Post N° 23

Post n°23 pubblicato il 10 Agosto 2005 da unaqualunque_s
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E tornai su, insieme alle mie bolle, a braccia aperte come un grande pesce bianco, verso la luce che colmava la superficie.
Da studente, Angela, avevo paura del sangue.
Durante le lezioni di anatomia rimanevo discosto, protetto dalla schiena di un altro.
Ascoltavo i suoni di quel lavorio interno e la voce del professore che dettagliava l'intervento.
Lì dove si dissezionavano i corpi, il sangue non era grigio come sui libri, aveva il suo colore e il suo odore.
Certo, avrei potuto modificare il progetto che avevo per me stesso, potevo essere un internista senza talento, come mio padre.
Anch'io non sarei mai stato un buon diagnositco, non avevo intuito.
Non m'interessava il male maturato dalla carne.
Io volevo aprire, vedere, toccare, asportare.
Sapevo che sarei stato bravo nel fondo, solo e unicamente lì.
Mi sono accanito contro il mio destino, ho lottato a piene mani contro di lui, che mi scacciava dai mie sogni, mi buttava in un altro verso.
E una mattina nel cesso degli studenti, mi ferii la mano sinistra, con una lametta da barba incisi lentamente il muscolo adduttore del pollice.
Sentii la ferita bagnarsi, colare.
Dovevo resistere, aprire gli occhi e risistere.
E alla fine ce la feci.
Guardai il mio sangue gocciolare nel lavandino e non provai altro che un flebile malore.
Quel giorno mi avvicinai al letto operatorio e finalmente guardai.
Il mio cuore rimase immobile.
Rimase immobile anche la prima volta che spinsi il bisturi nel corpo di un vivente.
E' speciale il tempo che corre sulla carne incisa prima che questa cominci a versare.
Il sangue non affiora subito, per uan frazione di secondo la ferita rimane bianca.
Ho fatto migliaia d'interventi, e l'incisione è l'unico momento che mi provoca una piccola vertigine, perchè la lotta che ho combattuto è ancora viva dentro di me.
Alzo le mani e lascio al mio assistente il compito di cauterizzare.
Per il resto non ho mai perso la lucidità, anche nei momenti più disperati.
Ho sempre fatto tutto ciò che era nelle mie possibilità e, quando ho dovuto, ho lasciato che la gente morisse.
Mi sono tolto la mascherina, mi sono lavato la faccia e le mani fino alle braccia, e ho guardato nello specchio i segni che lo sforzo aveva lasciato sul mio viso, senza pormi inutili domende.
Non so, figlia mia, dove vanno le persone che muoiono, ma so dove restano.
Ora Alfredo avrà già cominciato, il lmebo cutaneo è staccato, i vasi coagulati.
Staranno incidendo la fascia muscolare temporale.
Poi segheranno l'osso, è un operazione difficoltosa, non bisogna fare troppa pressione, si corre il rischio di intaccare la dura madre.
Dopo, se ce ne sarà bisogno, t'insaccherannol'opercolo osseo nella pancia per tenerlo sterile, dopo, alla fine, ora non c'è tempo per i ricami.
Ora bisogna andare dritti al sangue.
E speriamo che l'ematoma non abbia compromesso troppo il cervello.
Vorrei essere un padre qualunque, uno di quegli uomini fiduciosi che si affidano a un camice, e si ritraggono come di fronte a una veste sacra.
Ma non posso fingere di non sapere quanto la volontà di un ottimo chirurgo sia ininfluente rispetto al compiersi di un destino.
Le braccia di un uomo sono ferme alla terra, figlia mia.
Dio, se c'è, è alle nostre spalle.

 
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Post N° 22

Post n°22 pubblicato il 10 Agosto 2005 da unaqualunque_s
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"Vuoi fare un bagno?"
"Si."
"Vado a infilarmi il costume."
La guardai dirigersi verso la casa, guardai le sue gambe che risalivano la spiaggia volitive e salde.
Ripensai a quelle altre gambe spolpate e molli all'interno, dove le avevo strette.
E risentii il gusto di quel sudore, di quella paura.
"Aiuto..."
Aveva sussurrato ad un certo punto.
"Aiuto."
Elsa adesso s'infilava nel giardino, sorrisi, come si sorride alle cose che ci appartengono.
Tornai a guardare il sole che stava scendendo sul mare con un riverbero rosa e pensai che ero un uomo stupido.
Quello era uno splendido pomeriggio della mia vita,  dovevo chiudere le ali del mio impaccio sul quel momento di serenità.
Tornò nel suo costume da bagno color prugna, con un asciugamano sotto braccio.
Era ancora incredibilmente bella, più magra di quando l'avevo conosciuta, più dura forse, ma più leale.
Il suo fisico ben custodito corrispondeva perfettamente alla sua anima.
"Andiamo."
Quel tassello bianco nel rovescio del costume davanti al quale avevo tremato come davanti a un giudice era scomparso tra le sue cosce.
Mi rizzai con uno scatto repentino:
Era ferma sul bagnasciuga, guardai la curva della sua schiena.
Ero l'uomo della sua vita, il vecchio che l'avrebbe aspettata fuori dai negozi in doppia fila.
Forse desiderava un altro, forse l'aveva già avuto.
La fedeltà non è un valore degli anni ragionati.
L'infedeltà si, perchè richiede precauzione, parsimonia, discrezione, e ogni sorta di qualità senili.
Noi due insieme cominciavamo a essere come un vecchio cappotto che ha perso la linea originaria, e con essa il fastidio della rigidità, e proprio il cedimento, la consunzione naturale del tessuto, lo rendono unico, inimitabile.
Aprii l'accapatoio e lo lasciai cadere sulla sabbia.
Elsa tirò indietro la testa con un guizzo improvviso.
"Sei nudo!"
Rideva mentre camminava nell'acqua dietro il mio culo bianco, troppo largo per essere il culo di un uomo.
Le piacevo ancora?
Di sicuro mi preferiva vestito, protetto dagli stracci.
Non trattenevo la pancia, e non avevo muscoli sulle braccia.
Voleva che mi guardasse senza clemenza, che misurasse le imperfezioni dell'uomo con il quale avrebbe trascorso il resto della sua vita.
Mi tuffai e nuotai senza tirare fuori la testa finchè non sentii il petto gonfiarsi, farsi duro.
Mi voltai sulla schiena e rimasi a galleggiare così, con l'acqua che mi pascolava in bocca.
Sentii prima le sue braccia che spostavano l'acqua, poi tua madre affiorò accanto a me.
I capelli bagnati le denudavano il volto.
No, se anche le avessi raccontato la mia avventura erotica non mi avrebbe creduto.
Pensai a certe scene di sesso al cinema, fotogrammi osè che dallo schermo franavano in fondo ai nostri corpi, nel buio della sala.
Lei ammutoliva nel silenzio, smetteva di respirare.
Io mi agitavo infastidito sulla poltrona.
Non sarà così scema da credere che nella vita si possa davvero scopare così?
Ma quando uscivamo dalla sala, lei era assente come una figura di carta.
Mi sputò in faccia un pò di mare, poi s'immerse e continuò a nuotare davanti a me.
Ascoltavo il rumore del suo corpo che fendeva l'acqua, sempre più lontano.
Ero fermo, avevo gli occhi socchiusi, le gambe un pò aperte, mi lasciavo cullare dalla corrente.
Forse c'era qualche piccolo pesce lì sotto che scrutava la chiglia del mio corpo.
Mi voltai e scesi a occhi aperti nel luccicore che penetrava l'azzurro, scesi fino al freddo, e rimasi sul fondo dove la sabbia si agitava piano.
Mossi le labbra nella sordità dell'acqua.
"Ho violentato una donna" gridai.

