Creato da le_corps il 27/02/2007

punto sul rosso

il teatro il delirio l'oblio

 

 

Ladri di caramelle

Post n°236 pubblicato il 06 Febbraio 2013 da le_corps

Dopo 16 anni torna. A succhiar giovane linfa. Sente suonare a morto, allora fruga nella memoria alla ricerca di quel volto, di quel nome che, rievocato materializzato, possa allontanare il suo piede dalla fossa. Immagina una rete, fitta sicura, che lo protegga, vi si imbozzola come un infante foderandosi le maniche di ovatta. Si fa allungare il ciuffo canuto perché morbido gli ripari il collo, dal soffio della morte che pare essere nei pressi. Sciorina l’elenco di quelli andati, fidati amici e sodali e lei, quella donna amata e tradita compagna di una vita e di una casa in mezzo a un boschetto su una collinetta dopo un ponticello o forse due. Una volta il tetto si ruppe, l’acqua piovana si infiltrava e gocciava, infradiciava il legno a poco a poco e le travi si ingrossavano; lui disse “Lo riparo io!” ma era troppo basso e lassù non arrivava, “Lo riparo io!” ripeteva con sicumera ma lei non vi badava mentre nel cantuccio asciutto della cucina rimestava limoni come in insalata e annaffiava le sue voglie di scotch. Quando lui la lasciò non fece una smorfia, aggiunse solo un cubetto di ghiaccio.

“Lo riparo io!” bofonchiava finché non arrivò il conto, il conto degli anni: il buco s’era fatto voragine e aveva inghiottito uno ad uno tutti i suoi cari. Così se ne andava per le strade della città veneranda, con in bocca l’elenco di tutti quelli che erano mancati, mancati a catena. Anello dopo anello la catena s’era fatta corta, allora lui l’allungava con la memoria e qualche balzo di fantasia, non ho poi chiesto in cosa consistessero questi balzi, se in deliri da Vate o senili onanismi onirici. “Non è più come prima, non è più come ai (nostri) tempi”, e quell’aggettivo – nostri – se ne stava protetto tra due parentesi, due parentesi come segno di cura, di intima intesa, come dato inoppugnabile di complicità perenne.

L’inclusione è un arbitrio, talvolta. Un arbitrio della memoria che suona come musica fuori tempo, fuori dallo spazio condiviso concordato. Tra due parentesi, per me, c’è solo un buco: un buco e un sibilo.

La tirannia del tempo gli impone la “vecchiezza per davvero”, come la chiama lui, pane e vecchiezza tutti i giorni fin quando non sarà pane e morte. Cerco un alito alto, di scovare una riflessione filosofica latente che sciolga la patina di ridicola commiserazione in cui s’è avvoltolato, ma mi scontro con la litania dei nomi, col guizzo floscio di un saltimbanco anchilosato.

L’inclusione è un arbitrio, talvolta. E anche la memoria, questa coperta soffice e calda che ci ripara le ossa, che ci mantiene vivi, forse migliori di come eravamo, magari più alti, abbastanza alti da riparare il tetto, abbastanza alti da vederci allo specchio. Uno specchio “per davvero”, magari, dove la coperta è un cencio sbrindellato, il guizzo un peto, e il cazzo un timone che ci ha portati in alto mare: senz’acqua, con solo il ricordo dell’acqua, ma con in tasca un fiore: un narciso, un narciso splendente.

 
 
 

