Triballadores

di Vittorio Casula

 
 

 

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Messaggi di Marzo 2015

Legge Fornero

Post n°2258 pubblicato il 30 Marzo 2015 da deosoe

 

Pensioni, la Cgil chiede un tavolo per cambiare legge Fornero

"Nonostante i reiterati annunci, non ci è ancora arrivata la convocazione del ministro Poletti per discutere di previdenza. Ribadiamo la necessità di aprire il prima possibile un tavolo per cambiare in modo radicale la legge Fornero". Con queste parole la segretaria confederale della Cgil Vera Lamonica, intervenendo all'iniziativa dello Spi Cgil 'Pensieri e Pensioni', è tornata a chiedere un incontro al governo, come fatto più volte nelle ultime settimane, anche con Cisl e Uil.

"Non si può più aspettare, occorre introdurre meccanismi di flessibilità in un sistema rigido e iniquo - continua Lamonica - in cui l'innalzamento dell'età pensionabile, destinato a crescere progressivamente con l'aumento delle aspettative di vita, ha portato al raggiungimento di soglie insostenibili. Soglie che vanno abbassate modificando i requisiti di accesso alla pensione". La dirigente sindacale precisa che "la flessibilità non può però essere barattata con ulteriori penalizzazioni: il sistema contributivo comporta già una riduzione dell'assegno in caso di pensionamento anticipato, e ulteriori tagli non sarebbero ammissibili". "Un intervento è doveroso anche in nome della giustizia sociale", sostiene Lamonica, che spiega come l'innalzamento dell'età pensionabile si abbatta "su tutti i lavoratori e su tutte lavoratrici, indipendentemente dagli impieghi svolti". "È inaccettabile: i lavori non sono tutti uguali e non si può chiedere a chi ha un'occupazione usurante o comunque gravosa, di lavorare fino a 67 anni. Così come non è possibile non tener conto dei lavoratori precoci".

Infine, per la segretaria confederale della Cgil "mettere mano alla legge Fornero è necessario anche per il futuro dei giovani". Infatti "ad essere maggiormente penalizzati dalle norme introdotte dal governo Monti, oltre alle donne, sono coloro che a causa della dilagante precarietà hanno carriere e storie contributive discontinue". "Se oggi vivono una condizione occupazionale di incertezza e di bassi salari - sottolinea - rischiano domani di diventare pensionati poveri, un danno enorme per il futuro del Paese". 

 

 

 
 
 

Ospedali

Post n°2257 pubblicato il 30 Marzo 2015 da deosoe

 

Ultimo giorno per gli ospedali psichiatrici giudiziari

Sulla carta è prevista per domani la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, gli OPG, l'ultimo baluardo della logica manicomiale. "Luoghi orrendi, indegni per un paese civile" (come li ha definiti più volte il Presidente Napolitano) in cui sono ancora internate più di 700 persone. Devono essere chiusi gli OPG, senza proroghe e senza trucchi; questo lo slogan attorno al quale questo si stanno svolgendo le iniziative di mobilitazione in tante città italiane; e tra queste il digiuno a staffetta. Promosso da stopOPG, un vasto cartello di associazioni tra cui Cgil e Fp Cgil nazionali, Cosa vuol dire "senza proroghe" è chiaro: nessuna deroga al 31 marzo 2015. "Senza trucchi" invece vuol dire che dobbiamo lottare ancora: perché al posto dei vecchi Opg non nascano nuove strutture manicomiali (i "mini Opg"), disseminate nelle regioni.  Il numero di uomini e donne internati negli Opg è sceso notevolmente in questi ultimi anni: erano 1400 nel 2011, ora sono meno di 800 - secondo le Relazioni del Governo - le persone ancora rinchiuse nei sei manicomi giudiziari (Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa, Napoli, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere). Grazie all'ultima legge, approvata a maggio 2104, che privilegia le misure non detentive alternative all'internamento in Opg, le persone cosiddette "non dimissibili" sono rimaste davvero una piccola minoranza. Ma i nuovi ingressi continuano e c'è il pericolo che al posto degli Opg crescano nuove strutture manicomiali, le cosiddette Rems (i "mini Opg"), in cui si continuerà ad internare le persone invece che curarle.