 
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Post N° 21

Post n°21 pubblicato il 10 Agosto 2005 da unaqualunque_s
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Buttai la biancheria nel cesto dei panni sporchi e m'infilai nella doccia.
Ridiscesi in accapatoio lasciando impronte d'acqua sui gradini, cercai gli occhiali da sole e uscii sotto il pergolato.
Il mare attraverso le lenti scure era di un azzurro più intenso e vibrante del vero.
Ero a casa mia, nel profumo delle cose note, lo spavento era altrove, lontano.
Mi ero lasciato un incendio alle spalle, sentivo ancora le fiamme nel volto.
Guardavo, e cercavo di mettere a fuoco lentamente le cose.
Dovevo riabituarmi a quell'uomo che credevo di conoscere e che si era perso dentro un bicchiere di vodka dietro un sordido richiamo, liquefatto come quei luridi cubetti di ghiaccio.
Mi portai una mano sulla bocca per annusarmi l'alito.
No, non puzzava d'alcol.
"Ciao, amore."
Elsa posò la mano sulla mia spalla.
Mi girai e la baciai immediatamente.
Il mio bacio cadde male, non c'entrò le labbra.
Indossava la sua camicia di garza, sotto la trama s'indovinavano i capezzoli scuri di sole.
Il suo sguardo era ancora pieno di sonno.
La spinsi di nuovo verso di me, per un bacio migliore.
"Hai fatto tardi."
"Ho avuto un intervento rognoso."
Avevo mentito d'istinto, e adesso ero lì saldo nella mia menzogna.
Le presi la mano e ci incamminammo sulla sabbia verso la riva.
"Vuoi uscire per cena?"
"Se vuoi..."
"No, come vuoi tu."
"Restiamo a casa."
Ci sedemmo.
Il sole cominciava a essere più clemente.
Elsa allungò le gambe, spinse le punte dei piedi fino all'acqua e rimase a guardarsi le unghie che scomparivano e riapparivano nella sabbia bagnata.
Eravamo abituati a stare così, l'uno accanto all'altra in silenzio, non ci dispiaceva.
Ma dopo qualche giorno di lontananza bisognava forzare le nostre intimità viziate dalla solitudine.
Raccolsi la mano di tua madre e la accarezzai.
Aveva trentasette anni, forse mancava anche a lei quella ragazza dal cappotto di casentino arancione, che dondolava ubriaca fuori da quel ristorante e rideva piegata sul molo dove il vento spruzzava mare.
Forse la cercava lì, sulla punta dei piedi, dove una spumetta chiara andava e riandava.
Ma no, ero io il desaparecido.
Io, con il mio lavoro senza orari, parsimonioso nel dare, frettoloso nel ricevere.
Ma non ci saremmo certo messi a scavare nella sabbia per ricercare le reciproche manchevolezze.
Il coraggio non dimorava più tra di noi.
Il coraggio, Angela, appartiene agli amori nuovi, gli amori vecchi sono sempre un pò vili.
No, non ero più il suo ragazzo, ero l'uomo che l'aspettava in macchina quando entrava in un negozio.
La mano di Elsa scivolava più morbida dentro la mia, come il muso di un cavallo che riconosce la sua biada.

 
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Post N° 20

Post n°20 pubblicato il 10 Agosto 2005 da unaqualunque_s
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Tua madre indossava un cappotto di casentino, arancione e violento come il sole che avremmo trovato d'estate.
Al ritorno ci fermammo a mangiare in un ristorante troppo grande per noi soli, con le vetrate a strapiombo sugli scogli, opache di salsedine.
Faceva freddo, ci ubriacammo con poco, una caraffa di vino e un amaro a testa.
Uscimmo barcollanti e abbracciati con il piatto del buon ricordo in mano.
Ci nascondemmo dentro una pineta e facemmo l'amore.
Dopo, posai la testa sul ventre di Elsa.
Rimanemmo così, in ascolto del futuro che ci aspettava.
Poi tua madre si sollevò e andò a raccogliere qualche pinolo annerito.
Io rimasi a guardarla.
Credo che quello fu il giorno più felice della nostra vita insieme, ma naturalmente non ce ne accorgemmo.
Da quel giorno di marzo erano passati quasi dieci anni, e io passavo accanto a quella pineta senza più voltarmi, mentre l'asfalto sotto le ruote s'infarinava di sabbia.
Parcheggiai la macchina sotto il canniccio nel retro del giardino.
Mi chinai per non urtare il filo dove erano appesi il telo e il costume da bagno di Elsa.
Un costume intero color prugna di tessuto elastico a nido d'ape che lei arrotolava sotto l'ombelico quando prendeva il sole.
Era al rovescio.
Con una spalla sfiorai il tassello bianco del cavallo, quel pezzo lycra che attraversava l'inforcatura delle gambe di mia moglie.
Girai intorno alla casa, ed entrai nel salone con il grande divano angolare foderato di canapa azzurra.
La sabbia gracchiava sotto le mie scarpe, me le tolsi, non volevo che Elsa mi sentisse.
Camminai scalzo sull'impiantito di pietra che rimaneva sempre fresco.
Allargai le dita, e distesi le piante per aderire meglio a quella frescura, mentre scendevo il gradino che conduceva in cucina.
Il rubinetto mal chiuso gocciolava su un piatto sporco.
Sul tavolo c'era un pezzo di pane abbandonato tra le briciole accanto a un coltello.
Presi il pane e cominciai a mangiarlo.
Tua madre era di sopra, riposava.
La spiai oltre la porta socchiusa nella penombra: le gambe nude, la canottiera di seta dalle bratelle sottili, il lenzuolo accartocciato in fondo al letto, dove l'aveva spinto lei con i piedi, il viso coperto dalla massa folta dei capelli.
Forse dormiva anche prima, per questo non aveva sentito il telefono.
E quel pensiero mi acquietava, saperla addormentata mentre io...
Come in un sogno.
Masticavo il pane, miamoglie dormiva.
Il suo respiro era calmo come il mare dietro la finestra.

 
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Post N° 19

Post n°19 pubblicato il 09 Agosto 2005 da unaqualunque_s
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Non so se ansimasse dopo, forse piangeva.
Era in terra, si stringeva al suo corpo.
Io ero molto oltre di me, precipitato dall'altra parte della stanza.
Posato sun una zampa, il muso del cane cieco spuntava da sotto il divano, le orecchie basse, gli occhi bianchi.
Sul muro la scimmia succhiava immobile il suo biberon.
I miei occhiali erano in terra, accanto alla porta, una lente era rotta.
Feci qualche passo e mi chinai a raccoglierli.
Afferrai i lembi bagnati della camicia, me li rinfilai nei pantaloni e uscii senza dire un parola.
La macchina era parcheggiata davanti all'officina.
La chiave era inserita, misi in moto e partii.
Cominciò il rettilineo costeggiato dai primi pini marittimi e sai canneti avvizziti.
Frenai senza riuscire a fermarmi, aprii lo sportello e vomitai in corsa.
Frugai sotto il sedile per cercare l'acqua che avevo con me, la trovai, caldiccia nel suo involucro di plastica.
Mi sciacquai la bocca, tirai fuori la testa e mi svuotai addosso quel che rimaneva della bottiglia.
L'asfalto correva, e insieme correva l'odore della vampa e del mare ormai vicinissimo.
Lasciai la guida e mi portai le mani sulla faccia per annusarle.
Cercavo una traccia della mia efferatezza, Angela.
Trovai solo un odore di ruggine, forse quello della scala.
Ci sputai dentro.
Sputai sulle pieghe dellam ia ita, del mio benessere, del mio cuore.
Poi strofinai i palmi l'uno contro l'altro, fino al fuoco.
La casa al mare era una costruzione degli anni cinquanta, bassa e squadrata, senza bullerie.
Un gelsomino grondava il suo profumo stordente sul pergolato davanti alla cucina, accanto a una grande palma.
Il giardino per il resto era brullo, delimitato da una recinzione di piccole lance di ferro corrose dalla salsedine.
Il cancello, che a ogni colpo di vento raschiava nei cardini con uno stridio identico a quello dei gabbiani spaventati dal maltempo, si apriva direttamente sulla spiaggia.
Il tratto di marina davanti alla casa era abbastanza spopolato.
Gli stabilimenti balneari erano allineati più giù, oltre la foce del fiuime, oltre le grosse bilance dei pescatori ferme nell'aria come bocche affamate.
Era stata tua madre a sceglierla, quella casa di vacanza, le faceva pensare, diceva, a una tenda nel deserto, sopratutto al tramonto, quando il riverbero del mare sembrava muovere le mura.
La scelse anche grazie a un gatto.
Assonnato, si lasciò raccogliere docilmente da Elsa e le rimase addosso per tutto il tempo mentre la ragazza dell'agenzia apriva le persiane delle stanze dove ristagnava l'odore di muffa delle case rimaste chiuse per tutto l'inverno.
Era un giorno feriale verso la fine di marzo.

