Creato da le_corps il 27/02/2007

punto sul rosso

il teatro il delirio l'oblio

 

 

Giallo paglierino

Post n°214 pubblicato il 01 Aprile 2009 da le_corps

Ricordo di essermi cambiata. Di aver infilato i pantaloni di una tuta ma non le mutande, e di essere tornata a letto. Ricordo del bagnato. Ma forse l’ho solo sognato.
Questa mattina, per capire se era vero oppure no, ho messo le mani nel cesto della biancheria da lavare e ho annusato gli indumenti della sera prima: urina.
Era vero.
Ma non provo vergogna, forse solo un po’di preoccupazione. Che i muscoli della vescica si fossero indeboliti già lo sospettavo. I miei muscoli vanno rafforzati, non c’è dubbio: tutti. Ma non può essere solo fisiologia, la mia, perché  la mia è una fisiologia asservita, una fisiologia sotto lo scacco perenne della mente.
E la mente, questa notte, mi ha tirato uno scherzo di pessimo odore.
Allora via le lenzuola via le coperte, via tutto. È tutto da lavare, è tutto da rifare.
Come me, dalla testa ai piedi; passando per cuore utero e sfintere. Sono tutta da rifare, sì, ma non ora, ora devo andare. Sembra di avere così tanto tempo e poi, invece, alla fine, uno deve dire: devo andare, non posso restare, non posso finire, non posso continuare.
E non c’è tempo nemmeno per la vergogna: la vergogna, a guardar bene, è un fatto più da bambini che da adulti, perché è da piccoli che la si apprende, con sforzo e pervicacia, è da piccoli che la si applica, con convinzione e tenacia: vergogna più vergogna, quella del dolo e quella del mancato apprendimento.
Da adulti no; da adulti la vergogna, ormai interiorizzata, va finalmente esorcizzata, come atto di liberazione e di autodeterminazione. Dell’adulto, sì. Ma non per consapevolezza; quasi sempre  per mancanza di tempo.
La chiave della vita adulta è tutta lì, dopo tutto.
E se questa notte non mi sono alzata, e non ho fatto i passi dovuti, quelli dalla mia camera al bagno, è stato semplicemente per mancanza. Di tempo, certo. Di tempo.

 
 
 