Passé composé

Post n°234 pubblicato il 24 Maggio 2012 da le_corps

Appoggio le dita sulle tempie, con i palmi premo sugli zigomi e tiro: la pelle del viso si tende, l’occhio si allunga, gli zigomi si spianano, gli angoli della bocca si alzano. Mi guardo nello specchio del bagno: quanti anni avrò perso? Allento lentamente la pressione, lascio che la pelle si ricomponga ruga per ruga senza fretta: un movimento troppo brusco la farebbe spaccare, fendere, smagliare.
Sono una persona superficiale. Le superfici a volte sono così profonde che mi ci perdo. Non di meno resto superficiale. In senso descrittivo, non morale –chioso a me stessa, ma non so esattamente cosa voglio intendere e se intendo solo darla a intendere.
Non credo che le parole siano importanti quanto le superfici, ciò che è, è prima ancora delle parole.
Forse era stata mia madre a tirarsi con le mani la pelle del viso anni or sono: una volta, non di più, e il gesto si era stemperato in una piccola risata dissimulatrice. Come se guardarsi nello specchio e fare qualcosa di sciocco  per arginare il tempo e la sua erosione fosse una cosa sciocca.
La figlia che guarda registra il gesto ma non il suo significato, per quello c’è tempo. Ma quando arriva quel tempo la figlia si dice “non ero preparata”. La figlia cresce trascinandosi dietro una valigia di immagini sempre più pesante, talmente pesante che un giorno la issa su un parapetto e con una spinta la fa precipitare nel fiume, dove si ingrossa ma non affonda, non affonda mai e torna, per essere trascinata ancora, più pesante di prima. Allora la figlia, invece di maledirla, la apre. E inizia così a non essere più figlia.
Le superfici parlano. Se qualcosa significa con prepotenza, ci cattura e coinvolge, allora diciamo che parla. Soggiaciamo alla dittatura simbolica del verbale: quel corpo parla. E invece no, il corpo sta zitto, e anche quando è fermo, si muove, è carico, carico di energia; anche quando è lasso su un giaciglio, infermo e svuotato, anche lì, il corpo è, e per essere non ha bisogno di parole, le parole sono pleonastiche non necessarie: nel voler dire, tolgono; nel voler esprimere, disperdono. Il corpo è la superficie delle superfici, e non sarà mai ottuso.
La ruga è profonda, l’osso sfuggente e un dente le manca. La madre non dondola più il piede davanti alla tv, le tremano le rughe della bocca mentre se ne sta con la bocca all’ingiù e guarda nel vuoto perché solo nel vuoto trova un po’di pace, una tregua gentile dalle spire del presente, ah il presente questo sconosciuto, a lei sconosciuto, eppure c’è perché stringe e schiaccia, se ne accorge quando le manca il respiro; prima c’era il passato a distoglierla dal presente, a colmare la lacuna del presente, ma il passato è diventato un buco nero, come se, come se non fosse stato mai vissuto. Non ha più un posto dove andare, la madre, le restano solo parole, un accumulo di parole che si ripetono,che si ammucchiano in una massa vociante che rimbomba nel vuoto e lo accresce, lo infetta. Anche nel vuoto, la madre, non è più al sicuro.
Nessuno è più al sicuro, ora che l’infezione galoppa, ringhiando, e fa precipitare il tempo e disgrega tutte le coscienze, quelle vere e quelle false, ora che l’illusoria linearità è saltata e le parole, inutili, non riescono a ricomporla, inutili sì, perché si divorano tra loro defecando altre parole, parole infette.
Anche la parola madre è infetta, la parola della relazione primordiale, della relazione per eccellenza. E quando si infetta la parola madre …
Saltano tutte le connessioni, si banchetta ognuno al proprio tavolo, ognuno cannibale di se stesso, ognuno col suo nome scritto alla voce “piatto del giorno”, del giorno presente, e di quelli a venire.
Basterebbe radunare poche parole, farne un fagotto e lasciarle lì, mute, riposare, riposare il tempo che basta, che basta alle superfici per tornare a parlare.


 
 
 

Baci di dama

Post n°233 pubblicato il 06 Aprile 2012 da le_corps

Gli cadono i peli dal petto, così mi accorgo che sta diventando vecchio. Impigliati tra i fili di cotone: così li trovo. Come in una rete, che li raccolga e li ributti in petto. Ma in petto non si torna. Poveri peli, tumulati nelle tubature.

Ho una vasca teuco dove fluisce il mio sangue bordeaux, anzi, chinato. Lascio che righi il fondo e che si aggrumi, se troppo denso, e che grumo dopo grumo guadagni lo scarico e nelle tubature si perda invischiandosi con fagotti di peli di petto. La vasca teuco è sufficientemente profonda e capiente, anche troppo: se mi siedo gli occhi rasentano il bordo, potrei annaspare da seduta se qualcuno, riempiendola fino al bordo, non mi gettasse una ciambella di conforto. Ho buttato via tutti i tappi, non si sa mai.
L’inconveniente dello stare seduti a far fluire sangue a far fugliare altrui intenti è che il culo mi si gela. Illividisce assieme alle unghie dei piedi, che tendono all’estremità senza toccarla. Benché si allunghino nell’attesa.
Sulla finestra batte un sole che mi scalda per ostinazione, e dal sangue fuoriuscito sale un afflato di tepore.
Mi svuoto lungo un rigo ora in piena ora in secca in cerca di una foce. Mi svuoto con solenne dedizione all’inerzia, mi svuoto tramite me malgrado me, organica a me stessa; senza possibilità di modificare il tempo.

La mia amica si controlla ogni mese le tube di fallopio se mai si fossero ostruite per capriccio o per dispetto.
Si ingraviderebbe col pensiero, se potesse. Non escludo che in passato ci abbia provato e che mi abbia contattato telepaticamente per chiedermi di fare da madrina. Io di parto non so niente, abito nelle vasche quando posso e non aspiro a tornare pesce. Lei sa tutto perché lo legge nei giornali che a una certa età bisogna figliare. Ogni mese si controlla le tube e si sposta l’età, ma non per ipocrisia – ci tiene a precisare.

Poveri peli cadaveri, no, in petto non si torna.

 
 
 

Il Neige Sur Liège

Post n°232 pubblicato il 02 Febbraio 2012 da le_corps

Ci sono solo io, con i piedi assiderati e un ombrello in mano: nevica. Le rotaie del tram sono lucenti di ghiaccio. Ci sono solo io, e aspetto. Anzi, siamo io il silenzio e la neve, e aspetto comunque. La città è soffice sotto la neve, ovattata e senza persone. È lenta.

Un uomo attraversa la strada e si ferma sulla banchina. Io ho l’ombrello, lui no. Fa qualche passo verso di me. Porta avanti la testa come per schivare la neve che si è già depositata sui capelli radi e ricci, e sulle spalle. Mi guarda, sollevo l’ombrello per dargli riparo. Il mio è l’unico ombrello di viale Ungheria, è tardi e ci sono solo io il silenzio la neve e il mio ombrello. Ora siamo in due, ad aspettare il tram. 