 
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Post N° 18

Post n°18 pubblicato il 09 Agosto 2005 da unaqualunque_s
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Il viso di mia madre mi passò davanti agli occhi, tanti suoi sorrisi in sequenza, fino all'ultimo, il viso serrato dalla morte, quando chiesi ai becchini ancora un attimo per poterlo guardare.
Scossi la testa con un moto d'ira per scacciare quel pensiero.
Ora camminerò fino alla mia macchina, pagherò il meccanico, metterò in moto e arriverò da Elsa.
Avrà i capelli ancora umidi, e la sua camicia di garza ciclamino.
Andremo in quel ristorante, in quel tavolo in fondo dove con il buio entrano le luci del golfo.
Lascerò guidare lei, così potrò posare la testa sulla sua spalla...
Non parve sorpresa, anzi ebbi la senszione che mi aspettasse.
Arrossì mentre ritraeva per farmi entrare.
Involontariamente feci un passo maldestro e urtai lo scaffale sul muro.
La bambola di porcellana cadde in terra.
Mi chinai a raccoglierla.
"Non si preoccupi" disse, e oscillò verso di me.
Indossava una maglietta diversa, bianca, con un vistoso fiore di strass.
"La macchina?" sussurrò.
La sua voce era incerta, come la sua bocca senza più rossetto.
Guardai oltre le sue spalle, la casa ordinata e miserevole, e mi parve ancora più triste di poco prima.
Ma non provai nessun fastidio, anzi provai un misterioso piacere sentendo che tutto intorno a me era davvero squallido.
"La stanno aggiustando."
Sentii lo strofinio delle sue mani, ce le aveva dietro la schiena.
Abbassò lo sguardo, poi lo rialzò.
Mi sembrò che tutta la sua figura vibrasse impercettibilmente, forse ero solo ubriaco.
"Vuole telefonare?"
"Si."
Tornai in camera, tornai con le mani su quella ciniglia tabacco.
Guardai il telefono, lo guardai come un attrezzo di plastica che non mi avrebbe messo in comunicazione con nulla.
Non lo sfiorai nemmeno.
Chiusi il cassetto del comò.
Aggiustai il Cristo storto sul muro.
Mi alzai, e mi diressi verso la porta, volendo andarmene e basta.
La vodka mi aveva restituito una testa sgarbata.
Forse non vado al mare, forse torno in città, mi metto a dormire, non ho voglia di niente, di nessuno.
"Ha trovato qualcuno?"
"No."
C'è quel camino spento dietro di lei, vuoto e nero come una bocca sdentata.
La prendo per un braccio e la trattengo.
Lei respira a bocca aperta.
Il suo alito è quello di un topo.
In quell'improvvisa vicinanza il suo volto si deforma.
Gli occhi pesti sono immensi, si dibattono tra le ciglia come due insetti progionieri.
Le sto torcendo il braccio.
E' così estranea e così vicina a me.
Penso ai falchi, al terrore che ne avevo da ragazzino.
Alzo la mano per scaraventarla lontano, lei. i suoi ninnoli, la sua miseria.
Invece afferro quel fiore di strass e me la tiro contro.
Cerca di mordermi la mano, la sua bocca si agita nel vuoto.
Ancora non so di cosa deve aver paura, non conosco le mie intezioni.
So solo che con l'altra mano le sto stringendo forte quei capelli di rafia, glieli ho presi a mazzo e la trattengo come una pannocchia.
Poi le vado addosso con i denti.
Le sbrano il mento, le labbra dure di paura.
La lascio gemere perchè ora ne ha motivo.
Ora che le ho strappato dal petto quel fiore di strass, ora che le raccolgo i seni scarni e li strofino.
E lem ie mani sono già tra le sue gambe, tra le sue ossa.
Non assiste alla mia furia.
Abbassa il viso sul collo, alza un braccio vago nell'aria, e quel braccio trema.
Perchè le ho trovato il sesso, magro come il resto, e già agguanto il mio.
La spingo contro il muro, presto.
E prima ancora di presto.
La testa gialla scaravenata in basso, lei è una marionetta slentata contro il muro.
La tiro su per le mandibole, le colo nell'ansa delle orecchio.
La mia saliva corre lungo la sua schiena, mentre mi muovo nel suo cesto di ossa come un predatore dentro un nido usurpato.
Così faccio scempio di lei, di me, di quel pomeriggio balordo.

 
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Post N° 17

Post n°17 pubblicato il 09 Agosto 2005 da unaqualunque_s
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Le pale del ventilatore cominciarono a muovere fiaccamente l'aria calda che c'era nel locale, un tovagliolo volò in terra, mi chinai a raccoglierlo.
Scorsi qualche lurido truciolo di segatura e più in là le gambe dei due giocatori.
Quando tornai su mi accorsi che la mia testa aveva risentito di quello spostamento repertino e si era appesantita di sangue.
Il barista posò il bicchiere con la vodka sul mio tavolo.
Me la tirai dentro in un solo fiato.
I miei occhi galleggiarono verso il juke-box.
Era un modello vecchio di un azzurro screziato, dallo schermo si vedeva il braccio di metallo che scivolava sui dischi quando era in funzione.
Pensai che mi sarebbe piaciuto ascoltare una canzone.
Una qualunque.
Mi tornò in mente il volto di quella donna, troppo carico di trucco, che dondolava, bifolco e attonito, dentro la luce che proveniva dal basso di quella scatola musicale.
Una pallina schizzò fuori dal calciobalilla e ruzzolò a terra.
Prima di uscire, lasciai una buona mancia al ragazzo, che posò la spugna con la quale stava ripassando il banco e inghiottì il denaro nella mano bagnata.
Camminai nuovamente verso l'officina.
Davanti a me un gruppo di bambini seminudi arrancavano carreggiando un sacco della spazzatura colmo d'acqua che pisciava da più parti.
La serranda del meccanico finalmente era ammezzata, chinai la testa ed entrai.
Dentro, sotto i seni oliati di una ragazza calendario, trovai un uomo robusto, più o meno della mia età, strizzato dentro una tuta da lavoro nera di grasso.
Montai con lui a bordo di una vecchia Dyane dai sedili infuocati e raggiungemmo la mia auto.
C'erano da sostituire la pompa dell'olio e il manicotto.
Tornammo indietro per prendere i pezzi di ricambio.
Il meccanico mi scaricò davanti all'officina, buttò nel bagagliaio gli attrezzi necessari, e ripartì.
Ciondolai a zonzo, la camicia sudata, gli occhiali appannati, ormai incurante del caldo.
La flemma indotta dall'alcol coincideva però con un mio desiderio più intimo.
Avevo pompato duro in quell'ultimo anno di successi, ero sempre presente, sempre reperibile.
Per puro caso scivolavo fuori dal radar, e ora quell'assenza che mi concedevo mi pareva un premio improvviso, ora che non mi ribellavo più e mi abbandonavo ad essa come un turista.
Tornai accanto al palazzo occupato.
I bambini avevano svuotato l'acqua su un cumulo di pozzolana e stavano costruendo una capanna, una sorta di grande uovo nero.
Rimasi a guardarli, inebetito sotto il cielo rovente.
Mia madre non voleva che io scendessi in cortile a giocare con gli altri bambini.
Dopo il matrimonio si era adattata a vivere in un quartiere popolare.
Non era affatto triste, nemmeno così decentrato, era popoloso e allegro.
Ma tua nonna si rifiutava di guardare fuori dalle finestre, per lei quel quartiere non era triste, la tristezza sapeva bene come sopportarla, no, era molto peggio, era un gradino al di sotto della miseria.
Era l'ultima soglia prima dei suoi fantasmi.
Viveva segregata in quell'appartamento come su una nuvola dove aveva ricostruito il suo mondo, dove aveva sistemato il suo pianoforte e suo figlio.
Avrei voluto in certe languide ore del pomeriggio spingermi verso quella vita che vedevo brulicare in basso, ma non me la sentivo di umiliarla.
Finsi che anche per me quel mondo non esistesse.
Frettolosa, lei m'infilava sull'autobus che ci portava verso la sua casa di famiglia, verso sua madre, e in quel posto pieno di alberi e villini io potevo finalmente aprire gli occhi.
Lì lei era radiosa, era un'altra.
Insieme ci buttavamo sul letto di quella che era stata la sua camera da ragazza e ridevamo.
Faceva il suo carico di energia e anceh la sua persona si riempiva di un nuovo splendore.
poi si rinfilava il cappotto e lo sguardo di sempre.
Tornavamo che era già buio, quando fuori non si vedeva nulla.
Dalla fermata alla porta di casa lei correva, terrorizzata da quell'abisso che la circondava.