Una mattina, mi son svegliato

Post n°213 pubblicato il 31 Gennaio 2009 da le_corps


Il giorno dell’investitura la mia veste era corta.
E’ un ricordo che ancora non mi abbandona, e turba i miei risvegli. La mattina spalanco gli occhi al primo chiarore, e sento subito un’onda d’ansia risalirmi la gola e strozzarmi la lingua.
Per prima cosa, faccio un respiro profondo, quindi rivolgo gli occhi alla volta del soffitto e mi concentro sui costoloni: percorro un costolone dopo l’altro, lo sguardo attento penetrante, come se ci passassi un dito; è una vista tattile la mia, tant’è che a volte ho l’impressione che la vernice si sgretoli e che una polvere dorata scenda su di me depositandosi nelle mie pupille: dorate anch’esse. Seguo i costoloni, armoniosi nella curva ed omogenei nel colore, per mettere in fila i numeri: li dispongo a intervalli regolari; so che all’incrocio dei costoloni c’è il 23, da qualunque parte io cominci a contare, e questo mi dà calma, sicurezza. Il respiro si fa regolare. Ma questo non basta. Allora mi sollevo sui gomiti e affronto la discesa a terra. I miei piedi saggiano la morbidezza della moquette, i muscoli si distendono e l’ansia sembra quasi svanire: qualche fibra si insinua tenue tra dito e dito provocandomi un gradevole solletico mentre la pianta tutta è massaggiata da una setola compatta e setosa, alta e fitta come manto d’animale. E’ come poggiare i piedi sul dorso di una volpe siberiana, e la volpe acconsente, quasi grata dell’imposizione.
E chi non lo sarebbe, dopo tutto? – convengo tra me e me, ma questo pensiero non basta a tacitare la mia ansia, che nuovamente mi assale, ghermendomi la gola come morso di animale: che sia lei, la volpe siberiana, a colpirmi? Che la volpe abbia mutato animo nei miei riguardi? Impossibile! Tuttavia mi affretto a calzare le mie babbucce a punta, di lana ricamate, e mi ergo in tutta la mia figura: bene, sono in piedi. Ma non basta. Un passo dopo l’altro, mi ripeto, un passo dopo l’altro, che ci vuole! Posso farcela: è una mattina come tante, fuori l’aria è fresca, tra poco mi serviranno latte caldo e biscotti rustici, confettura di fico e pane tostato, e una gentildonna mi farà un sorriso e insieme un inchino, e mi chiamerà santo e specificherà padre, pur non essendomi figlia, ché io l’amor carnale non lo conosco né mai lo conoscerò, semplicemente perché non ne ho bisogno: mi basta quello universale, quello che gli altri hanno per me, mi piacerebbe dire tutti gli altri, ma purtroppo non è così, non ancora; purtroppo ci sono ancora tanti uomini ottenebrati dal peccato e dall’ignoranza, tanti uomini in attesa del dono della visione, mentre altri l’hanno addirittura rifiutato, scortesemente e rozzamente, ma verrà un giorno in cui li farò miei, anche loro anche loro; un giorno non lontano li accecherò con il mio anello di fede, li tramortirò con un colpo di testa, dopo aver ripristinato - per l’occasione - l’uso della tiara: la tiara contundente.
Ordinerò al capo dello staff di andare a rovistare tra i gioielli di famiglia: sì, che mi porti una bella tiara intarsiata, di oro vetro e platino, una tiara bella tagliente: ottima argomentazione in qualunque discussione! Di certo, converrete con me che discutere è un fatto deprecabile, o meglio: inelegante - le voci che si accavallano!, e poco igienico - i fiati che si mescolano!
Alla discussione ho sempre preferito l’esposizione, che è una forma civile di imposizione.
D’altronde, la gerarchia è più costruttiva dell’orizzontalità: di certo, converrete con me anche su questo. Nella gerarchia c’è innalzamento verso l’alto c’è avvicinamento al cielo! Pensate ad una piramide, pensate al suo vertice, pensate a quanti strati occorrono per spingerlo in alto; ma in alto, ahivoi, può arrivare uno solo. Sì, ora ci sono io, su quella sommità, il giorno è arrivato: è la mia èra, ora. Una lunga èra di prosperità nell’omogeneità, con lo sguardo al passato le mani nel presente e i piedi nel futuro. Nei giorni precedenti la mia elezione, qualcosa avevo subodorato, ma non volevo darlo a vedere e continuavo a girare affettando indifferenza, con quell’abito di pessima fattura, con quel cappellaccio dozzinale e quelle scarpe dalla punta consumata. Per via dei calci. Sì, insomma, era successo, tempo addietro, che qualche fedele mi aveva confidato di non apprezzare molto il mio canto latino, dicendo testualmente: per noi già è difficile capirla, questa lingua morta, se poi lei si mette pure di spalle!
Una tale manifestazione di ignoranza e di volontà a perdurare nell’ignoranza mi sconvolsero a tal punto che me la presi con le panche della navata centrale, poi passai a quelle di fianco all’altare, infine mi scagliai con veemenza contro la porta del confessionale. Ma ero ancora inesperto, impaziente, con uno spirito da formare, e una brama da disciplinare: la brama senza strategia è nulla, ci rende bassi e mediocri, volgari e infelici. Dissi a me stesso: mio caro, troppa la luce, troppo lo splendore che promana dal tuo essere, e loro non sono ancora pronti non sono ancora proni, loro s’ingannano su loro stessi, sul loro arbitrio che pensano libero, ma quale libertà!, ci vuole pace e concordia, ovvero ordine e disciplina, per loro che sono bestie, bestie cieche bisognose di un pastore vero, dal bastone nodoso, di un pastore dalla guida forte indiscutibile e veneranda. Ma verrà, verrà un giorno in cui…! – e con le labbra serrate e le mani contratte, mi incamminai verso la sagrestia senza distogliere lo sguardo dalle punte consumate delle mie povere scarpe. Bene, pensai tra me e me, che queste scarpe siano da monito per gli anni a venire che mi siano da sprone a ripristinare l’ordine smarrito.
Negli anni ho imparato a mitigare la mia irruenza a dosare con intelligenza le mie reazioni, e a preparare la Reazione; ho imparato a sublimare la mia aggressività in sorriso (adoro mostrare i denti), ho imparato a lavorar duro, non nelle lande desolate a contatto di fedeli desolanti, ma negli uffici e nei foyer, nelle amministrazioni e nelle sale da tè, altro che banchi di chiesa, altro che calici da svuotare e lavare, e vino nelle damigiane da travasare!
Così  me ne andavo con le mie scarpe spuntate a stringer le mani di chi aveva il senso del rispetto – gerarchico, della fede – istituzionale, dell’opera – affaristica. Volevo diventare il numero uno, stare in cima alla piramide, e da lassù guardare più lontano di tutti. Ma, prima di salire, la piramide andava fortificata: basi solide e strati compatti, così non ci sarebbe stato nessun cedimento, nessun tentennamento, e, una volta lassù, avrei completato indisturbato l’opera di indurimento, avrei goduto inebriato del panorama. Forse, una volta lassù, una lacrimuccia avrebbe solcato la mia guancia destra al pensiero della povera mamma che non era lì a guardare, il suo bambino il suo bambino lassù, più in alto di tutti, al di sopra di tutto…
Mamma, mamma… - mormoro tra me e me – mamma, mammina mia cara che… - e quasi singhiozzo. Ma…ma cosa sto facendo! I sentimentalismi rendono cedevoli gli uomini e incrinano la struttura granitica della piramide, sono pericolosi quasi quanto i dissensi, e puerili e sciocchi quanto i predicatori del Duecento!
Quindi torno in me, riprendo possesso della mia figura altera e impermeabile, rammento a me stesso chi sono dove sono e cosa sto facendo.
Bene, i costoloni li ho guardati, la moquette l’ho accarezzata (e per poco quella dannata volpe non mi azzannava), le babbucce le ho infilate e… non mi resta che fare qualche passo, qualche piccolo passo in avanti, verso la finestra, e poi a destra, verso la porta.
Non aver paura! - mi incoraggio - non accadrà più, vedrai, mai più.
Incerto, metto un piede dopo l’altro, dapprima non odo nulla (e temo che l’ansia mi divori gli occhi), poi inizio a percepire un leggero fruscio (sì sì, un fruscio!). Allora alzo le braccia al cielo: è la prova del fuoco. Mi metto in ascolto e… sì, è ancora lì: è un fruscio, indiscutibilmente un fruscio, un fruscio da orlo.
Da orlo, da orlo! - vorrei urlare; ma non posso. Anche la gioia va saputa dosare, e utilizzare. Ormai sono un uomo-immagine, un esperto tessitore di intrecci umani e politici, un virtuoso della ragion di Stato, un Giano bifronte incarnato.
E compostamente allento la tensione accumulata nel mento.
Il sole è sorto, la luce di un nuovo giorno filtra dalle persiane, e tra poco la mia collaboratrice busserà ed entrerà con un vassoio tutto per me: latte caldo e confettura di fichi, pane tostato e biscotti appena sfornati.
Il sole è sorto, ed io sono qui, in piedi nella mia stanza, avvolto in una camicia da notte di seta e cachemire cucita su misura, una camicia superba, che cade morbidamente lungo il mio corpo, e lo avvolge, e tutto lo copre, tutto, caviglie comprese.

 
 
 