Ha una giacca di pile, in una mano la scatola di un cellulare, un dente d’oro e una fronte spaziosa. Naso affilato occhi piccoli e accesi. Sei gentile, mi dice. L’accento mi ricorda quello del mio amico albanese che non vuole più parlarmi. Lui invece vuole parlarmi, per farlo mi chiede il permesso. Dividiamo lo stesso ombrello, quindi parliamo.
Della mia gentilezza, dei miei occhi molto belli e della mia bella dentiera – dice così – e a me vien da ridere perché ho tutto fuorché una bella dentatura: è impossibile non notare, nel mezzo, questi due denti sporgenti e bene accavallati.
Un altro che aveva elogiato i miei denti era stato Christian. Tu as des beaux dents, mi disse una sera, a fine turno, mentre pulivamo la cucina del ristorante. Era del Congo e lavorava come lavapiatti. A fine servizio, coi fuochi spenti, e uno straccio per mano, si parlava in francese. Cose nostre, parole che volavano sopra la testa del cuoco, tanto il cuoco era uno stronzo.
Forse agli albanesi e ai congolesi piacciono i denti grandi, ho pensato.
L’uomo che sosta sotto il mio ombrello mi ripete che sono gentile a mo’di ringraziamento, anzi, di congedo  perché lui, tanto, è arrivato, e mi indica con la scatola del cellulare l’altro lato della strada. Indica, ma non si avvia.
Va bene, non sei uno che aspetta il tram, attraversavi la strada per andare di là e ti sei fermato qua, nel mezzo, mentre andavi di là; e allora vai, che io me ne torno da sola ad aspettare il tram. Sola: io la neve il silenzio e il mio ombrello. È buio, la strada è desolata, anzi no: è magnifica, così vuota e disabitata.
Cerco di capire se ha bevuto, in quel caso sarei perentoria, mi basterebbe un’occhiata per spostarlo di peso all’altro lato della strada, ma il suo fiato non sa di alcol. E i suoi occhi sono accesi.
Dove vai?
A casa, gli rispondo. In centro. E indico la direzione del tram.
Ma il centro non è di là? E indica la direzione opposta.
Sì, ma il tram passa di là, fa il giro largo, allunga, ti porta fuori e poi dentro.

Non è lineare, è contorto. Viaggiare sul tram mi piace. I binari non consentono scarti ma solo scambi. Lo scambio è il massimo della divagazione; stare sui binari è, dopo tutto, rassicurante. Contorsione e linearità unite a rigidità, ché nella vita ci vuole anche quella.

Occhi come i tuoi non ne trovo in giro nemmeno su cinquemila. Sei gentile e begli occhi.

Forse sono un po’seccata, distolgo lo sguardo e lo faccio girare tutto intorno: intorno solo neve e buio, buio interrotto dai riflessi di luce sulla neve; cerco di indovinare il muso metallico del tram dopo la curva ma dopo la curva, solo binari vuoti.
Sì, sono un po’seccata e allora contrattacco nella speranza di spezzare la litania dei complimenti, e domando: di dove sei?
Davvero ti interessa? – indaga lui, fissandomi obliquo.
Di dove sei? – ripeto, convinta.
Lui allarga le braccia: sono zingaro!
Ok. E di dove sei? – insisto.
Ridente e sconsolato si guarda attorno, solleva le spalle come per dire “come di dove sono?” – e ripete: sono zingaro!
Giusto. Allora riformulo la domanda: da dove vieni?
Si tocca il petto con la mano libera: serbo!
Giusto. Non si è di un posto, si viene da e si va verso.
Serbo – ripete l’uomo, sollevando le sopracciglia come per dire “e adesso?”.
Resto in silenzio, avrei giurato che fosse albanese, quell’accento, quel suono così familiare di quel amico che non vuole più parlarmi…
Mi sto appena scaldando al fuoco di questa piccola delusione che lui subito mi incalza: sai dove è Serbia?
Avrei detto Albania – non gli rispondo, dico la mia. Quasi a voler condividere con lui quella piccola digressione spazio-temporale in cui ero precipitata.
Io sono ortodosso, e sfila dal petto, come prova, una croce. E continua: gli albanesi sono…
All’unisono: musulmani.
Serbia e Albania, e tra di loro il Kosovo.  Mi domando se non era il caso di tenere per me quella piccola delusione.
Lui mi fissa, fermo sulla banchina e imperlato di neve, senza la protezione del mio ombrello già da un po’. Poi alza un dito per richiamare la mia attenzione su quello che sta per dire, lo dirà lentamente mettendo le pause nei punti giusti perché io possa capire.
“Tutto ciò che è ciò, non è ciò che è ciò”.
E accompagna la frase con la scatola del cellulare che prima porta in avanti e poi richiama indietro.
Hai capito, sì? – mi sollecita.
Non proprio, allora lui me la ripete con maggiore enfasi e, se possibile, lentezza perché il gesto possa spalancarmi le porte del senso.
“Tutto ciò che c’ho non è ciò che c’ho”.
Di quale senso? Il senso della frase? Il senso della vita insito in quella frase?
Ma io non ho molta dimestichezza col senso di cose così importanti, ultimamente mi basta conoscere il senso del tram, quello sì che lo conosco e lo so spiegare, come infatti l’ho spiegato allo zingaro. Cose inutili. Tanto uno zingaro che se ne fa del senso del tram? Se il senso te lo porti dentro, la strada la trovi, e se la strada non c’è, la cominci; e se ti perdi trovi qualcos’altro.
Stordita ma non persuasa, alla fine dico di sì, di aver compreso.
Vuoi che me ne vada?
Distolgo lo sguardo e penso “cosa voglio?”.
Si avvicina di poco, per confidarmi una cosa.
Tu pensi che tutto questo, e indica lo spazio intorno a noi, tutto questo, il visibile, sia il mondo? E che sia il mondo a venire da noi? No, il mondo è qua, e parte da qui - abbassa la testa e si tocca due volte la fronte.
Vuoi che me ne vada?
Dico di sì con la testa.
Davvero?
Sì.
E non mi dai il tuo telefono?
No.
Io sono arrivato, vado di là. Spero di rivederti magari non qui, chi lo sa. Si incammina dicendomi: occhi belli, neanche una su cinquemila.
Poi si allontana, coperto da cristalli di neve.