 
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Post N° 16

Post n°16 pubblicato il 08 Agosto 2005 da unaqualunque_s
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Il caldo era sempre lì, galleggiava nell'aria, muoveva impercettibilmente le cose.
L'asfalto cedeva molle sotto le mie scarpe.
Mi misi ad aspettare l'ora della riapertura accanto alla saracinesca sbarrata dell'officina.
Di nuovo sudavo, e di nuovo avevo sete.
Tornai verso il bar.
Chiesi ancora una volta dell'acqua, ma poi, quando il ragazzo dal viso butterato si spostò lasciando libera la teoria di bottiglie dietro la sua testa, cambiai idea e ordinai una vodka.
Me la feci versare in un bicchiere largo e chiesi del ghiaccio che lui raccolse dal fondo di un contenitore di alluminio, e che forse sciogliendosi avrebbe sprigionato lo stesso odore che risaliva da lì, di maionese rancida, di straccio da pavimento mal custodito.
Andai a sedermi in fondo al locale, accanto al juke-box.
presi un sorso lungo e rumoroso, l'alcol mi penetrò dentro come un dolore secco, una fiammata che si sciolse subito in una frescura protratta e intensa.
Guardai l'orologio, avevo ancora un'ora e pi di tempo.
Non ero abituato agli intervalli, Angela.
Avevo appena quarant'anni e già da cinque ero aiuto primario di chirurgia generale, il più giovane dell'ospedale.
La clientela del mio studio privato era in crescita, e con un pò di riluttanza, ma sempre più spesso, operavo in clinica.
Mi sorprendevo ad apprezzare quei luoghi a pagamento, puliti, organizzati, silenziosi.
Avevo appena quarant'anni e forse già non amavo più il mio mestiere.
Da ragazzo mi ero mosso con veemenza.
Dopo la specializzazione, i primi anni di pratica erano stati febbrili, gagliardi, come quel pugno sferrato a un infermiere colpevole di non aver atteso che l'autoclave a vapore per sterilizzare i ferri finisse correttamente il suo ciclo.
Poi, senza quasi accorgermene, un velo di pacatezza, accompagnato da un blando sentimento di disillusione, mi era sceso addosso.
Ne avevo parlato con tua madre, lei aveva detto che stavo semplicemene scivolando nell'abitudine della vita adulta, una transizione necessaria e tutto sommato gradevole.
Avevo appena quarant'anni, e giò da un pezzo avevo smesso d'indignarmi.
Non che avessi venduto l'anima la diavolo, semplicemente non l'avevo offerta agli dei, me l'ero tenuta in tasca, in quella tasca di grisaglia estiva dove si trovava adesso dentro quel brutto bar.
La wodka mi aveva dato un colpo di vita.
"Fa caldo, accendi!" sbottò, guardando le pale spente del ventilatore, un ragazzo alto, tutto sporco di calcina, mentre si dirigeva verso il calciobalilla seguito da un compagno tarchiato.
Con un colpo secco tirò la leva cilindrica e le palle rotolarono giù dalla pancia di legno.
Il tarchiato gettò la prima palla sul campo, lasciandola cadere dall'alto con un gesto forte, che doveva corrispondere a una specie di rituale, poi il gioco cominciò.
I due parlavano poco, le mani strette sulle impugnature, ruotavano i polsi assestando colpi precisi e duri che facevano vibrare le aste di metallo.
Svogliatamente, il ragazzo del bar uscì dal  bancone asciugandosi le mani bagnate sul grembiule e mise in funzione il ventilatore.
Mentre tornava verso il banco, gli allungai il bicchiere: "Portamene un altro, per favore".

 
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Post N° 15

Post n°15 pubblicato il 08 Agosto 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

Immersa nello scenario della sua casa era meno vivace, era di una miserabile decenza intonata al resto.
Mi sembrò deprimente.
C'era quel piano accanto al mio braccio ricoperto di ninnoli...
Detesto i soprammobili, Angela, lo sai, adoro i piani sgombri con una lampada da tavolo in un angolo, qualche libro, e niente altro.
Feci un piccolo scatto con la spalla, avevo sentito il braccio percorso dal desiderio di scaraventare per terra tutta quella porcheria.
Lei mi serviva il caffè.
"Quanto zucchero vuole?"
Appiccicai le labbra alla tazzina e ingollai.
Era un buon caffè, ma avevo la bocca impastata dalla stanchezza, dal cattivo umore, così sulla lingua mi rimase una patina amara.
La donna venne a sedersi accanto a me sul divano, leggermente discosta.
Era in controluce, una frangia sfilacciata di capelli non bastava a celare la fronte, troppo prominente rispetto al resto del viso raccolto in un'unica smorfia ferma nel solco tra il naso e le labbra ingigantite dal rossetto.
Guardai la mano con la quale sosteneva la tazzina.
Intorno alle unghie brevi, che senza dubbio si divorava, la carne era arrossata e gonfia.
Pensai all'odore di saliva rappres sulla punta d quelle dita e rabbrividii.
Lei intanto si era chinata.
Vidi il muso di un cane affacciarsi da sotto il divano.
Un cagnetto assonnato di taglia media dal pelo scuro e ondulato, con le orecchie lunghe color ambra.
Le leccò una mano, quelle unghie smangiucchiate, felice come se avesse ricevuto un premio.
"Crevalcore..." sussurrò lei, mentre strusciava la sua grande fronte contro quella del cane che si era accorto di me, ma sembrava guardami senza alcun interesse, sotto gli occhi offuscati da una strana caligione.
Raccolse il vassoio e le tazzine sporche.
"E' cieco" e abbassò la voce, quasi non volesse farsi udire dalla bestia.
"Me lo darebbe un bicchier d'acqua?"
"Sta male?"
"No, ho caldo."
Si voltò.
Le guardai le natiche mentre camminava verso la cucina.
Erano magre come quelle di un uomo.
E scivolai lungo il suo intero corpo voltato, la schiena stretta, curva, le gambe vuote dove avrebbero dovuto congiungersi.
Non era un corpo desiderabile quello, anzi appariva inospitale.
Tornò verso di me, dondolando sui tacchi.
Mi porse l'acqua e aspettò in piedi che le restituissi il bicchiere.
"Sta meglio?"
Si, l'acqua mi aveva pulito la bocca.
Non mi accompagnò alla porta.
"Allora grazie."
"Ci mancherebbe."

 
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Post N° 14

Post n°14 pubblicato il 08 Agosto 2005 da unaqualunque_s
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Oltre la tenda c'era una camera stretta, interamente occupata dal letto doppio senza testiera, coperto da un telo di ciniglia color tabacco.
Sulla carta da parati un crocefisso pendeva, leggermente storto.
Il telefono era in terra accanto alla sua presa.
Lo raccolsi.
Mi sedetti sul letto e composi il numero di Elsa.
Seguii con il pensiero lo squillo che penetrava nella casa.
Correva sul tappeto di fibra di cocco del salone, saliva lungo le scale, nelle stanze di sopra, nel grande bagno con frammenti di specchio incastonati nell'intonaco indaco, sfiorava le lenzuola di lino del nostro letto ancora disfatto, lo scrittoio gremito di libri, scivolava in giardino attraverso le tende di garza, sul pergolato avvolto dall'infiorescenza bianca del gelsomino, sull'amaca, sul mio vecchio cappello coloniale con gli occhielli arrugginiti, senza alcuna risposta.
Elsa forse stava nuotando, o forse era già riemersa.
Pensai al suo corpo teso sul bagnasciuga, all'acqua che lambiva le sue gambe.
Il telefono squillava nel nulla.
Lasciavo correre una mano sulla ciniglia del copriletto, e intanto scoprivo un paio di ciabatte fucsia annerite dall'uso sotto un comò da rigattiere.
Appoggaita allo specchio, la fotografia di un uomo giovane ma di un'altra epoca.
Mi sentivo a disagio dentro quella stanza, seduto sul letto dove si coricava un'estranea, quel pagliaccio stralunato che mi aspettava di là.
Da un casstto di biancheria socchiuso brillava un lembo di raso amaranto, quasi senza accorgermene infilai una mano in quello spiraglio e sfiorai quella stoffa scivolosa.
Il pagliaccio affacciò tra le lingue di plastica.
"Vuole un caffè?"
Mi sedetti sul divano davanti al poster della scimmia.
Un fastidio mi galleggiava nel fondo della gola asciutta e farinosa.
Mi guardai intorno e il mio disagio fisico scivolò in quell'ambiente modesto.
Su uno scaffale, una bambola di porcellana con un ombrellino di veli posava la sua faccia sgomenta contro il primo di una fila di volumi tutti uguali, una di quelle enciclopedie universali che si comprano a rate.
Lo squallore era ben confezionato, accudito, onorevole.
Guardai la donna che tornava verso di me con il vassoio in mano.