Noi, maiali di oggi noi

Post n°212 pubblicato il 16 Gennaio 2009 da le_corps

Ricordo ancora quella sera, era una sera come tante: il trogolo vuoto, la merda fino al polpaccio e fili di paglia pungenti che mi ferivano la pelle liscia e soda della schiena, questa schiena possente e setosa che mi inorgoglisce almeno quanto la mia coda: mi dicono che è bellissima, la mia coda, ma ho il torcicollo e non arrivo a guardarla, allora la immagino, in queste sere tutte uguali, uguali ai giorni. In queste sere in cui la luce non filtra più dalle fessure delle pareti e dalle crepe del tetto, questo tetto basso sulle nostre teste basse.
Alcuni di noi dicono che sopra questo tetto ci sia un altro tetto, che si chiama cielo, ma io nemmeno quello ho mai visto, sarà il torcicollo sarà questa vita ritirata che ho sempre fatto, questa vita fatta di lentezza e pesantezza, di parole fatte grugnito per cifrare i discorsi e i pensieri e le immaginazioni.
Alla sera, il trogolo si svuota e la testa si riempie. Restiamo tutti in silenzio a guardarci le zampe, mentre qualcuno tende gli occhi in alto spingendo le pupille (con tanta protervia da farle schizzare contro il tetto, una di queste sere). Insomma, dicono che ci sia un altro tetto, molto più alto di questo, un tetto chiamato cielo, un tetto con colori e movimenti che noi non possiamo nemmeno immaginare. Qualcuno ne nega l’esistenza, qualcun altro dice di averlo visto, ma nessuno gli crede: tutti sanno che dacché è nato non si è mai mosso da qui. Come tutti, del resto. Tutti tranne uno, un vecchio maiale, il più vecchio di tutti: è un vecchio maiale addolorato: sopravvivere è una condanna insopportabile, in certi casi.
Sapete cos’è l’aria? - ci apostrofò una sera il vecchio maiale.
Si sollevò un grugnito collettivo, un po’sfiatato, per via dello smarrimento, un po’basso, per via dello stupore. L’aria: no, non sapevamo proprio cosa fosse.
E allora non potete sapere nemmeno cos’è il cielo, tagliò corto quel vecchio porco che ne sapeva una più del, anzi, che le sapeva tutte, e forse per questo soffriva, e qualche volta gli si inumidivano gli occhi mentre stava con la testa giù nel trogolo, e lentamente lo  ripuliva, per non far vedere che piangeva.
Allora pensai che non sapere cosa è l’aria o come è il cielo forse era una buona cosa, così come vivere per poco: non hai nulla da rimpiangere. Grugnisci allegramente quando qualcuno fa una battuta, e ti basta ricevere un complimento alla tua coda per passare una buona giornata. Che finisce quando la luce da calda diventa fredda, di colore azzurrino, ed emette un ronzio costante, come di filo che sta per bruciare ma non brucia e si lamenta solo.
Ricordo ancora quella sera, una sera come tante, con quel filo di paglia piantato come un ago al centro della schiena. Era una sera in cui si parlava poco, i pensieri erano silenziosi e i musi affondavano nella melma, qualcuno teneva gli occhi aperti e fissi, qualcun altro li teneva chiusi ma non dormiva. Era una sera di silenzio e di leggerezza, eh sì che la leggerezza la posso immaginare: la leggerezza è tutto ciò che non siamo. Vedi, vecchio porco, basta ribaltare un concetto che conosci per accedere a un altro che pensavi di non conoscere; vedi, vecchio porco, basta far camminare un po’il cervello se le zampe non ce la fanno, e così impari comprendi e tendi i tuoi limiti, e soprattutto lo immagini  il limite. Eh sì, che posso immaginarlo il cielo, come posso immaginare l’aperto conoscendo il chiuso, e l’alto conoscendo il basso: faccio esperienza con la logica: ho tutta una geografia mentale che se ne sbatte della geografia terrestre: la mia mente è capace di inglobare tutta la terra, fango compreso, e di superarla; questo corpo appesantito oltre natura e contro natura, questo corpo limitato bloccato e schiacciato al suolo aiuta la mia mente a volare: sì, il fetido e il puzzolente mi danno indizi sul sublime.
E già soffro.
E’ vero. Mi sono spinto troppo oltre, mi sono concesso associazioni e induzioni che dovevano rimanere appannaggio degli uomini, queste bestie senza tocicollo che ci fanno visita per riempirci il trogolo, che disprezzano la nostra immobilità e rifiutano i nostri odori (ci hai fatto caso che parlano sempre dietro mascherine?), che disturbano il nostro sonno con un ronzio costante di filo che sta per bruciare ma non brucia, ed emette una luce azzurrina.
E’ vero. Mi sono spinto troppo oltre. Sfidando il torcicollo mi sono concesso uno sguardo in alto verso il cielo, e uno indietro verso la coda, questa mia coda bella grassa e attorcigliata che mi dà tante soddisfazioni. Ma il vedere non so se mi ha fatto bene, perché ora sento dolore, come di puntura, al centro della schiena; forse è un filo di paglia che mi si è conficcato nella pelle soda e setosa, un filo che punge come un ago, di quelli grossi, da vaccinazione. Non so, caro il mio vecchio porco che ne sai una più del, che le sai tutte, e da brava persona quale sei ci metti in guardia. Dall’interrogarci, dal capire, dal pensare. Son solo dolori! - ci ammonisci. Testa nel trogolo e culo nella merda! - ci esorti. Coda compresa! - infine grugnisci, baldanzoso come padre speranzoso che dissimula la sua malinconia, che ci vedrà tutti andar via.

Di seguito, un post di non.sono.io, recuperato da Blanca (grazie), che non ero riuscita a leggere. Ma, si sa, è l'epoca delle rimozioni collettive e individuali.

 

SOLO PER VERE MAIALE

Non potrò mai scordare la prima volta
che ti vidi. Tu sembravi così giovane anche se avevi già superato i
cinque anni, e il tuo grasso molle e virile sembrava volesse esploderti
fuori dalla pelle. Non mi dicesti nulla: avvicinasti il tuo naso al mio
pube già caldo, e iniziasti ad odorarmi tutta. Le gocce della mia
eccitazione ti sporcavano il viso e si mischiavano al fango e ai resti
di escrementi, e nel suolo di quella stalla mi prendesti con folle
passione. Io volevo solo lasciarmi andare, essere tua, sentirmi
posseduta dalla tua voglia animale, sentire il tuo fallo duro e
riccioluto entrarmi fin dentro l’anima, e riempire le mie voglie di
femmina in calore. Mi prendesti da dietro, immobilizzandomi con forza
maschia, mentre il tuo bacino scavava il mio orifizio ormai completamente fradicio. Il primo orgasmo fu uno dei più completi di
tutta la mia vita. I nostri grugniti squarciavano l’aria calda e satura
degli odori dei nostri corpi che si fondevano, e sembrava quasi che in quel momento al mondo ci fossimo solo noi due. Al quindicesimo orgasmo scoprì che ti amavo. Al ventottesimo decisi che non ti avrei mai più lasciato.
Eravamo così giovani, amore mio. Ancora non sapevamo che la felicità sa di prosciutto.