 

 
 
 

Audizioni

Post n°231 pubblicato il 31 Ottobre 2011 da le_corps

Mi prendi non mi prendi, mi scopri non mi scopri. Sento i tuoi passi sento il respiro che si avvicina e resto ferma: fermo le mani fermo i capelli fermo il cuore: non esisto: sono muro pianta intonaco legno. Mi trovi non mi trovi; aspetto. Fruscio scricchiolio, neanche tendo l’orecchio, sicura del mio non essere anzi dell’essere altro: non mi troverai non mi troverai. Niente più carne niente più fiato ma sono viva, viva altrove. Passi e ripassi, con circospezione, dissimuli i passi, sparigli il conto dei gradini, tendi i muscoli, fletti la schiena ma non mi trovi. Getti un sasso nel pozzo, ma non mi trovi.

Se fossi edera mi strapperesti se fossi albero mi abbatteresti.

Seduta a terra con mutande turchesi mi dondolo nell’attesa del vicino ma il vicino è partito ieri notte; ha svuotato casa e ha appeso un lume sul mio balcone. Mi dondolo nell’attesa, mi dondolo finché il lume non si spenga, la portinaia è grassa come tutte le portinaie e non guarda di buon occhio il mio zerbino, mi infila lettere sotto la porta e batte contro gli stipiti quando io non ci sono: l’ha sentita il vicino, prima di partire. Prima di partire mi aiutava con le buste della spesa, si precipitava per le scale e me le strappava di mano: ho ancora un graffio  sul dorso della mano. La portinaia non vedeva di buon occhio le mie buste della spesa, al tintinnio delle mie chiavi nel portone si irritava e emetteva un sibilo tipo lupa sdentata.


Entrare uscire non fa per me, ogni giorno tutti i giorni, meglio starsene appesi come un lampadario: acceso spento senza la fatica di girare l’interruttore. Prego, non mi disturba, mi interrompa pure, sono qui a posta, sono fatta per essere interrotta. Dall’in piedi allo stare seduta il passaggio non è fluido: ripetere, prego.
Quanti candidati ci saranno alle selezioni, quante selezioni ci saranno prima che io mi candidi? Sette prove, una al giorno, e se mi chiedono di mimare mimerò un lampadario: passo di sicuro. Ho la vittoria in tasca, in una tasca che avevo cucito di notte ma era buio e non ricordo dove. E poi c’è la voce, da sostenere. Ma la voce non ci sta, vuole farcela da sola, ma da sola non andrà lontano.


Insomma, il tipo non mi chiama ed io parto, con le ciabatte che portavo e le mutande che portavo, per fortuna erano di pizzo. Sul treno mi sono fatta una treccia che ho adagiato sulla spalla sinistra. Per fortuna le unghie dei piedi erano rosse di smalto. Mi scarrozzo da sola, di carrozza in carrozza. Sto, di bagno in bagno, aggrappata alle maniglie, lo specchio mi guarda, gli sorrido. I minuti ingrossano le ore, a terra; sul treno, le ore sono noccioline da sbucciare: sibilo fermata, sibilo frenata e fermata. La porta è chiusa, vorrei sbirciare da sotto le ciglia chi passa e non entra ma occorre prudenza, ho la pancia piena di noccioline, aspetto. Ancora uno stridore di binari una frenata e una fermata. Scendo: ciabatte mutande di pizzo e occhi spalancati, fendo l’aria magnifica, magnifica io, stavolta ti prendo, son venuta a prenderti; con la mia lunga treccia spalanco le porte, sono treno da treno scesa; spalanco i bagni, non ho più bisogno di nascondermi, e vengo a prenderti. La mia treccia mi porta a te.

 
 
 

Il cielo sopra R.

Post n°230 pubblicato il 14 Gennaio 2011 da le_corps

Prima R. faceva il pasticciere ma dice che era un lavoro di merda, ora sta seduto davanti ad un monitor dieci ore al giorno con cuffia e microfono come naturale prolungamento del suo corpo, la lunghezza del cavo che lo lega al telefono è la lunghezza della sua autonomia, il cavo definisce un raggio di azione, gli permette di stare in piedi, di girarsi a destra a sinistra e di arrivare fino al cestino della spazzatura che s’affaccia sul corridoio che costeggia la grande vetrata della grande facciata aziendale. Oltre il cestino, no. Il cavo lo richiama, e con un colpo secco lo riconduce nello spazio assegnato, deputato, concesso: la postazione. O, meglio, position: come vuole il gergo aziendale.
Linguaggio condiviso, lo definiscono.
Siamo qui perché condividiamo valori e obiettivi, perché cooperiamo al fine di ottenere un vantaggio reciproco. Se lavorate bene, sarete premiati. L’azienda è buona e meritocratica, incentiva la produttività e la ripaga, e vi ripaga: in busta sonante, in ricchi premi fuori porta e cotillons.

