviare. Lui dice che non dorme per il caldo, ma mente; ieri al lavoro la mia responsabile mi ha chiesto cosa avessi. Strano. Io le ho risposto che ero inquieta per la pioggia. Mentivo.
Sono tre giorni che non mangio e non c’è nessuno che cucini per me. Ma domani, domani, laverò le pentole e i bicchieri, laverò tutto, tappeti compresi. Domani punterò alla verità, chiuderò il mio ego in cantina, e con lui le ferite narcisistiche, le cicatrici da mancanza, e i giudizi della gente; domani i rubinetti del bagno saranno lucenti e gli smalti brillanti, e lo specchio, ah, lo specchio risplenderà nitido e senza macchie. Domani.

 
 
 

Quel bar in fondo al viale

Post n°219 pubblicato il 17 Giugno 2009 da le_corps

Lui corteggia la tossica che si siede in fondo al bar, al tavolo vicino al bagno. La corteggia e nemmeno se ne accorge; quando lei parla lui le guarda i denti, ancora bianchi; quando lei è seduta col suo bicchiere in mano, lui le guarda le mani, dal polso all’unghia, ne osserva il ritmo nevratile con la coda dell’occhio mentre al bancone serve birra e caffè agli avventori che si parlano addosso, che svuotano d’un fiato i loro bicchierini colmi fino all’orlo. Anche le loro mani tremano, alcuni lasciano il bicchiere sul bancone e tirano il primo sorso portando le labbra all’orlo: dopo il primo sorso la presa diventa più salda, allora afferrano il bicchiere e se lo scolano sul marciapiede, tra la gente che passa. La tossica no, lei rimane seduta, in fondo al bar, in attesa di un tipo che qualche volta si siede al suo tavolo: si dice che sia il suo uomo, e si dice che sia uno spacciatore, ma di piccola taglia. Lei non si fa, dice la gente; lei non sta bene perché non ci sta con la testa, non è che sia proprio matta, dice la gente; ha solo qualche disturbo, ed è bene che prenda i suoi farmaci. Lei, la tossica, è imprevedibile, a volte è calma gentile, altre volte grida e ti guarda storto. Una volta, al bar, seduta al tavolo vicino al bagno, gettò un bicchiere di gin e campari in faccia al suo uomo, si alzò in piedi e se la rise. Lui le gridò puttana, sfilò un coltello dalla giacca e lo piantò al centro del tavolo. Questa volta ti uccido, la minacciò il tipo a denti stretti. Lei alzò i tacchi e uscì. Allora lui la seguì, lasciandosi alle spalle tavolo e coltello. I due andarono a litigare dietro al bar, e quando lui tornò per riavere il suo coltello aveva la faccia graffiata e una fetta d’arancia nella tasca della camicia.
Gli dissero di tornarsene a casa e di farsi una doccia. Lui farfugliò qualcosa su puttane donne onanismo e isteria - qualcuno annuì - poi chiese scusa al barista per il buco lasciato al centro del tavolo e se ne andò col coltello scarico in mano.
Quella scena la raccontano in molti, c’è chi giura che il tipo ha sguainato il coltello e affettato un dito alla tossica, c’è chi dice che la tossica ha assestato un pugno in bocca al tipo e che a terra ci sono ancora i tre denti caduti; c’è chi dice; e c’è chi, il barista, di quella scena ricorda solo il lampo di tuono lanciatogli addosso dagli occhi di lei che schizzava fuori dal bar ad aspettare la sua preda disarmata. Poi la preda arrivò, con passo sgangherato e bava alla bocca: si sa, lo spacciatore era anche uomo di piccola taglia.
Lui, il barista, era incantato. La tossica lo aveva ammaliato. E gli piaceva contemplarla nella frenesia del servizio, tra caffè birre e spumantini, gli piaceva indovinarne l’umore della giornata, e il calore. Si calava, con la coda dell’occhio, nella disconnessione dei pensieri di lei, e sorrideva tra sé e sé. E a chi sosteneva che voleva scoparsela lui rispondeva glissando con una risata delle sue, come se davvero non pensasse a lei, come se davvero pensasse solo a riempire i bicchieri fino all’orlo.
Una volta, lei passò dalla cassa per pagare (lei pagava sempre con delle monetine e quasi sempre mancavano dei centesimi ma lui stava zitto e lei pure). Quella volta invece pagò con un pezzo da 10, e si mise ad aspettare il resto  con le mani unite. Le sue mani erano bianche più dei denti – osservò il barista - e, così unite, disegnavano l’ingresso di una vagina, di una meravigliosa vagina in cui sprofondare con tutta la testa – rifletté il barista. E così, mentre le monetine del resto cadevano in quella umida conchetta, il cazzo di lui si gonfiò senza preavviso. Si gonfiò così tanto da premere con forza sui dentelli della cerniera, che contenerlo più non poteva: dai jeans salì un rantolo sinistro.
C’è chi giura di aver visto un bottone di metallo schizzare alla velocità di un proiettile e piantarsi nella fronte della tossica, proprio al centro; c’è chi giura che la tossica sia caduta all’indietro nella braccia di Ferruccio, che Ferruccio le abbia strappato il bottone con i denti e che lei per ringraziarlo glielo abbia regalato (si narra poi che Ferruccio, grazie a quel gesto gratuito e spontaneo sia diventato astemio); c’è chi dice che è tutto falso, e che Ferruccio beve ancora, chiuso nel bagno di sua madre. C’è chi dice che la tossica, riavutasi, abbia preteso indietro il suo pezzo da 20; ma non era da 10? – fece notare la madre del barista mentre condiva l’insalata. La tossica, piccata, alzò le spalle e se ne andò con un buco in fronte, senza lamentarsi e senza guardare nessuno, tanto meno il barista, che glissò sull’accaduto con una risata delle sue.
Come se davvero non gli importasse.