 

 
 
 

Effetti

Post n°211 pubblicato il 09 Gennaio 2009 da le_corps

Lei scriveva, lui leggeva. Leggeva le parole di lei, i pensieri di lei, e più leggeva più si innamorava. Di ciò che a lei mancava. Ma questo non lo sapeva, non poteva saperlo. Se scrive, lei è - lui pensava; ed è ciò che scrive, è vera come è vero ciò che scrive – lui pensava; e i bordi combaciano e c’è tutta una profondità da attraversare – lui si ingannava. Ma lui questo non poteva saperlo, perché lui non faceva in tempo a pensarlo che già amava, e se non faceva in tempo a pensarlo non poteva nemmeno contraddirlo, discuterlo, e non poteva nemmeno ipotizzarlo, un dubbio. Così ogni parola di lei aderiva alla pelle di lei, e si faceva bocca occhi naso, ed era tutto delizioso desiderabile ed era tutto plausibile godibile, perché tutto era già nelle sue parole, e le parole bastavano: a divinarla.
Lei scriveva, lui leggeva, e quel che leggeva gli piaceva, gli piaceva il suono della voce di lei, quella voce che descriveva la vita e l’accompagnava e la comprendeva, quella voce che guardava e osservava, e sceglieva un colore e una luce per ogni cosa, ecco sì, era proprio quell’essere veggente che gli apriva il cuore e affondava in mollezze che lui non ricordava; e la voce di lei era volto pur essendo muta, era carne pur essendo aria. L’aria del suo respiro di sigaretta mentre leggeva le parole di lei, e pensava a certe identità e si ingannava. Ma questo lui non poteva saperlo. Lui che non cercava più nulla – assicurava, lui che viveva come superficie scabra senza temere alcun fendente, senza curarsi di chi guardava per giudicare di chi parlava per parlare e di chi domandava per esigere.

Lui viveva assieme al suo disinteresse per la felicità, appreso o capitato non importa; lui viveva per provare; ma ad amare non provava, amava e basta, amava tutto, amava in assoluto.
Lei scriveva, lui leggeva, e più leggeva più si innamorava. Di tutto ciò che lei non era di tutto ciò che lei immaginava e ricordava, dei suoi tributi alle vite altrui dei suoi possibili mondi quelli bassi e quelli alti, quelli vicini e quelli lontani. Lei era un veicolo, con il suo corpo con le sue parole, era solo uno strumento: non era origine né fine. Era quello che era sempre stata e che solo poteva essere: un tubo. Di dimensione variabile di capacità modulabile. Tubo, che a volte era ponte, tra sponde che faticavano a trovarsi, era ponte finché la foschia non si diradava, allora diventava brezza, per chi la calura non sopportava. Essere strumento non implica riempimento, essere strumento dà il dono del servizio e dell’oblio: impermanenza.
Ogni frase fatta spora ogni fiato fatto sentore, ma tutto è di passaggio: il tubo è senza incrostazioni, soggetto a lavaggio. Ma lui questo non poteva saperlo, e pensava a dei confini sconfinati come parole che moltiplicano parole, e pensava che ciò che era scritto non poteva non essere. La vita forse non era, aveva detto qualcuno, ma lui la capiva e la conteneva, e conosceva la gioia e il piacere, e della felicità non gli importava, davvero non gli importava,  gli importava di ogni cosa che sentiva e che vedeva perché era vera: della verità, sì, gli importava. La sua era una verità che si reggeva su un piede solo ma si reggeva benissimo, la sua era una verità senza esitazioni senza cedimenti, che si sosteneva senza fatica su un piede solo, e si reggeva benissimo. A lui piaceva la verità, la naturalezza con cui tendeva ad essa, e il tendere era un aderire: alle cose alle persone alla vita stessa. Che forse non era, come qualcuno aveva ipotizzato. Ma lui sentiva e aderiva, e sentiva che anche lei aderiva, e sentiva che magari avrebbero potuto aderire insieme, godere della stessa ispirazione e tendere al medesimo orizzonte.
Lei scriveva, lui leggeva. E leggendo si innamorò.
Ma lei scriveva solo rime, scriveva per riempimento (ciò che le mancava, essendo tubo), scriveva nell’illusione di poter essere altro, magari sale.
Lei scriveva ma non era. Ma questo lui non poteva saperlo, poteva solo guardare quei cristalli brillare, prima che si sciogliessero nel suo mare, sterminato, da navigare. La fine, lei non ne vedeva la fine, di quel mare, sterminato, che lui era. Un tubo invece copre distanze misurabili, si allunga e si accorcia a seconda della funzione. E lei cosa poteva essere se non tubo gettato nel mare? Un corpo estraneo un corpo inquinante un corpo inutile (al mare) e galleggiante. Il mare è acqua e sale, contiene nutre accoglie, e divora solo se necessario. Un tubo invece è un buco, un buco utile, utile al passaggio (finché le pareti reggono); un buco che necessita di ricambio.
Lei scriveva, lui leggeva. E leggendo si ingannò.

 

 
 
 

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Post n°210 pubblicato il 23 Dicembre 2008 da le_corps

È venuta a trovarmi senza ch’io potessi metterlo in conto, è venuta senza preavviso. Ha suonato alla porta, ho aperto ed è entrata. Mi ha detto ciao come se fosse la cosa più naturale di questo mondo, come se entrare in casa mia fosse una abitudine, l’abitudine di chi suona perché ha semplicemente dimenticato le chiavi di casa, l’abitudine di un inquilino distratto ma che ti aspetti.
Ed io invece non l’aspettavo, come potevo dopo tutto?                      