Tecnicismi del potere. Così si esercita il controllo, così si segna un confine tra il dentro e il fuori, così si crea senso di appartenenza, così si insinua nelle persone un frainteso senso di grandezza, di elevazione rispetto ai non addetti ai non ammessi agli esclusi. Il possesso del gergo è degli inclusi, agli esclusi lo smarrimento dell’incomprensione, della mancata padronanza. Agli inclusi, la padronanza. Di un’illusione. Che però è necessaria. A chi comanda e a chi si fa comandare.

R., se solo riuscissi ad alzare lo sguardo al di sopra della tua position, del backlog e del change order, della prevention e della retention, dei seekers della final rush e dell’action nba; R., se solo pensassi di alzare lo sguardo, se solo volessi. Invece no, la position satura il tuo orizzonte, i tecnicismi ti galvanizzano: ti senti padrone, ti senti potente, ti senti fautore del tuo presente. Sei tu con i tuoi obiettivi, sei tu in gara con te stesso e con gli altri. Vendere vendere vendere.
Il tuo capo è un team leader, un cefalo che guida una massa di acefali, e ti sprona a suon di remunerazione progressiva e d’incentivi a cascata, solletica il tuo ego con righe e colonne di risultati comparati, traccia la linea delle tue possibilità di crescita, allarga il margine del miglioramento, dilata le pareti del tuo stomaco, nutrendo la tua voracità, benedicendo la tua ingordigia: di divorare obiettivi non sarai mai sazio: l’ipnosi è servita.
Sei un animale in cattività nutrito con carne di altri animali, sei strumento di una causa più grande di te, di interessi che non osi neanche immaginare. Il tuo orizzonte è segnato, obiettivo dopo obiettivo, mese dopo mese, retribuzione dopo retribuzione. Stai lì a contare quanto hai fatto, quanto hai fatto più degli altri, stai lì a impilare centesimi su centesimi sperando di arrivare a 1, e poi da 1 a 10, da 10 a 100: da 100 a 1000 il salto è dovuto, è scritto nel tuo destino di vincente.
Un vincente predestinato, ecco cosa pensi di essere. Un vincente che più lavora più incassa. Un vincente ammaliato dalle somme. Somme di spiccioli in cambio di dedizione totale all’Azienda. I cui profitti sono per te non conteggiabili non contenibili. Sei padrone di una aritmetica lenta, elementare, fatta solo di addizioni: la moltiplicazione ti seduce ma non è alla tua portata, mentre l’elevamento a potenza è di un mondo sconosciuto favolistico. Si narra di profitti di n cifre, si narra di incassi che in una tasca non ci stanno, ma nemmeno in una valigia o in un vagone, ma nemmeno in un treno lungo da qui alla Svizzera.
Sei un vincente, sì. Pagato a cottimo.
Non ti dice niente questa espressione? Non ti dice niente la Storia, la Memoria? Dopo tutto, l’unica memoria ammessa è quella dei mesi precedenti, utili per il calcolo degli obiettivi futuri. Ogni obiettivo è un termine. E ogni termine superato lascia il posto al successivo finché i termini saranno esauriti e tu ti ritroverai nel fuori, espulso dal dentro, incredulo, senza famiglia, senza casa, senza più obiettivi. Con il ricordo di un gergo che suonerà come un’umiliazione: il potere è nell’usarlo.
Avrai vissuto mese dopo mese, stipendio dopo stipendio, dentro la tua position, mantenendo il conto dei centesimi ma perdendo il conto dei giorni.
Il tempo risulterà sottratto e non ci sarà straordinario alcuno con cui recuperarlo, ti ritroverai in tasca il gruzzolo delle ferie non godute in nome della produttività, e lo spenderai in lezioni di algebra perché ti accorgerai che lo zero non era il peggio che ti poteva capitare (zero incentivi, zero bonus, zero straordinario). Scoprirai che prima dello zero c’è un insieme infinito di numeri, numeri che portano un segno meno, gli unici numeri che d’ora in avanti potrai sommare. Ma scoprirai che somma dopo somma quel segno non si toglie, che somma dopo somma ti allontani sempre più dallo zero, cadendo all’indietro sempre più indietro.
Allora la somma sarà per te un incubo e vorrai aggrapparti a quello zero come ti aggrapperesti all’orlo di un precipizio, e allora solo allora, forse, penserai che è giunto il momento di cominciare a sottrarre.