L'appello StopOpg è firmato da: Stefano Cecconi (Cgil),  don Luigi Ciotti (Gruppo Abele), Franco Corleone (Garante diritti dei detenuti Toscana), Adriano Amadei (Cittadinanzattiva referente salute mentale), Denise Amerini (Fp Cgil), Stefano Anastasia (Società della Ragione), Cesare Bondioli (Psichiatria Democratica), Antonella Calcaterra (Camera Penale di Milano), Enzo Costa (Auser nazionale), Vito D'Anza, Peppe Dell'Acqua (Forum Salute Mentale), Giovanna Del Giudice (Conferenza Permanente Salute Mentale nel Mondo), Antonio Gaudioso, Tonino Aceti, Francesca Moccia (Cittadinanattiva), Maria Grazia Giannichedda (Fondazione Basaglia), Patrizio Gonnella (Antigone), Fabio Gui (Forum Salute e Carcere), don Giuseppe Insana (Ass. Casa di Barcellona Pozzo di Gotto), Elisabetta Laganà (Presidente Conf. Naz. Volontariato Giustizia), Aldo Mazza (Edizioni Alphabeta Verlag), Michele Passione (Camera Penale di Firenze), Anna Poma (coop. Con.Tatto), Alessandro Sirolli (Associazione180Amici Aq), Gabriella Stramaccioni (Libera), Gisella Trincas (Unasam), Tiziano Vecchiato (Fondazione Zancan), don Armando Zappolini (Cnca)

 

 

 
 
 

Neoplasie

Post n°2256 pubblicato il 30 Marzo 2015 da deosoe

 

Il nesso di causalità nelle neoplasie di tipo probabilistico

Una recente sentenza della Corte di Appello di Bologna interviene con una approfondita sentenza sul tema del nesso di causalità delle malattie professionali di tipo probabilistico con una critica alla metodologia della "Probability of Causation" adottata nell'ultimo decennio da parte dell'INAIL.

Gli eredi di un medico esposto a radiazioni ionizzanti deceduto per leucemia mieloide acuta avevano presentato domanda di riconoscimento dell'origine professionale e a fronte del diniego da parte dell'Istituto Assicuratore avevano  adito le vie legali.
L'INAIL  nel costituirsi in giudizio escludeva l'esistenza del nesso causale per inidoneità della dose assorbita ad indurre la patologia denunciata in applicazione del metodo della "Probability of Causation" da adottarsi nei casi di malattie tabellate non deterministiche ma probabilistiche.

Sulla base della CTU del professor Violante (direttore Istituto Medicina del Lavoro Università di Bologna)  che concludeva che la dose di radiazioni ionizzanti  ricevuta dal .... può determinare, secondo gli studi epidemiologici esaminati, un incremento del sette per cento dei casi di leucemia nei soggetti esposti il che non prova ma neppure esclude, che l'esposizione ad un tale livello di radiazioni ionizzanti possa essere considerata la causa in un singolo caso di leucemia, il Tribunale di Bologna riconosceva l'origine professionale.

L'INAIL nel proporre appello  ribadiva che la patologia in esame "figura tra le malattie tabellate non deterministiche ma probabilistiche, per cui la correlabilità lavorativa viene calcolata sulla base di vari parametri;  radiosensibilità del tessuto, età, sesso, dose cumulata di esposizione" e quindi in sede di valutazione della probabilità che tale malattia sia stata causata dall'esposizione probabilisti a radiazioni ionizzanti l'aver qualificato e quantificato con la metodica della Probaility of Causation la probabilità di nesso ponendola nella fascia sotto il 30% con un livello di confidenza del 99% (che indica quasi certezza) è nella sostanza la prova inconfutabile della inidoneità della dose assorbita nell'indurre la patologia denunciata".

La Corte di Appello sulla base degli approfondimenti richiesti al medesimo CTU professore Violante perveniva a confermare l'origine professionale della leucemia.

 

 

 
 
 

UE

Post n°2255 pubblicato il 30 Marzo 2015 da deosoe

 

Italia terza in Ue per peso oneri vari su costo lavoro

L'Italia anche nel 2014 è rimasta al top tra i Paesi Ue per l'incidenza degli oneri vari sul costo del lavoro (il 28,2%): secondo i dati Eurostat diffusi oggi solo la Francia e la Svezia ci superano con quote pari rispettivamente al 33,1 e al 31,6%. Lo scorso anno il costo complessivo di un'ora di lavoro in Italia è però cresciuto solo dello 0,7% rispetto al 2013, un tasso inferiore sia alla media dell'Eurozona (1,1%) che a quella Ue (1,4%).

Nella media Ue, il peso degli oneri extra-salariali sul costo orario del lavoro (principalmente quelli previdenziali e fiscali) si è attestato al 24,4%, incidenza che sale al 26,1% nella media dell'Eurozona. Alle spalle dell'Italia, secondo i dati Eurostat, si collocano la Lituania (28%), il Belgio (27,8%) e la Repubblica ceca (27,1%). I Paesi con meno oneri sul costo del lavoro sono invece Malta (6,9%) e Danimarca (13,1%).