Lei suona e dice ciao, e con un angolo della bocca mi fa un sorriso, e mi guarda fissamente: no, non è da lei, guardare fissamente.
Lei guardava obliquo, per lo più; e voleva che anch'io distogliessi l’attenzione dagli occhi per metterla nelle parole: lei voleva essere ascoltata quando parlava, e non guardata, voleva che l’ascolto fosse tutto nel suono nella melodia nel senso, che le parole assorbissero e restituissero tutto il suo intendimento: le parole, nient’altro. Ascolta le parole, le parole! Mi incoraggiava, no, lei non implorava, non implorava mai.
Allora tenevo lo sguardo obliquo pure io e mettevo in fila le sue parole, davo loro un ordine, le ridisponevo per capirle meglio: per diluirne la sintesi o per districarne il groviglio. Ascoltare e interpretare necessitano di molta attenzione, e lei non tollerava distrazioni. E faceva bene.
Apro la porta, sorride ed entra. Come se fosse normale come se sapesse dove andare e cosa fare. E lo sa di sicuro. Lo sa senza premeditazione, è il suo fiuto a guidarla, a farle compiere il gesto più efficace: la sua è un’interpretazione all’impronta, ed io di impronte ne lascio anche parecchie.
Chiudo la porta con triplo giro di chiave, e già non so che dire e già non so che fare. Allora smetto di pensare, e respiro piano, bandisco l’affanno del pensiero, il suo ronzare ripetitivo il suo girare su se stesso. Prima che possa farle strada è già sprofondata sul divano con le gambe accavallate e una mano sulla nuca: carino qui.
Sì – sorrido io.
Come stai?
Bene.
Cosa ti manca?
Tutto.
E già sento le lacrime premere sotto le palpebre: la mia inclinazione all’autocommozione potrebbe essere scambiata per fragilità, ma io credo che sia solo un modo di accogliere se stessi, di massaggiare le proprie membra in un bel bagno di lacrime: cosa sono certe lacrime se non un potente balsamo riparatore da far colare nelle spaccature della pelle, nelle fratture del sentimento di sé? Se fossi stata meno rigida con me in passato, ora piangerei di meno: lo so. Ma non ha senso recriminare. Mi giro su me stessa e agguanto la macchinetta del caffè. Quando non so cosa fare preparo il caffè: compiere un’azione che si conosce bene, fare qualcosa che si può fare in sicuro automatismo aiuta. A non sbagliare, e ad ingannar le lacrime quando arrivano troppo presto. Ma anche le lacrime suonano inaspettate, e non fai in tempo a dire chi è che hai già spalancato loro la porta, e sei tutta bagnata.
Faccio il caffè, sì, mi sembra una buona idea un’idea che non va nemmeno pensata: il mio corpo mi soccorre con le giuste azioni non appena percepisce un vacillamento della mia coscienza. Ah, corpo corpo, come farei senza le tue improvvisazioni? Il mio corpo è il mio paracadute.
Svito la macchinetta del caffè davanti al lavandino, sciacquo i suoi pezzi sotto un getto d’acqua violento, per far prima, per pulire bene, ed anche per far rumore per poter dire: non ho capito, come hai detto, scusa? Ma è una scusa che non vale, quando le parole si sono già spostate dal divano al tuo orecchio, quando un corpo si è già spostato dal divano alle tue spalle e l’aria ha perduto elasticità e si è fatta vischiosa.

Respirare piano, respirare profondamente.

L’acqua scorre violenta e dritta, dal rubinetto allo scarico: le mie mani sono deposte sul fondo del lavandino e conservano nel loro palmo i pezzi metallici della macchinetta.
L’acqua scorre indisturbata: io sono immobile, in ascolto. Dell’acqua dell’acqua. Mi concentro sul suo rumore, ché è l’unico rumore in casa: ne cerco altri ma non ne trovo, se non ci fosse quello scroscio d’acqua dritto e violento ci sarebbe solo silenzio.
E nel silenzio non pensi, puoi solo sentire: un corpo accostato alla tua schiena, e una guancia fresca sul tuo collo caldo: allora, come va? – e una voce che ti cola sulla spalla e lentamente scende e si raccoglie nel tuo ombelico.
Ti aggrappi alle uniche parole possibili: non lo so, dici; e aspetti.
Aspettare è una cosa che ti è sempre riuscita bene, nella vita. Se le domande bruciano basta rinviare subito la palla a chi ce l’ha lanciata, finché la palla non cadrà a terra, scivolando via, o finché la palla non si tramuterà in un abbraccio.
Non sento più il mio corpo.
Il tuo corpo non può essere il tuo solo filtro, la tua sola porta d’accesso alla conoscenza al sentire all’essere. Il tuo corpo è un indicatore un segnalatore: una tumescenza gonfia di bisogni ma priva di soluzioni.
Perché sei venuta?
Perché il tuo corpo ha bisogno.
Di cosa?
Di essere guarito.
Da te?
Da chi sappia farlo, o voglia farlo, da chi non è troppo danneggiato o lo è così tanto da riuscire ad accogliere l’avaria altrui.
Sono avariata, dunque.
Hai il corpo funestato di croste, le croste vanno ammorbidite: è pelle che non ricorda più di essere pelle, che ha perso la sua porosità, la sua capacità di trasformare la vita, di nutrirsi e nutrire. Il corpo non è un involucro, il corpo è la nostra anima esposta che si fa toccare e che tocca, la nostra anima pronta a contaminare e contaminarsi.
Corpo corpo, parli solo di corpo…
Non rivolgere il pensiero alle mie parole, ora, sono energie mal spese, concentrati sulla tua anima, che è senza bisogni, che è vita fatta per esultare: non c’è differenza tra corpo e anima. Quando io parlo di corpo, parlo di tutto questo, sì, quando io parlo di corpo parlo di tutto questo e mentre ne parlo vivo, traspiro inglobo restituisco. Quando tu parli di corpo, è solo il pensiero che parla, un pensiero vizzo, che non esplode né vivifica, anzi, ti intasa la pelle e sigilla la tua porosità, e senza porosità sei destinata ad ammalarti.
È che io… non so…
Non dire altro, sono qui per aiutarti: sono abbastanza danneggiata per farlo.
Con una mano chiude il rubinetto, con l’altra mi preme la mano gelata.
Ora c’è silenzio, e calma. La casa respira, lei respira, e anche io voglio respirare.
Che le croste ritornino pelle e la durezza si ammorbidisca, che il mio corpo torni a succhiare e la mia anima a ondeggiare, e tu succhiami leccami mordimi e toccami, mettiti la mia anima tra i denti tra le cosce tra le dita, mettitela sotto le unghie, e poi scavala e poi bagnala e inondala; che il mio corpo sussulti e la mia anima palpiti, e tu succhiala leccala mordila, e annusala strappala riparala, e cercala, e amala.

 

 
 
 

Da poco.