 
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Post N° 13

Post n°13 pubblicato il 08 Agosto 2005 da unaqualunque_s
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"Siamo arrivati" gridò.
E in effetti c'era una costruzione dietro di lei, un muro rosa, vecchio, che non sembrava appartenere a una casa ancora in piedi.
Si girò verso quel muro.
Era un'abitazione autonoma, una sorta di minuscolo villino diroccato, proprio sotto i piloni del viadotto.
Scendemmo tra la sterpaglia polverosa, poi risalimmo due gradini fino a una porta a doghe, verde come la sua gonna.
Tese un braccio nello specchio di mattoni sopra la porta, e stacò una chiave incollata lassù con un pezzo di gomma americana.
Aprì la porta, poi si tolse dalla bocca la cicca che stava masticando, e riappiccicò la chiave in alto con una pressione delle dita.
Mentre si allungava, guardai le sue ascelle spalancate, non erano depilate, ma non erano folte.
Giusto un ciuffo di peli sottili e lunghi, rappresi di sudore.
Dentro c'era una strada trasversale di sole che tagliava l'aria.
Fu la prima cosa che mi arrivò addosso insieme all'odore di fuliggine, di casa di paese, soffocato da un fortore di varichina e di veleno, il veleno che si usa per uccidere i topi.
Era una stanza squadrata con un impiantito di grès color caffè, sulla parete di fondo c'era un caminetto, una grande bocca nera e triste.
Un interno dignitoso, ordinato, solo un pò guercio perchè la luce arrivava da un'unica finestra.
Dalle ante accostate spuntava un pilastro dal viadotto.
Tre sedie tipo svedese erano infilate sotto un tavolo ricoperto da una tovaglia di tela cerata.
Accanto, si apriva una porta.
S'intravedeva un pensile da cucina impiallacciato di formica a guisa di sughero.
Lei s'infilò lì dentro.
"Metto il latte in frigorifero."
Aveva detto di possedere un telefono.
Lo cercai senza trovarlo, su un tavolino basso con un posacenere a forma di conchiglia, su una cassettiera laccata invasa di ninnoli, su un vecchio divano ravvivato da un telo a fiorami.
Appeso al muro, scoprii il poster di una scimmia con una cuffia da neonato in testa e un biberon tra le zampe, immortalata nella luce fasulla, dei flash e degli ombrellini di polietilene, di uno studio di posa.
Lei tornò subito.
"Il telefono è di là, in camera" disse, indicando una tenda di lingue di plastica proprio dietro alle mie spalle.
"Grazie" sussurrai verso quella tenda da bar, e di nuovo temetti un agguato.
Sorrise, snudando una riga di piccoli denti imperfetti.

 
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Post N° 12

Post n°12 pubblicato il 07 Agosto 2005 da unaqualunque_s
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"Mi sono perso."
Presi dal contenitore qualche tovagliolo di carta e mi asciugai la fronte.
Il juke-box era spento, lei era ancora lì.
Tramortita su una sedia, guardava davanti a sè masticando una gomma americana.
Si alzò, raccolse il suo cartone di latte dal bancone e salutò il ragazzo.
Sulla soglia di fermò.
"Io passo lì davanti, se vuole..."
Mi misi dietro ai suoi passi sotto il sole cocente.
Indossava una maglietta viola e una gonna corta verde ramarro, ai piedi un paio di sandali di fettucce variopinte a tacco alto, sopra ai quali le sue gambe magre si affannavano sgraziate.
Il latte lo aveva infilato in una borsa patchwork dalla tracolla lunghissima che le arrivava quasi al ginocchio.
Non badava a me, camminava veloce senza mai voltarsi, strascinando i piedi sullì'asfalto dissestato, troppo attaccata ai muri, fino a sfiorarli.
Si fermò davanti a una saracinesca.
L'officina era chiusa, un foglietto ingiallito tenuto da un nastro adesivo diceva che avrebbe riaperto di lì a un paio d'ore.
Pensai a tua madre, dovevo avvertirla del contrattempo.
Dalle tempie il sudore mi colava dietro le orecchie, lungo il collo.
Eravamo fermi in mezzo alla strada.
Lei si era voltata solo con la testa, mi guardava, gli occhi socchiusi dall'afa e dalla luce.
"Ha un pezzo di carta sulla fronte."
Cercai tra il sudore quell'avanzo di tovagliolo da bar.
"C'è una cabina telefonica?"
"Deve tornare indietro, non lo so se funziona, però: qui sfasciano tutto."
Aveva ancora in bocca la gomma americana, le sue guance si muovevano con foga.
Con la mano si riparò la vista dal sole.
I suoi occhi, che allo scoperto si rivelavano di un grigio pallido, mi percorsero fulminei.
La fede al dito, la cravatta forse la rassicurarono,anche se non aveva l'aria di una che temesse gli estranei.
"Può telefonare da me se vuole, sto qui dietro" e allungò il collo verso un luogo imprecisato sull'altro lato della strada.
Attraversò senza guardare.
La seguii lungo una discesa sterrata, dentro un dedalo di fabbricati sempre più spettrali, fino a un palazzo ancora in costruzione ma già occupato.
Travi di metallo nude dove avrebbero dovuto posarsi terrazzi, aperture spalancate nel vuoto, tappate con le reti da letto rovesciate.
"Prendiamo la scorciatoia" disse.
Camminavamo tra i piloni di cemento di quello che sembrava un immenso garage abbandonato, e finalmente il sole di lasciava in pace.
Poi ci infilammo in un androne buio infestato di scritte spray, dove stagnava un puzzo da vespasiano insieme a un vento di frittura che arrivava da chissà dove.
L'ascensore era spalancato, dai pulsanti scoperchiati si vedevano i fili.
"Saliamo a piedi."
La seguii lungo le rampre di una scala attraversata da grida improvvise, lampi di vite infernali e di televisori accesi.
Sui gradini luridi erano sparse siringhe usate che lei oltrepassava con i piedi nudi nei sandali senza farci caso.
Volevo tornare indietro, Angela, mi voltavo a ogni rumore, temendo di veder saltare fuori qualcuno, pronto a rapinarmi, a uccidermi forse, un complice di quella donna volgare che avanza davanti a me.
A tratti il suo odore mi raggiiungeva, come il tonfo della sua borsa che sbatteva sui gradini impolverandosi, un miscuglio caldo di cosmetici che si scioglievano e sudore.
Sentii il fruscio della sua voce: "Fa schifo, ma si fa prima", come se avesse indovinato i miei timori.
Era una voce con una lieve inflessione meridionale, cadeva cupa su certe sillabe, e altre le abortiva, se le lasciava smorzare in gola.
Si fermò una rampa più in su.
Si diresse rapida nel terriccio di quel piano verso una porta metallica.
Infilò la punta delle dita nel buco dove mancava la serratura e tirò il pesante battente verso di sé.
La luce mi arrivò in faccia così violenta che dovetti ripararmi con un braccio: il sole sembrava velocissimo.
"Venga" disse, e vidi il suo corpo inabissarsi.
E' pazza, sto seguendo un'inferma di mente, mi ha rimorchiato in quel bar solo per farmi assistere al suo suicidio.
Mi affacciai su una scala esterna, di sicurezza, una spirale ripida di ferro.
Lei scendeva senza paura, dall'alto vedevo la ricrescita nera dei suoi capelli gialli.
Adesso sembrava incredibilmente agile sui tacchi, come un bambino, come un gatto.
Mi avventurai nel giro di quella scala incerta, stretto al corrimano di tubi e bulloni arrugginiti.
La giacca mi si impigliò, tirai e sentii la stoffa che si strappava.
Un rombo improvviso mi aveva raggiunto.
Davanti ai miei occhi, vicinissimo, c'era un grande viadotto.
Oltre il guardrail le macchine sfrecciavano veloci.
Non riuscivo più a capire dove fossimo, mi guardai intorno.
La ragazza era alle mie spalle, già abbastanza distante, si era fermata su uno spiazzo sterrato.
I capelli gialli, il volto pesto di trucco, la borsa multicolore: sembrava un pagliaccio scordato da un circo.