In termini assoluti, lo scorso anno il costo di un'ora di lavoro in Italia è stato, in base ai dati pubblicati da Eurostat, di 28,3 euro contro i 29 della media Eurozona e i 24,6 della media Ue. Nel settore industriale l'Italia figura al di sotto della media Eurozona (28 euro contro 31,8) e sopra quella Ue (25,5), nelle costruzioni si attesta sui 24,7 euro (25,6 la media Eurozona e 22 quella Ue) e nei servizi a 27,2 euro (28 l'Eurozona e 24,3 l'Ue).

Dove invece il costo del lavoro ha superato sia la media Eurozona (28,9) che quella Ue (24,7) è il settore che raggruppa educazione, sanità, attività ricreative e altro: qui il dato segnalato da Eurostat per l'Italia è stato pari a  32,3 euro all'ora.

 

 

 
 
 

discriminazioni

Post n°2254 pubblicato il 30 Marzo 2015 da deosoe

 

Crescono le discriminazioni sul lavoro: più colpiti i marocchini e i romeni

Straniero, maschio, età 35-54 anni: è con queste caratteristiche che una persona rischia più di altre di essere discriminata sul lavoro. È quanto emerge dai dati dell'Unar, l'Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali. Su 252 casi segnalati nel 2014, il 53,6% riguardava casi di discriminazione etnica. Quasi sempre -  79,7% degli episodi - nell'accesso all'occupazione. "Si va da casi in cui la persona non è stata assunta, a parità di competenze con altri, per il cognome di origine straniera - spiega Marco Buemi dell'Unar - a quelli in cui nel momento del colloquio, di fronte al lavoratore con la pelle scura, il datore di lavoro ha detto che non aveva più bisogno di un nuovo dipendente". Il 54,3% delle vittime è maschio. Per quanto riguarda l'età, il 12,8% ha meno di 35 anni, il 67,1% dai 35 ai 54 anni e il 7,4% è over 55. Tra le nazionalità più discriminate, marocchini (19% delle denunce) e romeni (9,5%). "L'Unar interviene cercando di mediare tra lavoratore e impresa - aggiunge Buemi - e spesso la situazione si risolve positivamente".

Rispetto al totale delle denunce di discriminazione giunte all'Unar, quelle riguardanti il mondo del lavoro sono state pari al 18,8% con un incremento del 2,8% rispetto all'anno precedente. Al primo posto rimangono comunque le discriminazione causate dai mass media, pari al 24,9%. L'età è il secondo fattore di discriminazione nel mondo del lavoro: nel 2014 ha riguardato il 34,9%, mentre la disabilità il 4,8%, l'orientamento sessuale il 2,4%. Gli episodi vengono segnalati in prevalenza dalle vittime (37,3%), anche se in misura minore rispetto al passato. Sono invece in aumento le segnalazioni provenienti dalle associazioni (27,4%) e dai testimoni (26,6%).

La presentazione dei dati è avvenuta durante la Conferenza "Il lavoro che include" organizzata, oltre che da Unar, anche da Fondazione Sodalitas, Fondazione Adecco e People, nell'ambito di Diversitalavoro, il Career forum delle pari opportunità che dal 2007 facilita l'accesso al mercato del lavoro a persone con disabilità, appartenenti alle categorie protette, di origine straniera e transgender, coinvolgendo imprese e istituzioni. Nel 2014 hanno partecipato ai quattro Career forum diversitalavoro, organizzati a Napoli, Milano, Roma e Catania, oltre 1.200 candidati, che hanno potuto sostenere colloqui con 41 aziende. Durante la Conferenza  è stato anche consegnato uno speciale riconoscimento, il Diversity&Inclusion Award, alle imprese che nel 2014 hanno inserito nella propria azienda persone incontrate durante gli incontri di Diversitalavoro.

Nei prossimi mesi sono previste altre tappe di Diversitalavoro a Milano (3-4 giugno), Roma (26 novembre) e Varese: qui verrà proposto un percorso di avvicinamento che partirà ufficialmente il prossimo 21 maggio con l'evento pubblico "Diversità e inclusione nel mondo del lavoro".

da Redattore sociale

 

 

 
 
 

FIOM

Post n°2253 pubblicato il 29 Marzo 2015 da deosoe

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FIOM

Post n°2252 pubblicato il 29 Marzo 2015 da deosoe

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Il santo del giorno

Post n°2251 pubblicato il 29 Marzo 2015 da deosoe


+1+1Share _n TumblrShare on TumblrDomenica delle Palme
Domenica delle Palme

 

Nome: Domenica delle PalmeRicorrenza: 29 marzo

Nella Domenica delle Palme la liturgia ricorda l'entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme a dorso di un asino mentre tutta la folla stendeva mantelli a terra ed agitava palme. Si tratta del giorno nel quale si dà inizio alla Settimana Santa che terminerà con la resurrezione di Gesù, commemorata nella Domenica successiva, la Domenica di Pasqua. Con la Domenica delle Palme non termina la Quaresima, la quale, invece, terminerà il giovedì santo, giorno nel quale prende avvio il Triduo pasquale. La Domenica delle Palme è conosciuta anche come seconda Domenica di Passione, poiché nella Messa Tridentina, la Domenica di Passione si celebra una settimana prima.