Post n°209 pubblicato il 12 Dicembre 2008 da le_corps

Lui scrive: convivo da poco.
Io leggo: convivo, da poco. E chiedo: perché da poco?
Be’, così, per specificare. Dopo tutto, è da poco, no? Ma non che significhi cosa da poco.
Allora perché specificare?
Non so, dico solo quello che è: è da un mese, quindi è poco. E non è strano dirlo, è per precisione, perché gli altri lo sappiano con esattezza. Sì, ci tengo a dare informazioni circostanziate.
Allora potevi dire da un mese. Un mese può essere anche tanto, se intenso. Poco dà l’idea di precarietà, o di cosa informe. Poco dà l’idea di tutto un prima che è molto se confrontato a questo poco, un prima solido, importante, mentre ciò che è da poco, è da vedere un po’come va.
Penso che sia un discorso molto stupido.
Ma io sono stupida. E poi penso di non piacerti.
Mi fai ridere.
Non mi piace essere fotografata. E pubblicata. Puoi chiedere a quelle due di non rendere pubblica la mia immagine?
Quelle due chi?
Quelle che fanno foto tanto carine, quelle che si fanno foto tanto carine spalmandosi davanti all’obiettivo, quelle con cui siamo usciti per due sere di fila (oh, dico: due sere di fila, un record! Peccato che il tuo amico L. non abbia potuto unirsi alla nostra e loro compagnia…).
Senti, ma se non compare nemmeno il tuo nome!
Mi piace pensare di poter ancora scegliere, se comparire o no, soprattutto in certi spazi che non mi appartengono.
Tu stai fuori. Sei gelosa senza alcun motivo.
Più che altro sono stupida, te l'ho già detto, e avariata. Avariata come i miei sensori: è che alcune cose che sento non mi piacciono, e poi, alla fine, il punto è sempre quello: penso di non piacerti. Di non piacerti davvero. E tu, tu sei meno etereo di come cammini.
Questa è proprio una stronzata. Non pensavo che mi leggessi in modo tanto banale.
Quando riconosceremo la nostra banalità e l’accetteremo, saremo finalmente persone liberate.
Mah, non pensavo fossi così.
Quante cose non pensavi, comunque posso fare di peggio.
È tutto molto assurdo.
Già, ma niente è vero. Neanche il bene che dici di volermi. Spingere sul credere crea un effetto disturbante per chi partecipa o assiste alla rappresentazione, ecco, tu sei uno che spinge sul credere così tanto da rendere tutta la rappresentazione poco credibile, spingi così tanto da lasciare il pubblico deluso: il pubblico è deluso quando vede il margine, l’orlo, il confine entro cui l’altro ha inscritto la sua rappresentazione: quando vede la maschera smette di credere, perde in convinzione, si disamora, e straccia il biglietto di ingresso e fa una smorfia mentre si incammina e torna a inoltrarsi nella sua personale e quotidiana rappresentazione.
Esco.
Bene.
Lui sospira prende tre mazzi di chiavi chiude la porta e chiama l’ascensore.

Io accendo la tv.

Mi sembra un buon sincronismo il nostro.

 

 
 
 

Intermittente

Post n°208 pubblicato il 01 Dicembre 2008 da le_corps

Sarah Kane mi guarda e sorride, ma no, non guarda me, tuttavia sorride: ha ventisei anni, a ventotto si ucciderà. Magari sorrideva anche poco prima della fine, ed era un sorriso rivolto a tutti e nessuno, un sorriso che non si indirizzava da nessuna parte perché lei era già in nessun luogo, e forse la sensazione che ne ricavava era così leggera e la rendeva così leggera da non farla posare da nessuna parte. Come una farfalla mai stanca che vola ad occhi chiusi, e volando dapprima sente l’aria e tutte le sue qualità e percepisce la luce e il buio, l’alto il basso, e poi non sente più nulla perché è finalmente un essere indefinito indefinibile non guardabile non separabile non raggiungibile. Eppure è tutto, eppure è.

“Quando sarai morta avrai un odore migliore di adesso”.
Ok, mi fido di te, mi fido del tuo naso del tuo fiuto, mi fido così tanto di te da non aver più paura della morte. In effetti la mia paura della morte non era tanto paura della fine, quanto paura dei cattivi odori. Bene, posso morire tranquilla ora. Grazie.
Non ringraziarmi. Sai, tra amici…
Che bella l’amicizia.
Già, è un organismo che tende a espandersi.
E dove arriva?
Non ha confini: l’amicizia cresce pagina dopo pagina, è fatta di mille bocche e di mille sorrisi.
Lascia stare i sorrisi.
Scusa, non volevo.
Non scusarti, dopo tutto sei il mio unico amico.
Che bella la nostra amicizia.

Sì.
Ma, l’amore?
L’amore è arrivato e mi ha superata, è arrivato mentre mi chinavo a raccogliere una moneta da terra, è arrivato non mi ha vista e se n’è andato: si aspettava una persona più alta.
Mai chinarsi se si aspetta qualcuno.
Non pensavo che avesse tanta fretta.
Ma no, lo sai, è che l’amore è cieco.
Pensavo fosse una metafora, una metafora per rendere l’amore sublime incomprensibile imprevedibile inclassificabile.
Ma no, l’amore è proprio cieco.
Avrebbe potuto almeno inciampare in me!
Ti ha scartata di lato come si fa con gli ostacoli. Ripeto, l’amore è cieco nel senso che è pieno di pregiudizi, e non guarda per davvero, cioè vede solo ciò che vuole vedere: quasi sempre si ri-vede; e poi è bravissimo a scartare gli ostacoli tra sé e sé, e le incongruenze.
No, preferisco non crederti.
Come vuoi. Tanto il problema è cosa vuoi.
Piove ancora.
Quando sarai morta avrai molto tempo per pensare.
Già. Ora penso se trovo un pelo nel cappuccino; penso perché lo vedo, in realtà pensare è come una scossa, non è un fluire continuo, è come un’interruzione.
Sì, bisogna staccare la spina ogni tanto.

O camminare sulla neve: l’effetto è lo stesso.
Si pensa.
Già. Ed è per questo che quando diciamo all’altro ti ho pensato molto, lo stiamo e ci stiamo ingannando: la durata non esiste, esiste la puntualità, e le interruzioni sono meno frequenti di quanto pensiamo perché siamo abituati a pensare che pensare sia una cosa e non ciò che realmente è.
La tua è una posizione soggettiva.
Aspiro all’universalità.
È una nobile aspirazione. Ma dovresti smettere di fumare.
Ci penserò al prossimo cappuccino.

Mi sembra ragionevole.
La tua è una posizione condivisibile.
Quando sarai morta non avrai molto tempo per pensare.
Sì, ma quando?
Quando lo sarai, lo saprai.

Mi piaceva di più la storia dell’odore.
Non è una storia, è così. Da morta sarai un tripudio di odori crepitanti e avvolgenti.
Sarò cremata?
Solo se lo vuoi.
Sì, ma cosa voglio?

Te l’ho chiesto prima io!
E’che mi piacerebbe vivere all’estero.

Il pensiero puro è quello che si pensa da solo.
L’estero ti costringe a ripensarti.
Peli permettendo.
Sì, i peli sono fondamentali nella vita delle persone.
Considerazione non superflua.
Sei felice?
Ma come ti permetti!
Già, scusa.

Scusa scusa non volevo, è che a volte non so cosa mi prende e farfuglio vaneggio e mi rendo ridicola e …
Sei solo un po’scossa, ma ti capisco.

Davvero?
Ad essere sincero, non lo so. Ma è così che si dice.
Capisco.
Eh, vedi?
Già.
Automatismi, si chiamano.
E come si fa a bloccarli eliminarli disattivarli?
Eh, questa operazione non è semplice: è un’operazione senza tasto, senza click.
Impossibile!