 
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Post N° 11

Post n°11 pubblicato il 06 Agosto 2005 da unaqualunque_s
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La incontrai in un bar.
Uno di quelli di periferia con il caffè cattivo, come l'odore che arrivava dalla porta del cesso socchiusa alle spalle di un vecchio calciobalilla, con i giocatori decapitati dalla furia degli avventori.
Si soffocava dal caldo.
Come ogni venerdì, raggiungevo tua madre nella casa al mare che affittavamo sul litorale a sud della città.
La mia auto si era spenta senza sussultare, come un cerino, sulla statale deserta costeggiata da un prato arso e sudicio e da qualche capannone industriale.
Avevo camminato sotto il sole per raggiungere gli unici palazzi che si vedevano in lontananza in quella frangia estrema di periferia.
Erano i primi di luglio di sedici anni fa.
Entrai nel bar sudato e di pessimo umore.
Ordinai un caffè e un bicchiere d'acqua e chiesi di un meccanico.
Lei era curva, armeggiava con il braccio dentro al frigorifero.
"Intero non c'è?" furono le prime parole che le sentii dire, rivolte al ragazzo dietro al banco, un ragazzo con il volto butterato e un piccolo grembiule ingrigito stretto intorno alla vita.
"Boh" rispose lui, mentre mi serviva l'acqua, premurandosi pure di infilare sotto il bicchiere un gocciolante piattino di peltro.
"Fa niente" disse lei, e posò sul bancone, a pochi millimetri da me, una confezione di latte scremato.
Le sue dita si infilarono in un boersellino da bambina, di plastica a fiori con la chiusura a scatto, tirò fuori i soldi e li spinse accanto al latte.
"Il meccanico c'è" disse, raccongliendo gli spiccioli del resto, "ma chissà se è aperto."
Mi voltai al suono di quella voce sfiatata come il gnaulio di un gatto.
Fu la prima volta hce i nostri occhi s'incontrarono.
Non era bella e nemmeno troppo giovane.
I capelli decolorati malamente incorniciavano un viso magro ma robusto di ossa, al centro del quale brillavano due occhi rattristiti dal trucco troppo marcato.
Lasciò il latte sul bancone e si diresse cerso il juke-box.
Quel locale buio in tanto sole con quel puzzo acre di fogna ingorgata si riempì delle note stucchevoli di un complesso inglese molto in voga in quegli anni.
Rimase così, una sagoma tremolante nell'ombra in fondo al bar.
Il barista scivolò fuori dal bancone e si affacciò sulla porta per indicarmi la strada.
Feci il giro dell'isolato senza riuscire a trovare l'officina.
Per strada non c'era nessuno.
In alto, su un terrazzino, un vecchio scrollava una tovaglia.
Tornai nel bar, ancora più sudato.

 
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Post N° 10

Post n°10 pubblicato il 06 Agosto 2005 da unaqualunque_s
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Da quindici anni abitiamo la stessa casa.
Conosci il mio odore, il mio passo, il modo in cui tocco le cose, la mia voce priva di squilibri, conosci i lati morbidi del mio carattere e quelli ostili, talmente irritanti da diventare indifendibili.
Non so che idea ti sei fatta di me, ma posso immaginarla.
L'idea di un padre responsabile, non privo di un sardonico senso dell'umorismo, ma troppo appartato.
Sei legata da un sentimento saldo a tua madre, iroso a volte, ma vivo.
Io sono stato un completo da uomo, appeso a lato della vostra relazione.
Più che la mia persona, di me hanno raccontato le mie assenze, i miei libri, il mio impermeabile all'ingresso.
E' un racconto che io non conosco, scritto da voi con gli indizi che vi ho lasciati.
Come tua madre, anche tu hai preferito sentire la mia mancanza, perchè avermi forse ti costava fatica.
Tante volte uscendo al mattino ho avuto la sensazione che foste voi due insieme, la vostra energia, a spingermi verso la porta di casa per liberarvi del mio ingombro.
Amo la naturalezza della vostra unione, la guardo con un sorriso, voi, in qualche misura, mi avete protetto da me stesso.
Io non mi sono mai sentito "naturale", mi sono impegnato per esserlo, tentativi striduli, perchè impegnarsi per essere naturali è già una sconfitta.
Così ho accettato il modello che mi avete ritagliato nella carta velina dei vostri bisogni.
Sono rimasto un ospite fisso a casa mia.
Non mi sono indignato nemmeno quando in mia assenza, durante le giornate di pioggia, la cameriera ha spostato il stenditoio con i vostri panni accanto al calorifero ne mio studio.
Mi sono abituato a queste umide intrusioni senza ribellarmi.
Sono rimasto sulla mia poltrona senza poter allungare troppo le gambe, ho posato il libro sulle ginocchia e mi sono fermato a guardare la vostra biancheria.
Ho trovato in quei panni umidi una compagnia che forse superava quella delle vostre persone, perchè in quelle trame sottili e candide io catturavo il profumo fraterno della nostalgia, di voi, certo, ma sopratutto di me stesso, della mia latitanza.
Lo so, Angela, per troppi anni i miei baci, i miei abbracci sono stati goffi, stentati.
Ogni volta che ti ho stretta, ho sentito il tuo corpo scosso da un fremito d'impazienza, se non addirittura di disagio.
Non ti ci trovavi, ecco tutto.
Ti è bastato sapere che c'ero, guardarmi in lontananza, come un viaggiatore appeso al finestrino di un altro treno, scialbato da un vetro.
Sei una ragazza sensibile e solare, ma di colpo il tuo umore cambia, diventi rabbiosa, cieca.
Ho sempre avuto il sospetto che questa ira misteriosa, dalla quale riaffiori sconcertata e un pò triste, ti sia cresciuta dentro per causa mia.
Angela, a ridosso della tua schiena incolpevole c'è una sedia vuota.
Dentro di me c'è una sedia vuota.
Io la guardo, guardo la spalliera, le gambe, e aspetto, e mi sembra di ascoltare qualcosa.
E' il rumore della speranza.
Lo conosco, l'ho udito affannarsi negli occhi delle miriadi di pazienti che ho avuto davanti, l'ho sentito fermarsi in stallo tra le mura della sala operatoria, ogni volta che ho mosso le mie mani per decidere il corso di una vita.
So esattamente di cosa m'illudo.
Nei grani di questo pavimento che ora si muovono lenti come fuliggine, come ombre morenti, m'illudo che quella sedia vuota si riempia anche per un solo lampo di una donna, non del suo corpo, no, ma della sua pietà.
Vedo due scarpe décolletées color vino, due gambe senza calze, una fronte troppo alta.
E lei è già davanti a me per ricordarmi che non un untore, un uomo che segna senza cautela la fronte di chi ama.
Tu non la conosci, è passata nella mia vita quando ancora non c'eri, è passata ma ha lasciato un'impronta fossile.
Voglio raggiungerti, Angela, in quel limbo di tubi dove ti sei coricata, dove il craniotono scassinerà la tua testa, per raccontarti di questa donna.