Si tratta di una festività ricca di simbolismo e condivisa da cattolici, protestanti e ortodossi: la palma da sempre indica l'anno solare poiché produce una foglia ogni mese. La palma è anche simbolo di risurrezione poiché rinasce dalle proprie ceneri e per questo in greco è conosciuta, come "phoinix", ovvero fenice mentre, nell'occidente cristiano, laddove non ci sono palme viene spesso sostituita dall'ulivo, simbolo dell'unzione di Gesù, o da rametti intrecciati con fiori, se non ci sono palme o ulivi, come nelle zone del nord Europa.

Momento introduttivo della liturgia della Domenica delle palme è la benedizione delle palme, o degli ulivi, e la successiva processione, che inizia fuori dalla chiesa e termina dentro la chiesa, a memoria, appunto, dell'ingresso glorioso di Gesù a Gerusalemme.

Nella liturgia cristiana il tono festoso della commemorazione rimane solamente per la processione introduttiva, mentre le Letture del giorno ripercorrono la passione di Gesù.

Lettura (Gv 12, 12-16)

Il giorno seguente, la grande folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando:

«Osanna!
Benedetto colui che viene nel nome del Signore,
il re d'Israele!».

Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come sta scritto:

Non temere, figlia di Sion!
Ecco, il tuo re viene,
seduto su un puledro d'asina.

I suoi discepoli sul momento non compresero queste cose; ma, quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che di lui erano state scritte queste cose e che a lui essi le avevano fatte.

PREGHIERA. O Divino Gesù, o Dio che Ti facesti uomo per noi, soffristi, amasti e moristi, noi Ti adoriamo, e Ti veneriamo soffrendo con Te il ciclo della Tua agonia. Così sia.

PRATICA. È tradizione da millenni che i rametti di palma o di ulivo benedetti vengano conservati dai fedeli e portati a casa, per essere usati sia come dono con le persone più care che non hanno potuto presenziare alla benedizione e processione delle palme, sia per benedire la casa e la tavola del pranzo pasquale, da parte del capofamiglia, intingendo il rametto stesso nell'acqua benedetta durante la veglia di Pasqua

 

 
 
 

dal blog di Pietro Spataro "Giubberosse"