Incredibile!
Eppure oggi è tutto così facile immediato, veloce e senza impegno…
Ma chissà domani…
Già, chissà. Magari oggi sorrido, e nel farlo ti adagio il mio sguardo sulle sopracciglia, e le tue sopracciglia mi fanno il solletico e…, magari oggi ti sorrido, così, spontaneamente, senza aspettarmi nulla (figuriamoci la morte!) e poi domani, o magari un attimo dopo, puf!, non ci sono più. Puf! E niente più sorrisi né sopracciglia, e niente più peli né pensieri.
Fossi in te smetterei di raccogliere monete da terra.

I rimorsi fanno parte della vita.

Fossi in te lascerei perdere le monete.
E della morte?
Abbi pazienza, ma non posso sapere tutto.
È che sembri sempre così convinto.
È una precauzione.
Detesto le precauzioni.
Sei una fatalista disamorata.
Vero. Ma come fai?
A sapere tutte queste cose di te?
No, a dire la cosa giusta al momento giusto. La verità non esiste, d’altronde.
Vero. Non esiste.

 
 
 

Notti

Post n°207 pubblicato il 25 Novembre 2008 da le_corps

E’un colloquio tra due puttane e c’è di mezzo un uomo, un uomo giovane, che una delle due vuole salvare mentre l’altra vuol mandare a crepare, cioè non è proprio così, cioè non è che lei lo vuole davvero, ma in tempi di guerra non siamo più donne non siamo più uomini, e chi deve crepare è bene che si alzi presto la mattina e crepi il prima possibile, è bene che arrivi in orario al suo appuntamento con la storia: in tempi di guerra non ci sono madri né fidanzate non ci sono mogli né padri. In tempi di guerra c’è la storia da fare e alla morte non si resiste, e alla morte si va incontro, perché c’è la storia da fare.
Ecco, ti spalanco la porta, ecco, ho sradicato la serratura che poteva chiuderti dentro e preservarti la vita, sì, ma una misera vita: ora al suo posto c’è un buco e in quel buco il risucchio della Storia, della tua storia, e allora vai. Che vuoi farci, è un mondo che per farsi deve farsi la guerra, e così le madri lasciano la porta socchiusa trascinandosi dietro la coda dell’occhio, pesante come cemento, cemento legato al collo.
La madre è vita, in pace, ma se c’è la guerra la madre struscia i suoi passi in tondo, e li consuma in tondo, attorno a un ideale, un ideale che supera la carne, un ideale che asciuga il sangue di un cordone ormai  atrofizzato, dimenticato, rimosso come una porta, e, al suo posto, uno squarcio che annuncia un ideale: aereo pulito intangibile, un ideale a venire, e verrà, sì, quando noi non ci saremo quando la carne tornerà carne e i figli figli e le madri madri, e le donne sbricioleranno il grano con le dita, e avranno labbra polpose e sguardi diritti, sguardi filati per avvolgere e accompagnare la vita. Ma ora no: prima l’ideale, l’ideale è avvenire, e poi la vita, la vita è a seguire.
Due puttane si disputano la Storia sulla porta di un uomo, un giovane uomo che dorme: è ancora buio. Ma qualche luce annuncia il chiarore di un nuovo giorno uguale al precedente, e la tentazione di non veder la luce dura un lampo: è quasi giorno, è il tempo della scelta, e la scelta è azione: nel quasi si va, si va a fare la storia, si va a farsi ammazzare.
Le due puttane si disputano una vita, si disputano la Storia: tra loro e il giovane c’è solo una porta, serrata, e una chiave nascosta: c’è un’ultima esitazione gravida di tentazione: la tentazione di ricucirsi il cordone. Un cordone rinsecchito, da irrorare di saliva in mancanza di sangue, un cordone da attaccare ventre a ventre; un cordone fatto di lana, di lana calda per le notti di inverno e per tutte le notti, quando si è soli e l’ideale non riscalda, quando si è soli davanti ad una porta spalancata, e non c’è madre e non c’è fidanzata a serrarla, e le donne se ne stanno ammutolite a girare in tondo, a trascinare code e passi, a immaginare sassi, e sotto il sasso un figlio un marito, e sopra il sasso, un ideale.
Le due puttane si accapigliano, e gridano quasi.
Sarebbe bellissimo lasciar chiusa questa porta, dice una.
La guerra è guerra, dice l’altra.
Ma l’amore, l’amore!
Ah, se sapessi sparare...
Gli vuoi bene, gli vuoi bene come gliene voglio io.
Ah, che puttana!
Così spunta la gelosia e spunta pure l’amore, spuntano assieme, sì: amore e gelosia si scaldano a vicenda, nelle notti di inverno e di guerra, e insieme sputano sui cordoni rinsecchiti, e insieme ne filano di nuovi e li attaccano alle pance degli uomini e delle donne, e li annodano stretti, nelle notti di inverno. E sul far del giorno, quando la guerra chiama e la Storia crepita, inchiodano le porte, e girano le chiavi una due, trecento volte.

 
 
 

Non cado.