 
 
 

Auguri

Post n°229 pubblicato il 04 Gennaio 2011 da le_corps

Per il nuovo anno ricevo un messaggio di auguri da Pierre: creare è resistere, resistere è creare (Stéphane Hessel). Sotto la frase, l’immagine di un'opera di Pierre. Installazione, la definirebbe qualcuno. Ma ciò che è nuovo ha bisogno di parole nuove. Movimento nella fissità, ovvero il montaggio dentro il quadro. Ma non si tratta di quadro né di fotogramma: è un’idea che balena, s’affaccia compiuta e poi scompare, si disfa, mutandosi in qualcosa di altro. Arte impermanente, grazie al movimento di idee. Arte che non si affeziona a se stessa, unica nel germe e non nel sembiante, fissa come chiodo piantato nella testa dell’artista ma scomposta e ricomposta nel gioco del linguaggio che si ricombina incessantemente per restare vivo.
Prima dello spettacolo teatrale la regista ha ritenuto necessario dire due parole di presentazione. Ha ritenuto necessario dire che a lei e al suo Teatro (lo scrivo con la maiuscola perché così è stato pronunciato) interessano le permanenze, di cui – ha aggiunto – c’è gran bisogno oggi.
Da spettatrice, ho guardato, ho cercato le permanenze, ma non le ho trovate. O meglio, a fine spettacolo è rimasta solo la permanenza di un disastro. Non c’è bisogno di altri disastri oggi – ho pensato, e sono uscita.
Avrei voluto chiedere alla regista quale fosse la sua idea del mondo della vita della morte e dell’arte, cosa pensasse al di là di ciò che aveva studiato imparato e messo in pratica.
Mi rendo conto però che il concetto di “al di là” non è alla portata di tutti (me compresa) e che ciò che facciamo e che abbiamo fatto è un recinto, non ne vediamo i confini ma è pur sempre un recinto.
Mi rendo conto che non ho nessuna voglia di chiedere alcunché. Mi rendo conto di essere depressa e refrattaria al confronto, e sono uscita.
L’aria è gelida. Penso al mio recinto, a come si sia ristretto, penso addirittura che se sto in piedi è perché è il recinto che mi sorregge. L’aria è un punteruolo tra gli occhi. E allora penso a cosa farebbe Pierre con questo recinto, a come lo trasformerebbe, anzi no, a come mi suggerirebbe di trasformarlo: ognuno lavora il materiale della propria vita, e anche trasformare è resistere.
Ma io resisto, Pierre? Dopo tutto resistere è anche esistere. Vivere nel recinto non è esistere: è solo vivere, appunto. Mentre esistere vuol dire altro, il suo opposto: fuori dal recinto. Le parole vorranno pur dire ancora qualcosa. L’ancora è un’àncora, Pierre. Dillo come lo diresti tu: exister. Ecco, vedi, nella tua lingua tutto è più chiaro: ex-ister.
Dobbiamo uscir fuori da quel recinto, è questo il senso – oggi – del nostro resistere. Nessuna creazione che sia vera creazione è possibile altrimenti, è possibile altrove.
Disfare per rifare, la creazione è movimento, la creazione che si cristallizza è morta, ha abortito la sua missione e il recinto ha vinto.
Vorrei tornare indietro, prendere da parte la regista e chiederle di indicarmi le permanenze, di farlo letteralmente: di puntare l’indice. Sarebbe un’azione a fin di bene, una risemantizzazione a fin di bene.
Ma no, non ho nessuna intenzione di tornare indietro né di dire alcunché.
Dire cosa perché? Non è vero, Pierre, che le parole arrancano? Dove sono le parole buone, come faccio a dire parole buone, che abbiano un senso? Troppe parole ammucchiate, spostate da una parte e poi dall’altra, che sbattono l’una con l’altra, che si sommano per accrescere il vuoto. Ammassi di rifiuti di parole lungo le strade, dentro le case, tra le persone. Parole brutalizzate e perse come, come cosa Pierre?
Come il corpo di una donna, violentato e abbandonato lungo la via.

Ecco, Pierre, tu hai sempre un’immagine che mette a tacere il dire.
Sono stanca, Pierre, vorrei che il tram arrivasse ora e mi strappasse a questo freddo, a questo vuoto, a questa refrattarietà che mi farà vivere e morire nel mio recinto, di cui non vedo le pareti, che mi farà vivere e morire contenta, tra la cena da scaldare e i piatti da lavare.
Il recinto è uno spazio comodo, il recinto è un seduttore, mellifluo come tutti i seduttori. Tu resisti. Sempre. Siamo donne e uomini in quanto resistiamo e trasformiamo: è questa la nostra permanenza.

Grazie, Pierre. E auguri.

 
 
 