 
 
 

In the middle of the life

Post n°217 pubblicato il 11 Giugno 2009 da le_corps

Entra assieme a quattro ragazzi greci, penso che sia greco anche lui. I ragazzi greci sono gay, lui offre loro delle birre mentre fuma una sigaretta con gli occhi socchiusi e la bocca ridente, porta al collo un foulard annodato con eleganza, al dito un anello d’oro con un’effigie, ma non la distinguo.
Penso che sia gay anche lui. Ordinano quattro birre scure medie, io gliele porto chiare, ma lui sorride dice che vanno benissimo e mi ringrazia, mentre distribuisce ai suoi amici i bicchieri. È che lavoro qui da poco. Non serve schermirsi e poi lui già lo sa che lavoro lì da poco, e sa un sacco di altre cose, che io non so. So solo che è un tipo gentile, elegante, e vezzoso nel muovere le mani. Mi congedo da lui e dai suoi amici col vassoio vuoto tra le mani, e torno a servire. Il locale è pieno come tutte le sere, i ragazzi bevono e c’è un cantante che suona e canta come tutte le sere. Faccio il giro dei  tavoli, quelli della mia zona: sparecchio riordino asciugo prendo soldi do resti e intasco mance. Servo ai tavoli velocemente, con una mano alzo il vassoio sopra le teste dei clienti, con l’altra mi faccio largo e urlo, urlo permesso, perché la musica è alta e ho un vassoio con quattro pinte piene sulle dita di una mano. E il vassoio non può cadere.
A tarda ora inizia la chiusura: le luci si alzano: appaiono i nostri volti lividi. Uno dei proprietari conta i soldi dietro al banco delle birre; le sedie sono rovesciate sui tavoli, le loro gambe come rami mozzi puntano al soffitto. Il locale chiude; e si apre un paesaggio desolato. Ho paura a sedermi: potrei non rialzarmi più, ho viaggiato per nove ore, facendomi largo tra la folla, tra le mani e gli sguardi degli avventori, e i loro fiati; ho toccato i loro soldi, ho schivato i loro affondi, ho sorriso tirando solo un angolo della bocca, ho respirato fumo, dagli occhi e dalla bocca, e mi sono difesa, sola sulle mie gambe sola con la forza del mio braccio, e del mio pensiero, girando tra i tavoli della mia zona, sparecchiando e asciugando, impilando bicchieri e minuti.   
Con gli ultimi bicchieri in mano vado verso il bancone, il gruppo dei greci si attarda sulla porta d’uscita: lui è nel mezzo, elegante e sobrio nella sua ubriachezza. Lo sguardo liquido sotto le palpebre, mi saluta reclinando la testa. Che amabile frocio – penso io, mentre metto giù i bicchieri e alzo anche il secondo angolo della bocca.
Vivaci ed educati, i greci escono dal locale; la porta si chiude, pesantemente. I clienti sono tutti fuori tranne tre straniere che ciondolano attorno al cantante che sta finendo di smontare i suoi attrezzi da lavoro, tra un sorso di birra e un tiro di sigaretta: smonta e parla a vanvera. Ai cantanti, finita la musica, bisognerebbe togliere l’uso della parola – penso io. E lo penso tutte le sere. Quando il locale chiude e la stanchezza preme sui  miei polpacci e sulle vertebre e sulle spalle. Ma non posso fermarmi, devo correre, per sfuggire alla stanchezza. Non qui, le dico; non ora, la imploro. A casa, a casa puoi; a casa hai tutto un corpo da abbattere. A casa, quando saremo sole, tu ed io. Prendo la mia paga a percentuale ed esco dal locale, senza contare né i soldi né i passi. C’è un lavoro e c’è una strada: questo basta, da sapere. L’importante è arrivare fino alla fine, e seguire il proprio ritmo, e non abbandonarlo mai, l’importante è dare un ritmo ad ogni cosa: il ritmo è un’impronta; è una musica. È consapevolezza di sé, sempre e comunque. È appropriazione dei propri gesti, è la nostra sola inalienabile libertà. Il ritmo dell’azione e del pensiero, della parola scritta detta o taciuta.
Il ritmo, mi dico, ricordati del ritmo.  Ogni tanto me ne dimentico, e quando accade perdo la proprietà dei miei gesti, di me stessa.
Una sera a seguire, scopro che lui non è greco. Un’altra che non è gay. Un’altra ancora che l’anello è di suo nonno, e che suo nonno era stato perseguitato dal regime comunista del dopoguerra, così i suoi genitori, così lui. Non parlo molto, ascolto; osservo il suo essere aereo e proteiforme, e quasi mi sgomenta. Seguo l’eleganza fluida dei suoi gesti, e non ho dubbi su chi sia il loro padrone.