Post n°206 pubblicato il 30 Ottobre 2008 da le_corps

Spalanco gli occhi, le ciglia unte i capelli bagnati appiccicati alle guance alla fronte al collo, dalla nuca colano rivoli di sudore alcuni degradano sui fianchi e puntano l’ombelico altri cavalcano le vertebre incolonnate fino a perdersi tra le natiche. Spalanco gli occhi e tutto si fa bianco mi acceca e sento come un risucchio che parte dallo stomaco, un risucchio che mi scompone articolazione dopo articolazione, che si prende un pezzo per volta, che vuole ingoiarsi lingua e palato.
Spalanco gli occhi e mi sembra di cadere, ma non cado, un pene mi trattiene dal cadere, un pene che mi riempie la fica e mi riscalda la pancia. È fermo immobile, sento il suo respiro premere sulle mie pareti interne: è un’eco interiore, è un respiro di spugna un respiro di mille bocche di mille ventose attaccate alle pareti interne della mia fica, è un respiro nell’utero, è un utero-corpo e un corpo riempito sondato sfinito.
Spalanco gli occhi, e sono due pozze d’acqua azzurrina, e sono gelatina; spalanco gli occhi come si spalanca un sogno, un sogno incastrato nel petto; è un sogno tutto rattrappito è un sogno tutto incurvato, che avevo quasi dimenticato.
Spalanco gli occhi e la fica mi cola, e colo tutta, e mi sciolgo in una pozza di ventre e gelatina: il colare mi fa ricordare, di un sogno, ora tutto inzuppato.
Ma il ricordo è un filamento vischioso, un filamento che non si spezza, te lo avvolgi attorno a un dito, un dito come fuso, e lo fili ad infinito, perché il ricordo è una lunga scia di bava che non si spezza, è un fluire continuo e silente, e non lo interrompi, e la bava si allunga, e le dita non bastano a filare tutta la bava che c’è.
E non basta una lingua, per leccare tutta la bava che c’è: una volta glielo dissi, toccandogli amorevolmente la fronte, ma lui non ci credeva, e leccava leccava, leccava per pulirmi tutta, per ripulirmi dai ricordi custoditi tra le mie gambe: voglio togliere le tracce – lui bisbigliava.
Ma il ricordo è un filamento insidioso, e può legarsi alla tua lingua e filarsi attorno alla tua lingua, fino a farti soffocare – premurosa, io lo ammonivo.
Ma lui non mi ascoltava, perché lui non mi sentiva.
Spalanco gli occhi, e sono in preda ad un sogno, che mi bagna le guance che mi calma la pelle, un sogno di quand’ero bambina, con le gambe spalancate a succhiare l’aria, con le mani spalancate ad accogliere il mondo, e mi sembrava d’essere dio, così tutta spalancata, e mi sembrava d’esser madre, la madre di mia madre, e dei lombrichi, e la testa mi doleva quando vedevo d’esser due e sapevo d’esser due, e la testa mia impazziva quando ricordavo d’esser due.
Ma era un ricordo tutto mio: mia madre non capiva non capiva, ed io immobile giravo giravo, e mi sembrava di cadere.
Spalanco gli occhi, e sono tutta bagnata, i capelli la pancia la fronte, e la fica: la mia fica che pulsa e che mi mette in bocca un’eco; spalanco gli occhi, e mi sembra di cadere; ma no, non cado: infilata ad un pene non cado.

 
 
 

Yo-yo

Post n°205 pubblicato il 29 Ottobre 2008 da le_corps

Papà, ho bisogno di amputare un dito; papà, ho bisogno di amputare un braccio, di amputare un piede e una gamba; papà, devo strappare tutti i nei e dar fuoco a tutti i peli, sì tutti, devo bruciarli tutti e scoperchiare la pelle e farla bruciare all’aria, farla friggere dall’ossigeno; ho bisogno di amputare incidere e tagliare, papà, tu lo capisci vero, vero che lo capisci?
Ho bisogno di arrostire i miei capezzoli di scavare nel mio petto di scorticare l’osso del mio culo, ho bisogno di carne viva di carne vera ho bisogno di un cuore di un centro e di una luce bianca, bianca come latte, che mi nutra come latte, una luce lattea che allatti il mio sguardo, che mi faccia bianca e trasparente come vetro, vetro che non ferisce; ho bisogno di uno sguardo che mi trafigga, papà, e che scongiuri tutta questa opacità.
Tu sai che io non posso più aspettare che da qui me ne devo andare, da questo corpo che inganna e depista e che è troppo e che è poco, questo corpo che do in prestito in uso in affitto e che non sento non muovo non riparo, questo corpo troppo pesante, pesante come la mia anima pesante, questo corpo che mi occlude come una manciata di terra nella bocca come un pugno di pietre nella gola, e no, papà, non è volontà di nocumento non è ricatto non è debolezza, perché io non sono debole, papà, ma forte, così forte da amputarmi una mano e lasciartela sulla tavola prima di partire, la lascerò accanto al mio piatto perché tu mi abbia in cuore guardandola, guardando quel pezzo di me che avrò sacrificato in nome di un ricordo e di un sorriso sfumato, labile sulle tue labbra, e bruciante come pensiero strappato: sì, per questo la mia mano l’avrò strappata al corpo e deposta sulla tua tavola, un tempo nostra: per un sorriso slabbrato per un ricordo rubato.
Ma la mia mano presto smetterà di sanguinare e i tuoi occhi tu li volgerai altrove: tornerai al tuo piatto, a guardare il cucchiaio che si riempie di riso, e il riso che si avvicina al tuo mento, e il tuo mento si abbasserà mentre chiuderai gli occhi e assaporerai un sapore che sa di chicchi sgusciati e di acqua, di lavoro e di terra, che sa di infanzia e di vecchiaia incollate nello stesso piatto, di infanzia e vecchiaia che fumano calde sotto il tuo naso, e sono così calde che al posto tuo io ci soffierei sopra ma tu no, tu le ingoi ad occhi chiusi e le assapori, e cacci dalla bocca un cucchiaio splendente che quasi mi abbaglia, che quasi mi viene un sospetto: che sia quella, la luce, la luce che ancora non sgorga, dal mio corpo smembrato e spolpato dal mio corpo eviscerato ed offerto, dato in uso in prestito e in affitto, questo corpo ripulito e svuotato, spurgato e disinfettato, mondato di ogni sporcizia e diafano per farsi attraversare e sottile e teso come corda da far risuonare, ma non da me, io non son capace di attraversarmi io non son capace di farmi suono, io posso solo sgrossare limare, posso solo tentare di perfezionare lo strumento, grattando via il superfluo rimuovendo la sua opacità.
Amputo sgrosso e limo, per farmi corpo da fendere con lo sguardo, per farmi anima da tendere in fondo ad un filo.
Ma no, che sciocca, io non posso, non posso fare nulla io, perché io non sono niente, perché io non sono e basta, è questa la verità non vista: non esistono confini perché l’io non esiste: l’io è annegato liquefatto dissipato, l’io non esiste: e il mio corpo non esiste perché il corpo non esiste, e la mia anima non esiste perché l’anima non esiste, e quella mano non è la mia mano, perché semplicemente non è una mano, e tu lo capisci, vero papà?
E non hai bisogno di far finta di nulla, perché tu sei il nulla, papà, e quindi sei tutto, e mai, mai t’ho sentito dire io e mai t’ho visto muovere da io, o ridere da io, eppure mi capisci, ora che amputo taglio e sgrosso per rifinire il mio io, sì tu mi capisci e mi capaciti perché tu sei niente e tutto, e ti aggreghi e disaggreghi come chicchi di riso come polvere come suono.
Ma ora devo andare, papà, prima che faccia buio, devo andare più lontano del mare, più lontano del cielo e del mare, più lontano di qualunque orizzonte; sì, ora è bene che io vada, papà, e la mia mano te l’ho data, apparecchiata accanto a un piatto senza fondo, il piatto buio delle mie paure.  

 

 
 
 

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