Mosche filanti

Post n°228 pubblicato il 18 Novembre 2010 da le_corps

Evito il bianco per un disturbo di visione. Il bianco ha perso nitore e fissità. Davanti alla pagina bianca i miei occhi si ritirano offesi.
Evito di scrivere per non mortificare i miei occhi, ed evitando di scrivere mi evito anche di pensare. Non penso a scrivere e non penso a cosa fare, non penso al presente tantomeno al futuro. Al passato, sì, visto che quello è stato già scritto. Se non scrivo, non penso. Non penso a nulla.
Quando non pensi a nulla, ti restano solo delle percezioni, ma minime, grezze, con tutti i limiti di una percezione senza elaborazione. Quando non pensi, ti restano solo delle registrazioni. Tavolo duro quadrato, luce accesa, luce spenta, sedia girevole: e queste sono le cosiddette registrazioni oggettive, ortodosse.
Poi ci sono quelle distorte, anomale tipo: specchio riflettente, mano destra mano sinistra, piede/scarpa.
Queste ultime sono regressive, sono da alienazione al penultimo stadio. Perché all’ultimo puoi solo registrare l’attrito aria/corpo mentre sei in caduta libera dal quindicesimo piano di un palazzo.
Quando non pensi a nulla, registri. E questo pensiero non è un vero pensiero ma a sua volta una registrazione. E scopri che con le registrazioni ci puoi anche vivere, che per vivere non occorre pensare. Non pensi nemmeno se ci sono degli altri che come te vivono di registrazioni. Se registri, non pensi. A nulla.
Ma dire nulla è fuorviante se non paradossale, e invece non c’è nulla di paradossale. Per cui è corretto dire: se registri, non pensi. Punto.  
Ciò non vuol dire avere la testa vuota. Anzi.
La testa è piena. Ma di scontrini.
C’è uno scontrino per tutto. Scontrino-ore, scontrino-frigo, scontrino-lavoro, scontrino-cinema, scontrino-macchina, scontrino-emozioni, scontrino-amici, scontrino-sesso.
C’è uno scontrino per tutto e nessun prezzo. E nessun costo, perché lo scontrino è senza carta e senza inchiostro.
A voler essere puntigliosi, però, una forma di costo c’è: l’usura.
I miei occhi si stanno usurando. Il medico mi ha prescritto delle vitamine in bustina, e lo ringrazio per avermi offerto questo palliativo. Palliativo. In questa parola c’è un giudizio, quindi un pensiero. Se usi la parola palliativo la tua mente sta organizzando la realtà su piani diversi, quindi sta pensando. No, non sto bluffando, mi sono solo distratta. Ho emesso un giudizio perché so. So che a questo disturbo non c’è rimedio. Ed è per questo che il palliativo non lo mando giù. Qualcuno la chiamerebbe consapevolezza, cadendo in errore. Qualcun altro interferenza, facendo centro.
Il medico, scrupoloso, mi chiama e mi chiede se prendo le bustine.
No, è la mia risposta registrata in diretta.
Che la vita di chi non pensa sia una diretta differita lo sto registrando adesso, non c’è trucco e non c’è inganno, giuro di non averla pensata prima. Dopo tutto io non penso. Registro.
Ma i miei occhi sembrano più affaticati di prima, li sento muti, li vedo spenti. Li ho registrati allo specchio questa mattina cercando di non essere vista mentre mi lanciavo manciate di acqua fresca in faccia.
Per questo ho chiamato il medico e chiesto consiglio.
Usi dei fogli colorati, provi con l’amaranto, vedrà che la sua vista ne gioverà.
E così scrivo sul monitor amaranto, su carta amaranto, su muri amaranto.
I miei occhi se la ridono, se la ridono di questo palliativo. Se la ridono e tra di loro sghignazzano ma a me vogliono fare coraggio e allora mi dicono di apprezzare molto questo rimedio, dicono che così potrò disfare il cumulo di tutti gli scontrini, disperderli, bruciarli; dicono che così potrò sgomberare, pulire e fare spazio, spazio, quanto più spazio posso. A tutto il vuoto che c’è.

 

 
 
 

Meteo

Post n°227 pubblicato il 28 Settembre 2010 da le_corps

Quando sai che sta per succedere?
Quando non avverto più le braccia, le sento pesanti e intorpidite, e le mani si chiudono a fatica. La scossa va dalla spalla al gomito, poi si ferma, poi c’è solo pesantezza torpore. Penso a quando si chiuderà la gola, i muscoli diventeranno rigidi, il corpo sarà scosso da tremore ed io mi dirò: eccolo.
Eccolo cosa?

Il panico.
Riesci a pensare a cosa c’è prima del panico?
Non saprei. Sono tranquilla prima, anzi, ho sistemato qualcosa, fatto una telefonata, portato avanti un compito, risolto un problema, ricevuto un vantaggio o limitato un danno. Ma non è sempre così. Oggi era così. Credo che la morte sia nascosta in qualcosa di sciocco e che sia totalmente imprevedibile.
Pensavi alla morte quindi?
No, ci ho pensato dopo: a come si produca scioccamente a come si prepari in modo semplice insospettabile quasi innocuo. Cose innocue ti preparano la morte, che sia poi lenta o fulminante. Un conto è l’esecuzione, un altro la preparazione. Conti diversi con lo stesso risultato. Cose innocue dall’esito mortale.

Stai vedendo le cose chiaramente ora?

Ora no, ora mi rilasso e basta. Il tremore è scomparso, lo stomaco respira, mi dico: è passata.
Le cose chiaramente le vedi solo nel prima, più esattamente vedi che c’è una sconnessione tra la tua mente e il corpo. La sconnessione prodotta dalla perdita di controllo quando non l’avevi nemmeno messa in conto: non stavo ingerendo dosi massicce di alcol, non stavo assumendo nessuna sostanza chimica che potesse alterare il mio sistema nervoso, dunque non l’avevo messa in conto né la cercavo. Non cerco la perdita, ma questo pensiero si palesa, oggettivando la mia ansia di perdita, solo nel panico. Senza panico il pensiero non c’è, rimane solo la sua verità. E se non fosse vero non potrebbe produrre gli effetti che pure produce.
E’azzardato.

Cosa?

Questo collegamento. E surrettizio. Non sempre è la verità a produrre effetti.

Che cazzata sofista.

Mi spiego: quello che per te è vero, è solo reale. E dovresti aver capito che il reale può essere anche falso, il reale può essere ciò che vuole. L’aspirazione alla realtà è fallimentare in nuce. Ma noi cosa facciamo? Invece di sopprimerla, la alimentiamo la facciamo crescere, e lei cresce a tal punto da occupare tutto lo spazio della verità. La realtà è un parassita. Parassita del vero.

Il panico dunque è solo reale? Ah, bene, questo mi conforta.