Post n°2249 pubblicato il 28 Marzo 2015 da deosoe

ingraodiffusore
 Share on FacebookShare on Facebook+1+1Share on TumblrShare on TumblringraodiffusoreQuando Ingrao inventò l’Unità26 marzo 2015Senza categoriaIl 30 marzo Pietro Ingrao compie cento anni: un secolo di vita che si è intrecciato con la storia d’Italia e con le vittorie e le sconfitte del Pci e della sinistra. Qui, per fargli gli auguri, vogliamo raccontare una parte di quella storia: quando, con un gruppo di giovanissimi giornalisti, inventò l’Unità moderna e la trasformò da quotidiano clandestino in un grande giornale popolare. Oggi può essere utile riflettere su quella sfida.Questa storia comincia a Milano con un grido di libertà che squarcia la notte nell’estate del 1943 e finisce a Budapest con un altro grido di libertà soffocato nel sangue nell’autunno del 1956. Due immagini contrapposte, in mezzo tredici anni che sconvolgono il mondo e lasciano un’impronta sulla storia d’Italia. Segnano anche la scelta di vita di Pietro Ingrao che in quel periodo si intreccia, proprio sotto la sua lunga direzione, con l’atto di fondazione dell’Unità come giornale moderno. E’ una fase sussultoria in cui accade di tutto: dalla guerra partigiana al governo di unità nazionale, dalla nascita della Repubblica alla sconfitta del 18 aprile ’48. E poi l’attentato a Togliatti, la morte di Stalin, il XX congresso del Pcus con il rapporto sui crimini staliniani. A chiudere, il terribile 1956 ungherese. Un decennio si speranze e di tempeste.Quella notte del ’43 Ingrao è nascosto in una casa di Corso Porta Nuova quando il compagno di clandestinità, Salvatore Di Benedetto, all’improvviso si alza dal letto, spalanca la finestra e urla: “A morte Mussolini”. Pietro è interdetto, tenta di fermarlo. Ma lui urla ancora più forte, perché quella è una notte particolare: è la notte del 25 luglio. La mattina a Roma Mussolini è stato destituito, il fascismo è finito. Di Benedetto spinge Ingrao nelle strade a festeggiare la libertà ritrovata, in mezzo a un fiume di gente e all’alba si unisce a loro anche Elio Vittorini. Si monta l’altoparlante su un furgone, si convoca una manifestazione a Porta Venezia: proprio lì Ingrao trova il coraggio di afferrare il microfono, che passa di mano in mano, e fa il suo primo comizio. Più tardi Celeste Negarville, direttore dell’Unità clandestina, lo sprona: bravo, ora scrivi per il giornale. Nella casa del pittore Ernesto Treccani quei redattori improvvisati preparano uno storico numero del quotidiano chiuso proprio dal Duce nel ’26. Il titolo è a tutta pagina: “L’arresto di Mussolini. Italiani gridate nelle piazze pace e libertà”. Quando i tipografi consegnano le prime copie, sono tutti emozionati: dopo la lunga clandestinità, il giornale di Gramsci torna alla luce del sole. Ma è un’amara illusione. La legalità è ancora molto lontana.Ma che razza di direttoreComincia così, in una piazza di speranza, l’incontro tra Ingrao e l’Unità. E due anni più tardi, subito dopo la Liberazione, quel quotidiano diventa la grande sfida di una nuova generazione di giornalisti comunisti. E’ tutto da fare e da inventare. In quei giorni disordinati, infatti, c’è una sola cosa chiara: fare un vero giornale. Non un bollettino di propaganda, non la Pravda. Ma un quotidiano che, come spiega a quei giovani Palmiro Togliatti, deve diventare il “Corriere della sera della classe operaia”. Insieme con Ingrao arrivano in redazione altri ragazzi tra i quali Alfredo Reichlin, Luigi Pintor, Arminio Savioli, Paolo Spriano, Maurizio Ferrara, Luciano Barca, Davide Lajolo. Hanno fatto buoni studi e buone letture. Gli intellettuali, li chiamano. Saranno loro a dare un’anima nuova all’Unità, facendolo diventare quel grande giornale di massa che sfiderà la narrazione democristiana nell’Italia del dopoguerra. L’impresa è entusiasmante e loro la affrontano con grande passione e con uno sconfinato spirito di sacrificio. A una parete della redazione in via Quattro Novembre qualcuno ha appeso un cartello che ricorda a tutti di spegnere la luce quando si va via perché i “soldi sono degli operai”. Spesso la sera i giornalisti, in attesa che arrivi il camioncino che li riporta a casa, restano in redazione a parlare. O vanno a “confessarsi” con il direttore per gli amori bruciati o la vita difficile con i quattro soldi dello stipendio. Ma c’è anche chi, in nome della rigida etica comunista, condanna quelli che considera pericolosi “cedimenti borghesi”. “Andare al cinema invece che alle assemblee di periferia, mettere da parte i soldi per una vacanza familiare, erano comportamenti furtivi”, ha scritto Luigi Pintor in quel bellissimo libro che è “Servabo”.Pietro Ingrao diventa direttore l’11 febbraio del 1947, a trentadue anni. Ci vuole l’autorità di Togliatti per imporre al gruppo dirigente del Pci