 
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Post N° 9

Post n°9 pubblicato il 02 Agosto 2005 da unaqualunque_s
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La mia segretaria ha parlato con un dirigente dell'aeroporto, le ha assicurato che useranno la massima cautela, faranno di tutto per non allarmarla troppo.
E' tutto organizzato, prenderà il primo volo per tornare indietro, c'è un British che parte immediatamente dopo il suo arrivo.
E' tutto organizzato, la faranno sedere in un angolo tranquillo, le porteranno un tè, le porteranno la cornetta del telefono.
Ho il cellulare acceso in tasca, ho già controllato, c'è una buona ricezione, quattro tacche, è importante.
Mentirò, cercherò di non dirle che sei gravissima, naturalmente non mi crederà.
Crederà che sei morta.
;a farò di tutto per essere convincente.
Porti un anello al pollice, non me n'ero accorto.
Ada ha faticato a sfilartelo, ora lo tengo in tasca, cerco di infilarci il mio, di pollice, ma non ce la faccio, ora provo con il medio, quello forse entra.
Ma tu non morire, Angela, non morire prima che tua madre sia atterrata.
Non lasciare che la tua anima attraversi le nuvole che lei sta guardando serena.
Non tagliare la rotta del suo aereo, resta, figlia nostra.
Non ti muovere.

Ho freddo, sono ancora in pigiama da lavoro, forse dovrei cambiarmi, le mie cose sono nell'armadio di metallo con il mio nome.
Ho appeso la giacca sopra la camicia con cura, ho lasciato il portafogli e le chiavi della macchina nello scomparto superiore, e ho chiuso il lucchetto.
Quando è stato?
Tre ore fa, forse anche meno.
Tre ore fa ero un uomo uguale a tutti gli altri.
Com'è subdolo il dolore, come corre.
E' come se un acido stesse svolgendo il suo mestiere corrosivo in profondità.
Ho le braccia posate sulle gambe.
Oltre la tenda a listelli, vedo una porzione del padiglione di oncologia.
Non ho mai soggiornato in quella stanza, ci sono entrato solo di passaggio.
Sono seduto su un divano in similpelle, davanti a me ci sono un tavolo basso e due sedie vuote.
Il pavimento è verde, ma nella sua malta ha grani scuri, che nei mie occhi si muovono isterici, come virus al microscopio.
Perchè ora mi sembra di averla attesa questa tragedia.
Un corridoio, due porte, il coma ci separano.
Mi chiedo se è possibile sconfinare oltre il carcere di questa distanza, provare a immaginarla tutoria come un confessionale, e sui grani danzanti di questo pavimento chiederti udienza, figlia mia.
Sono un chirurgo, un uomo che ha imparato a dividere, a separare la parte sana da quella malata, ho salvato molte vite, ma non la mia, Angela.

 
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Post N° 8

Post n°8 pubblicato il 02 Agosto 2005 da unaqualunque_s
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Ho parlato ora con la mia segretaria.
E' riuscita a preavvertire l'aeroporto di Heathrow.
Andranno a prendere Elsa al finger e la porteranno in un salotto privato per spiegarle la situazione.
E' terribile saperla lassù in cielo, con il pacco dei giornali sulle ginocchia, ignara di tutto.
Ci crede salvi qui sotto, figlia mia, e vorrei che ilsuo volo non finisse mai, che continuasse all'infinito attraverso i cieli del mondo.
Magari sta guardando una nuvola, una di quelle nuvole che scoprono appena il sole, una striscia scintillante che entra attraverso il piccolo vetro per illuminare il suo viso.
Starà leggendo l'articolo di qualche collega, lo commenterà con piccoli aggiustamenti della bocca.
Conosco così bene la sua gestualità involontaria, è come se ogni emozione avesse sul viso un microscopico rivelatore.
L'ho avuta tante volte accanto a me in aereo.
Conosco le pieghe del suo collo, quella piccola borsa che la pelle fa sotto il mento quando abbassa la testa per leggere, conosco la stanchezza dei suo occhi, quando si toglie gli occhiali e chiude le palpebre appoggiando la testa all'indietro sullo schienale.
Ora l'hostess le starà porgendo il vassoio della colazione, lei lo rifiuterà in perfetto inglese e chiederà: "Just a black coffee" e aspetterà che l'odore di quel cibo preconfezionato si allontani da lei.
Tua madre è sempre in terra, anche quando è in cielo.
Ora avrà la fronte spostata verso l'oblò, forse ha tirato la tendina rigida sul vetro: sarà la sua mezz'ora di riposo.
Starà pensando a tutti i giri che deve fare, sicuramente anche oggi vorrà riuscire ad andare in centro per comprare qualcosa.
L'ultima volta ti ha portato quel poncho bellissimo, ti ricordi?
Ma no, forse è ancora arrabbiata con te...
Cosa penserà quando l'hostess di terra le verrà incontro?
Come franeranno le sue gambe?
Con che faccia guarderà il mondo internazionale della gente che va e viene?
Con quale sgomento?
Diventerà vecchia, sai, Angela, diventerà vecchissima.
Ti ama così tanto.
E' una donna affrancata, evoluta, così adatta alla socialità, ha imparato tutto, ma non conosce il dolore, crede di conoscerlo, ma non sa.
E' lassù in cielo e ancora non sa cos'è questo quaggiù.
E' l'atrocità fissa nel petto, dove il petto non c'è più.
C'è un buco che risucchia tutto a una velocità frenetica, come un vortice, risucchia cassetti, abiti, fotografie, assorbenti, pennarelli, compact disc, odori, compleanni, tate, braccioli da mare, pannolini.
Tutto via.
Dovrà fare un bel raschiamento in quell'aeroporto.
Resterà la piazza deserta della sua vita, una borsa vuota appesa alla spalla.
Forse correrà verso la vetrata da dove si vedono partire gli aerei, sbatterà contro quella parete di cielo come una bestia scaraventata da un'alluvione.

 
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Post N° 7

Post n°7 pubblicato il 02 Agosto 2005 da unaqualunque_s
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Ora c'è Ada sulla porta.
Ada che non si è mai sposata, che ha una casa a piano terra con un giardino dove cascano i panni dei condomini.
"Stiamo iniziando, è sicuro che non vuole entrare?"
"Si."
"Ha bisogno di qualcosa?"
"No."
Annuisce, tenta di sorridere.
"Senta, Ada" la fermo.
Torna a voltarsi: "Professore?".
"Se dovesse succedere, faccia uscire tutti, e prima di venirmi a chiamare, le tolga il respiratore dalla bocca, gli aghi, stacchi tutto, ricopra la parte...Insomma restituitemela dignitosamente."

Adesso Alfredo ha oltrepassato la zona filtro ed è entrato in sala operatoria con le braccia alzate, l'assistente gli va incontro per infilargli i guanti.
Tu sei sotto la scialitica.
A me resa il compito più atroce: avvertire tua madre.
E' partita per Londra questa mattina, lo sai, doveva intervistare qualcuno, un ministro credo, era molto eccitata.
Il taxi con lei dentro ti ha preceduto di poco sotto il portone.
Vi ho sentite discutere in bagno.
Sabato sei rientrata un pò troppo tardi, a mezzanotte e un quarto, quei quindici minuti di ritardo sull'orario convenuto l'hanno irritata molto, su certe cose non è affatto indulgente, non sopporta gli strappi, le sembrano un vero e proprio attentato alla sua calma.
E' una madre gentile, nonostante questa rigidità, che certo la tutelano, ma, credimi, la opprimono anche.
Lo so che non fai nulla di illecito, ti incontri con i tuoi amici davanti alla scuola sbarrata.
Restate a parlare nel buio, nel gelo, stretti alle maniche dei pullover che vi allungate sulle mani, sotto le scritte, sotto quel grande graffito.
Ti ho sempre lasciata fare, mi fido di te, mi fido anceh dei tuoi errori.
Ti conosco per quella che sei a casa e nei rari momenti che stiamo insieme, ma non so cosa sei con gli altri.
So che ahi un bel cuore, e lo sperdi tutto nel solco di grandiose amicizie.
Brava, è uno scintillio che vale la pena di vivere.
Ma tua madre non la pensa così, pensa che studi poco, che sprechi energie, e che non raggiungerai per tempo le tappe dei tuoi studi.
Qualche volta tu e i tuoi amici attraversate a piedi l'isolato e vi interrate in quel pub all'angolo, quel budello fumoso sotto il livello della strada.
Ho infilato gli occhi una volta, dall'alto, dentro una di quelle finestre basse sul marciapiede, vi ho visti ridere, abbracciarvi, schiacciare le cicche nei posacenere.
Ero un cinquantenne elegante e solo a spasso nella notte e voi eravate lì in basso oltre quelle finestre con le grate dove i cani si fermano a odorare, eravate così giovani, così serrati.
Siete bellissimi, Angela, volevo dirtelo.
Bellissimi.
Vi ho spiati, vergognandomi quasi, con la stessa curiosità con cui un vecchio guarderebbe un bambino che scarta un dono.
Si, vi ho visti scartare la vita, là sotto, in quel pub denso di fumo.