Dovrebbe. Lascia stare l’ironia. Anche l’ironia, dopo un po’ti lascia a piedi. E’una bella macchina, ti può portare anche lontano, ma rischia di lasciarti a piedi poco prima di arrivare a destinazione. E cosa è più importante, andare lontano o arrivare a destinazione? Tanto più che le destinazioni non sono mai vicine.

Opinabile.

No, irreale ma vero. Cos’è questo casino?

È fuori; gente che strepita.

Come ti senti?

Bene. È passato. Non mi succedeva da tempo. Sentirmi impotente su di me. Il corpo è altro da me o solo più intelligente di me?

È la natura, cara. La natura non sarà mai domestica non sarà mai asservita alla cultura.

Quindi?

Il panico è il respiro del mondo.

Basta, è troppo.

Pensi ch’io mi stia burlando di te?

Un po’.

Mi viene da sorridere ma sono serissimo. Ci pensavo ascoltandoti. Il mondo respira prima di noi e più profondamente, noi ce ne dimentichiamo e allora lui si fa sentire, facendoti sentire: ti butta fuori da te. Non c’è modo migliore. Altro che immersione da psicanalisi o regressione da ipnosi. Basta con questa chirurgia del ricordo. E’tutto scritto nel nostro corpo e il corpo sa come e quando rendere leggibile il tutto. Ascolta la perdita, e tutto andrà bene.

Ti do retta solo perché sono nel dopo. Se avessi sentito queste cose un quarto d’ora fa, sarei stramazzata a terra per overdose di ossigeno.

Non è un caso che stiamo parlando nel dopo. Le connessioni sono intelligenti, malgrado la nostra ottusità.

Sì, spesso è così che mi sento: ottusa. Ricoperta da una patina vischiosa.

Anche adesso?

No, adesso qualcosa si muove.

Bisogna sdoppiarsi per tornare uno. Uscire fuori per vedere meglio dentro, se magari c’è rimasto qualcuno intrappolato: quasi sempre c’è qualcuno, e quel qualcuno siamo sempre noi.

Sì, mi sdoppio facilmente, mi butto fuori e, una volta fuori, scappo!

Piantala. Anche nello sdoppiarsi ci vuole una certa onestà.

L’onestà di non raddoppiarsi. In quel caso sei fregata.

Sì, il dentro diventa un buco ancora più profondo, e in due si sta ancora più stretti.

Piove.

Non sento niente.

La pioggia ha portato il silenzio.


 
 
 

La lavandara

Post n°226 pubblicato il 01 Settembre 2010 da le_corps

C’è una stesa di calzini in attesa di fare il paio, prima c’era un mucchio di calzini attorcigliati, corti lunghi a righe lisci di lana di cotone sintetici neri blu grigi marroni; c’era questo groviglio ai piedi del letto e io non mi decidevo a fare il paio, la sola idea di fare il paio mi abbatteva lo sguardo e chiudeva la gola. Nella semioscurità ne ho presi due, e combaciavano; poi altri due, e combaciavano pure quelli, così misurando e tastando ho messo insieme tutte le paia possibili dentro al mucchio.
Ora ne restano in fila sette, non appaiabili, lo affermo con certezza assoluta.
Dalla cucina arriva odore di riso in cottura, un profumo tostato si spande lentamente nella camera da letto. Il riso cuoce da solo, apprezzo questa sua autonomia; il mio riso cuoce a lungo, a suo agio nel bollore, non mi mette fretta, lascia che io vada dietro alle mie cose, che sono un po’come dei bambini che si sono appena messi in piedi: scappano ovunque senza sapere bene dove e perché, senza badare ai dislivelli ai finti appoggi e agli effetti molla, sì, le mie cose si mettono a correre impavide e incoscienti, ed io dietro. Qualche volta lascio che vadano da sole, non per finalità pedagogiche ma per mollezza: faccio finta che non siano mai nate: è brutale, lo so. Ma è brutale per me, non per loro. Non per un banale senso di colpa, piuttosto per senso di inferiorità: sono inferiore alle mie cose. Sì, loro mi superano. Loro sono intelligenti, io no; loro hanno un piano, io no; hanno equilibrio consapevolezza e pazienza, io no. Sembravano impavide e incoscienti, e invece no. Loro hanno un ordine lineare, io no. Io passo da un loop a un altro: è possibile? Sì, perché è il loop ad abbandonare me, non viceversa. Dopo un po’, l’universo si sfianca, la fisica molla la presa, ci sono effetti senza causa e cause che producono altre cause: la teoria delle catastrofi mi lancia languide occhiate. Ma non c’è da cederle né da resisterle. Ci sono le mie cose a cui star dietro, davanti mai, lo dicevo, sono insuperabili. Prevenirle non si può preordinarle nemmeno. Non sono nemmeno più in alto di loro, quel tanto che mi basterebbe almeno a prevederle. Che poi già il vedere mi appagherebbe, sarebbe un segno di minor ingenuità o imbecillità da parte mia. Ma l’età passa e mi scortica, prosciuga le mie riserve, mi desertifica per poi beffarmi con qualche allucinazione visiva. Le diottrie lentamente mi abbandonano, e allora non mi resta che annusare l’aria per andar dietro alle mie cose.
L’odore del riso mi dice a che punto è la cottura, e l’odore della lavanda quanto tempo è passato dall’ultima volta.

 
 
 
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