quel giovane intellettuale che ama i film di Chaplin e le poesie di Montale. “Compagni, ma come si fa? Non è nemmeno membro del Comitato centrale”, protesta la vecchia guardia. La verità è che a una parte del Pci non va giù quell’idea di giornale. Non vogliono il Corriere della sera anche se della classe operaia, ma un quotidiano di partito. La scelta di Togliatti è diversa e si rivela la più giusta, come dimostrerà la lunga vita del giornale. Ingrao si mette al lavoro e inventa tutto da zero: di fatto rifonda il giornale. Il profilo nazionale e popolare del quotidiano è subito chiara. C’è molta politica, certo. Ma anche la cronaca con i grandi fatti (il delitto di Annarella Bracci e il caso Montesi), l’informazione sindacale (la Fiat e l’occupazione delle terre), le inchieste sociali (la povertà delle periferie e la scuola da cambiare), gli spettacoli (il teatro di Eduardo e Lascia o raddoppia). C’è lo sport con le “cronache dal giro d’Italia” firmate da Alfonso Gatto. Quel collettivo guidato da Ingrao si misura con il giornalismo in modo “irruento e sfacciato”. I titoli sono aggressivi, gli articoli partigiani, vengono inventate rubriche cattive (Il dito nell’occhio o il Fesso del giorno) e corsivi che tolgono la pelle agli avversari. Il giornale solletica i gusti popolari con i racconti a puntate o occupandosi di costume. Renato Mieli riesce a portare i fumetti, provocando reazioni scandalizzate. A un certo punto compare una rubrica di moda e bellezza. E quasi ogni giorno si pubblica persino la foto di una giovane con curiose didascalie: “Una camicetta di cotone, una sottana di gabardine nero e una bella ragazza compongono il gradevole spettacolo qui visibile”, dice una di queste. Negli anni in cui in Italia si affermano i primi rotocalchi (Grand Hotel nasce nel 1946 e Sogno l’anno dopo) anche l’Unità cerca di intercettare il sentimento popolare di un’Italia che ha voglia di guardare oltre le macerie della guerra.Vedi alla voce nazional-popolareLa cultura è il motore di questo nuovo giornale. La “cultura larga”, che si sporca le mani con la realtà: i migliori intellettuali si mettono al lavoro per raccontare il mondo con parole nuove. Solo per citarne alcuni: Umberto Barbaro, fondatore del Centro sperimentale di cinematografia, scrive di cinema; Giacomo Debenedetti, l’autore di 16 ottobre 1943, è il critico letterario; Bruno Barilli si occupa di musica. Appaiono sull’Unità i reportage e le inchieste di Elio Vittorini e Salvatore Quasimodo, di Massimo Bontempelli e Italo Calvino, di Carlo Bernari e Angelo Ripellino, di Mario Spinella e Gillo Pontecorvo. Gianni Rodari cura una bella pagina domenicale per i ragazzi, Sibilla Aleramo si occupa delle donne e dispensa alle lettrici i “consigli di Sibilla”. Pavese porta su quelle pagine i grandi scrittori americani. Resiste in tutta la sua potenza il mito del realismo sovietico, ma in quella prima fase, dopo la guerra antinazista combattuta insieme dall’Urss e dagli Usa, anche lo spirito del sogno americano circola nelle vene del giornale. Per comprendere meglio questo “capolavoro” di Ingrao non si deve dimenticare il clima di duro scontro dopo le elezioni del ’48 e la sconfitta dei social-comunisti. C’è una cappa sul Paese e la Dc sottopone la cultura a un regime di libertà vigilata. Gli episodi sono innumerevoli e scandalosi. Luigi Russo viene estromesso dalla direzione della Normale di Pisa per aver sostenuto il Fronte popolare. A Bertolt Brecht viene negato il visto di ingresso in Italia e Pablo Neruda riceve un provvedimento di espulsione. Lo sceneggiatore Renzo Renzi e il critico Guido Aristarco vengono condannati a sette anni e sei mesi di carcere per vilipendio delle forze armate per il film “L’armata s’agapò”. Nasce una commissione di censura a Palazzo Chigi che mette il timbro, buono o non buono, sui film. E’ il tempo dello “scontro di civiltà”, dei cosacchi che arrivano a San Pietro e del Papa che lancia scomuniche. L’Unità di Ingrao si conquista così – prima che arrivi il gelo togliattiano a raffreddare i rapporti con gli intellettuali – una vera e propria “funzione liberale” contro l’oscurantismo democristiano. La stessa fermezza mette, quel giornale, anche nella battaglia in difesa della democrazia e della Costituzione: negli archivi è conservata una foto di Ingrao con la testa insanguinata dopo essere stato picchiato dalla polizia a una manifestazione contro la “legge truffa” nel ’53. Accanto a lui c’è il cronista parlamentare Maurizio Ferrara che lo accompagna alla Camera dove Ingrao attacca in modo plateale: “Non ho bisogno di dire molte parole perché le condizioni nelle quali mi presento in quest’aula sono la migliore dimostrazione del modo con cui vengono rispettati i diritti dei cittadini e dei deputati”.Compagni dai campi e dalle officineE’ il tempo feroce dei nemici. Della polizia che picchia e che spara contro gli operai, contro i contadini. Per questo il lavoro è l’altro motore – forse il più brillante – che dà velocità all’Unità di Ingrao. Oggi può apparire una ovvietà, ma in quegli anni è un caso editoriale nel panorama di una stampa che aveva lo sguardo da un’altra parte. L’Unità decide che quel pezzo di paese dimenticato è il suo target. E per segnalare il senso profondo di questa scelta, si muove anche il direttore. Lo fa dopo la strage di Melissa, piccolo centro calabrese dove nel ’49 la polizia di Scelba fa fuoco sui braccianti. Quell’inchiesta esce in prima pagina il 23 dicembre del 1949. Vi si raccontano, con una prosa tipicamente ingraiana, i “segni del rancore e dell’asprezza che i latifondisti portano nella lotta” con l’obiettivo di arricchirsi a condizione delle “lacrime delle famiglie di Melissa, della disperazione cupa dei disoccupati di Punta delle Castelle, dell’accettazione da parte dei braccianti calabresi di quell’infame salario che non raggiunge a volte le ottomila lire al mese”. Il direttore cerca di allargare il campo e coinvolge scrittori e registi. Scrive una lettera aperta a Cesare Zavattini e lo invita a raccontare il dolore degli ultimi. Alberto Jacoviello viene inviato sul campo in un lungo “viaggio nell’Italia dei diseredati”. Le tappe sono tante croci conficcate nel corpo di un Paese che affronta con durezza la costruzione della Repubblica fondata sul lavoro: le baracche di Margellina, i contadini del Vulture, i braccianti in lotta a Minervino e Andria. .Questa linea d’attacco, che punta su un’identità chiara e sulla qualità giornalistica, dà presto i suoi risultati: il quotidiano cresce, nascono le prime associazioni Amici dell’Unità. La diffusione diventa capillare e presto si vendono oltre 400 mila copie. Poi arrivano le feste dell’Unità che diventano la “grande piazza” del giornale: giochi, comizi, balli, concorsi di “reginetta dell’Unità” e tavolate. E’ un mix popolare straordinario, che ha un grande successo. Si può dire che già nella seconda metà degli anni Quaranta l’operazione guidata da Ingrao sembra riuscita: l’Unità è diventato un grande giornale.Firmato TogliattiDalla sua stanza di Botteghe Oscure Togliatti vigila su quelle redazioni. Spesso bacchetta i giornalisti. A volte li esorta. I famosi bigliettini scritti con l’inchiostro verde fanno le pulci quasi ogni giorno. A un cronista che nei suoi articoli usa troppo spesso il “quando” Togliatti fa notare: “Vedo che usi molto il verbo quare al gerundio”. E’ sarcastico, in modo insopportabile, se deve criticare Ingrao: “Caro compagno, siamo un gruppo di lettori assidui e anche amici dell’Unità…e protestiamo per il modo come i tuoi critici rendono conto delle commedie, dei drammi, dei film. Non si capisce nulla…”. E’ sprezzante quando si arrabbia per gli elogi che il giornale riserva al film “Ventimila leghe sotto i mari” di Disney. Si irrita se il quotidiano la spara troppo grossa sbagliando obiettivo politico. Così, dopo l’attentato del luglio del ’48, appena tornato in forma si riguarda i numeri dell’Unità di quei drammatici giorni e – come ha raccontato Giorgio Frasca Polara – s’arrabbia per un titolo che grida in prima pagina “Via il governo della guerra civile”. Dice a Nilde Iotti: “Se avessero scritto via il ministro dell’Interno, questa sì che sarebbe stata una richiesta non solo plausibile ma anche accettabile”. Accettabile, si saprà poi, perché proprio in quei giorni Aldo Moro, che era sottosegretario, aveva posto a De Gasperi insieme ad altri il tema delle dimissioni di Scelba.Ma Togliatti non è solo il censore feroce. E’ anche il difensore di Ingrao e della sua redazione. Lo fa nelle riunioni della Direzione, quando l’Unità viene crocifissa perché parla poco del partito e della Russia. Il Migliore respinge gli attacchi e si fa garante di quei giovani un po’ “scapestrati”. E difende il giornale anche dalle pressioni esterne. Succede, per esempio, nel 1950 quando Ingrao è convocato a Bucarest per una riunione del Cominform sulla stampa comunista e viene messo sul banco degli accusati: poco spazio ai successi dell’Urss, pochi articoli sul marxismo-leninismo, troppo invece alla cronaca nera e perfino alle foto con le “donnine nude”. Meglio il Rude Pravo, tuona Suslov. Ingrao le considera critiche sbagliate, ma si sente quasi delegittimato e per questo, al ritorno in Italia, come racconta lui stesso in “Volevo la luna”, va a trovare Togliatti. “Sono pronto a farmi da parte, sei libero di cambiare direttore”, gli dice scuro in volto. Togliatti lo guarda sorpreso. Non ci pensa proprio a cambiare direttore e taglia corto: “Continuate a fare come state facendo”.Archiviare Baffone“Le parole ci cadono sulla testa come chicchi di grandine”. E’ il 5 giugno