 
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Post N° 6

Post n°6 pubblicato il 02 Agosto 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

Resto con Alfredo, ci sediamo nella stanza vicino alla rianimazione.
Alfredo accende la luce del diafanoscopio, posa la tua TAC lì sopra e la guarda da molto vicino.
Si ferma in un punto, stringe la fronte tra i sopraccigli, sforza lo sguardo.
So cosa vuol dire cercare una traccia che ti corra in aiuto dentro la nebolusa di una radiografia.
"Vedi" dice, "l'ematoma principale è questo, appena sopra la dura madre, lo raggiungo facilmente...Bisogna vedere quanto sta soffrendo il cervello, questo non lo posso prevedere. Poi c'è un punto qui, più interno, non lo so, forse è un versamento da contraccolpo..."
Ci guardiamo dentro quella luce livida che proietta alle nostre spalle il tuo cervello.
Sappiamo di non poterci mentire.
"Potrebbero esserci complicanze ischemiche già in corso" sussurro.
"Devo aprire, così capiamo."
"Ha quindici anni."
"Meglio, il cuore è forte."
"Lei non è forte...è piccola."
Mi piego sulle ginocchia e ora piango, senza ritegno, premendomi le mani sulla faccia bagnata:
"Morirà, vero? Lo sappiamo tutti e due, ha la testa allagata."
"Non sapiamo un cazzo, Timoteo."
E' sceso in ginocchio da me, mi prende per le braccia e mi scuote forte, e intanto scuote se stesso:
"Ora apriamo e vediamo. Aspiro l'ematoma, do fiato al cervello e vediamo che succede."
Si tira su.
"Stai dentro con me, si?"
Mi passo l'avambraccio sotto il naso e sugli occhi prima di rialzarmi.
Sulla peluria mi resta una scia luccicante di muco.
"No, non mi ricordo nulla del cervello, non ti servirei a niente..."
Alfredo mi fissa con quel suo sguardo imperterrito, sa che sto mentendo.

In ascensore non parliamo più, guardiamo in alto i numeri luminosi dei piani che scompaiono.
Ci separiamo senza parole, senza nemmeno toccarci.
Faccio pochi passi e mi siedo nel salotto dei medici.
Alfredo si sta preparando.
Inseguo col pensiero i suoi gesti, quel rituale che conosco così bene.
Le braccia scivolano fino ai gomiti nel grande lavabo d'acciaio, le mani scartano la spugna disinfettata, ho l'odore dell'ammonio nel naso...
L'infermiera gli passa le pezze laparatomiche per asciugarsi, la ferrista gli lega il camice.
C'è un silenzio insolito qui intorno, un silenzio di gente ammutolita.
Un infermiere che conosco bene passa davanti alla porta che è aperta, incrocio il suo sguardo: uno sguardo che subito precipita a terra, sui passi di gomma.

 
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Post N° 5

Post n°5 pubblicato il 02 Agosto 2005 da unaqualunque_s
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C'era una scatola per terra con scritto sopra rifiuti pericolosi, prendo l'uomo e lo butto lì dentro.
Devo farlo, è il mio dovere, l'unica cosa che mi resta.
Devo guardarti come se tu non mi appartenessi.
Un elettrodo ti lambisce malamente un capezzolo, lo stacco e lo posiziono con maggior decenza.
Guardo il monitor: cinquantaquattro battiti.
Adesso meno: cinquantadue.
Ti sollevo le palpebre, le pupille sono anisocoriche, quella destra è completamente dilatata, la lesione endocranica è in quell'emisfero.
Bisogna operarti immediatamente, per afr respirare il cervello, quella massa spostata dall'ematoma che ora preme contro la scatola cranica, dura, inestensibile, soffocando i centri che innervano tutto il corpo, privandoti ogni istante che passa di qualcosa di te stessa.
Mi volto verso Ada:
"Le avete fatto il cortisone?"
"Si, professore, anche un gastroprotettore."
"Ci sono altre lesioni?"
"Una sospetta rottura di milza."
"Emoglobina?"
"Dodici."
"Chi c'è in neurochirurgia?"
"Io, ci sono io. Ciao Timoteo."
Alfredo mi mette una mano sulla spalla, ha il camice sbottonato, i capelli e la faccia bagnati.
"Mi ha telefonato Ada, ero appena andato via."
Alfredo è il migliore nella sua divisione, eppure non gode di grande considerazione da perte di nessuno, è incerto nei modi, spesso scostante, senza meriti visibili; opera all'ombra del primario, si spompa mentre quello sta a guardare.
Gli ho dato dei consigli tanti anni fa, ma lui non mi è stato a sentire, il suo carattere non è all'altezza del suo talento.
E' separato dalla moglie e so che ha un figlio adolescente, più o meno della tua età.
Non era di guardia, avrebbe potuto sottrarsi, a nessun chirurgo fa piacere operare il parente di un collega.
Invece si è buttato su un taxi, si è fatto lasciare in mezzo al traffico, per far prima ha scavalcato le macchine sotto la pioggia.
Non so se io avrei fatto lo stesso.
"E' pronto di sopra?" dice Alfredo.
"Si" risponde l'infermiera.
"Saliamo subito."
Ada si avvicina a te, ti stacca dal respiratore automatico e ti riattacca al pallone di Ambu per trasportarti.
Poi ti mettono in viaggio.
Vedo un tuo braccio che cade oltre la barella mentre ti caricano sull'ascensore, Ada si abbassa per raccoglierlo.

 
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Post N° 4

Post n°4 pubblicato il 02 Agosto 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

La porta della sala operatoria si è richiusa silenziosa e profonda alle nostre spalle.
Eravamo fermi l'uno davanti all'altra nella sala della preanestesia.
"Allora?"
Il petto di Ada era in affanno sotto la casacca, le braccia scoperte, chiazzate di freddo.
"C'è una ragazza giù da noi, professore, con un trauma cranico..."
Senza quasi accorgermene, con un gesto automatico mi ero sfilato i guanti.
"Mi dica."
"Ho trovato il diario...c'era il suo cognome, professore."
Ho alzato una mano, le ho strappato la mascherina dal viso.
Non c'era più concitazione nella sua voce, il coraggio era finito.
C'era una richiesta di aiuto calma e sfiatata:
"Come si chiama sua figlia?"
Credo di essermi piegato su di lei per guardarla meglio, per cercare nel fondo dei suoi occhi un nome che non era il tuo.
"Angela" ho soffiato dentro quegli occhi, e li ho visti dilagare.

Ho corso giù per le scale, ho corso sotto la pioggia dell'esterno, ho corso mentre un'ambulanza che arrivava sparata inchiodava a due passi dalle mie gambe, ho corso dentro i battenti della porta a vetri dell'astanteria, ho corso attraverso la sala degli infermieri, ho corso nella stanza dove qualcuno con un arto fratturato gridava, ho corso nelle stanza accanto, vuota e in disordine.
Mi sono fermato.
C'erano i tuoi capelli per terra.
I tuoi capelli castani e ondulati raccolti in un mucchietto insieme a qualche garza insanguinata.
In un attimo sono polvere che cammina.
Mi trascino dentro il reparto di rianimazione, lungo il corridoio, fino alla parete di vetro.
Sei lì, rasata, intubata, cerotti chiari intorno alla faccia gonfia e annerita.
Sei tu.
Oltrepasso il vetro e ti sono accanto.
Sono un padre qualunque, un povero padre sfondato dal dolore, senza saliva in bocca, sudato e freddo tra i capelli.
E' qualcosa che non può andare giù, resta in stallo in un vago limbo di stupore.
Sono in bambola, in embolia di dolore.
Chiudo gli occhi e rifiuto quel dolore.
Tu non sei lì, sei a scuola.
Riaprendo gli occhi non ti troverò.
Troverò un'altra, non importa chi, una a caso nel mondo.
Ma non te, Angela.
Spalanco gli occhi e sei proprio tu, una a caso nel mondo.

 
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