 
 
 

Sister

Post n°216 pubblicato il 26 Maggio 2009 da le_corps

Lei: “Ti faccio sapere quando il mio salvatore sloggia.”

Io: “Salvatore è una parola impegnativa.”

Lei: “Salvatore è una parola che mi scassa la minchia, sister.”
 

Ok, sister, come vuoi tu, sister; come fai tu, sister, va bene. Ti sei messa in casa un salvatore senza dirmi nulla, e ora cerchi la mia complicità, sister. O collusione. Ma io non firmo, no; non lo firmo questo atto di boicottaggio di te stessa, me ne lavo le mani, dopo tutto me le lavavo già prima, prima di essere informata dei fatti, e i fatti si son compiuti lontano da me, mentre già mi lavavo le mani, queste mani ignare e innocenti. Senti che profumo, sister.
Ok, sister, ti sei messa in casa un salvatore, ed io non dico nulla, proprio nulla; ma sento odore di piscio e di calzini; tu no? Sento odore di profanazione; tu no? E di usurpazione?

La casa è sacra, sister. Le sue pareti sono le tue, la sua solidità è la tua; il suo intonaco, il tuo smalto. La casa per te, sister, è sacra. Tu sei sacra.
Eppure, ti sei messa in casa un salvatore. Come tu dici, come tu vuoi, sister; e come tu fai, va bene. Ma per me salvatore è una parola impegnativa tanto quanto dannatore o corruttore o guastatore. Non so come dire: è roba seria. Bisogna essere bravi, per questo.
Sister, fatti un giro attorno al salvatore che ti sei messa in casa; e osservalo in silenzio. Di’ al tuo rantolo di tacere. Almeno per qualche minuto. Taci, sister, e guarda.

Sì, sister, lo so, vedi un salvatore senza spine e senza corona, con il culo affondato nella tua poltrona.
Sì, sister, lo so: è un momento un po’così, uno di quelli in cui ci si aggrappa a tutto, a tutti; uno di quei momenti in cui si è senza riparo, proprio nella propria casa; uno di quei momenti in cui i buchi sono ovunque, e si allargano, ed esalano rantoli.
Ok, sister, mi fai sapere tu. Quando vorrai, quando potrai, quando sarai pronta tu; e andrà bene così. Ma io non firmo, no; ho mani troppo innocenti.
Come troppo?, tu mi dici; l’innocenza non è forse un concetto compiuto, senza scale e senza sfumature?

Sì, sister, è tutto vero. Ma senti qui che profumo, sister, senti?

Cos’è, rosa muschio o ciclamino? 

 
 
 

Paga chi non entra

Post n°215 pubblicato il 21 Maggio 2009 da le_corps

Le tele del passato è bene lasciarle avvolte in fondo ad un cassetto. La loro bellezza non è assoluta né può essere universale.
Il corniciaio sotto casa tuttavia mi sta aspettando. Presidia il suo negozio con mansueta ostinazione, le natiche accomodate su un cuscino di paglia. Quando non c’è vuole esserci comunque allora lascia un biglietto sulla porta con numero di telefono o indirizzo. Lo lascia per non darmi alibi. Perché io non possa più giustificarmi: era chiuso!
Fa un gioco sporco, il corniciaio, gioca con le mie debolezze, con la mia debolezza. Non mi stupirebbe scoprire che tiene il negozio aperto solo per me, tanto per farmi dispetto, così: per beffa e provocazione.
È capace di tutto, il corniciaio sotto casa, e non si fa fregare quando mi vede indugiare davanti alla sua vetrina attirata dalle foto degli anni 80 quando le modelle erano insondabili, divine nel loro mutismo.
No, non si fa fregare, lui: si sventaglia con noncuranza, e manco guarda. L’arte dell’aspettare è nel saper guardare altrove, senza calcolo e senza finzione; e lui lo sa.

Sa che non esistono le bugie a fin di bene, bugie del tipo era chiuso!
E scuote la testa quando pensa a tutti quei cassetti, aperti giusto il tempo di riporre un’altra tela arrotolata e subito richiusi. Per questo tiene il suo negozio sempre aperto, la sua calma ostinata accomodata su un cuscino di paglia; per questo mette un biglietto sulla porta e guarda altrove, padrone dell’attesa servitore di sincerità: nell’istante, il tempo è dilatato elastico; nel tempo, gli istanti si calcificano, si fanno spessi e duri fino all’immobilismo.
Non espone prezzi, lui.
Il prezzo è di chi passa e tira dritto, accelerando fino al semaforo e correndo sull’arancione, in tempo per guadagnare l’altro lato della strada, in tempo per guadagnare un posto. Sotto una pensilina. Da cui guardare il punto esatto da cui l’autobus spunterà.
Sguardo fisso su spiccioli minuti spessi come calcificazioni.

 
 
 

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