del 1956, il New York Times ha appena pubblicato il rapporto segreto di Krusciov su Stalin e nella redazione di Milano Gianni Rodari lo legge ad alta voce tra lo sconcerto. A Roma Ingrao ha saputo già da febbraio dal corrispondente da Mosca Giuseppe Boffa, ma quelle poche frasi che filtrano allora dal congresso del Pcus sono così dirompenti che si preferisce usare cautela. Troppa cautela. Si aspetta che torni Togliatti per saperne di più. Ingrao va alla stazione Termini ad accogliere il capo del Pci e domanda: che ne sappiamo di questo rapporto segreto? Nessuna risposta. In redazione i giornalisti sono sbalorditi e fanno pressioni sul direttore affinché insista. Lui ci riprova, ma non c’è niente da fare. In questo strano silenzio Ingrao, però, decide di intervenire il 21 marzo con un editoriale dal titolo significativo: “Nuove vie aperte”. E’ un articolo importante perché rivendica il coraggio di discutere degli errori compiuti perfino da “una grande figura del movimento operaio qual è quella del compagno Stalin”. E centra il punto politico che poi infiammerà il dibattito all’ottavo congresso del Pci: è possibile la “trasformazione del regime sociale seguendo un’altra via”? La sua risposta è sì. E’ la “via italiana al socialismo” con la quale si opera il cambiamento “sul terreno della democrazia politica e degli istituti parlamentari”. Scrive Ingrao: “Noi non restiamo incartapecoriti al passato ma sappiamo andare avanti e cercare il nuovo”. E’ forse il primo indizio di una riflessione critica sul regime sovietico e sul ruolo del Pci. Ma quel barlume si spegne presto e la reticenza si impone sulla voglia di aria nuova. E infatti a giugno, quando la bomba Stalin esplode con un fragore assordante, l’Unità tace. Quella reticenza costituisce un problema. Pesa sui giornalisti, pesa sui lettori. Soltanto il 13 giugno compare in prima pagina un comunicato dell’ufficio stampa del Pci con il quale si annuncia un’intervista che Togliatti ha concesso alla rivista Nuovi argomenti. Ogni paese, dice il leader del Pci, deve seguire la sua via al socialismo, non esiste più un paese-modello. Sembra una svolta. Che Ingrao infatti decide di cavalcare dando grande risalto alle reazioni suscitate dalle parole di Togliatti. E lo stesso direttore scriverà, in un editoriale non firmato, che bisogna liberarsi da “ogni ipoteca”.Il dimenticabile ’56Il 1956 è un anno tremendo e sembra non finire mai. Proprio nei giorni in cui, molto faticosamente, si riesce a parare il colpo del rapporto segreto, dall’est arriva un’altra tegola. A fine giugno scoppia la rivolta di Poznan. Gli operai della fabbrica polacca Zispo protestano per le paghe ridotte e i turni massacranti. La polizia spara: trentotto morti, centinaia di feriti. La versione polacca è netta: sono stati i provocatori imperialisti. Vito Sansone è il primo giornalista occidentale ad arrivare a Poznan. Ingrao ci apre il giornale del 1 luglio: “L’inviato dell’Unità a Poznan ha parlato con gli operai della Zispo”. Un titolo sbiadito, non c’è dubbio. Ma Sansone racconta la rabbia degli operai, l’indignazione per il comportamento della polizia, i dubbi sulla ricostruzione. Sono dubbi, espressi anche dal capo della Cgil Di Vittorio, che però non avranno vita lunga. Solo qualche giorno dopo, infatti, su quelle domande cala la mannaia di un editoriale di Togliatti intitolato, non a caso, “La presenza del nemico”. Tutta colpa dei provocatori. Punto.Il vento, però, non si può fermare con le mani. Ingrao tenta in tutti i modi di insinuarsi negli spiragli di riflessione aperti da quel dramma che viene da est. Ci prova a settembre inviando Alfredo Reichlin e Luciano Barca in Unione Sovietica: andate e raccontate, dice loro. Al ritorno i due giornalisti scrivono un lungo reportage a puntate. L’impressione che ricavano è problematica: “La visione di scorcio che abbiamo avuto della società sovietica è stata tale da modificare profondamente gli schemi politici e sentimentali che avevamo nella testa”. Partiti da Roma con tante certezze capiscono che le loro idee “avevano il difetto di riferirsi a una visione mitica dell’Unione sovietica”. Ma proprio ora che questi primi, anche se timidi, segnali di dubbio si affacciano, arriva una nuova mazzata che cambierà la storia e soffocherà ogni pensiero critico. Il 23 ottobre una manifestazione di studenti sfocia in una rivolta contro il governo e il partito a Budapest. Anche in questo caso è la “presenza del nemico” a spiegare tutto. “Scontri nelle vie di Budapest provocati da gruppi armati di contro-rivoluzionari”, è infatti il titolo dell’Unità. Il giorno dopo Ingrao scrive quell’editoriale non firmato che lo perseguiterà a lungo e sul quale farà una spietata autocritica: “Da una parte della barricata a difesa del socialismo”. E’ una linea sbagliata, che chiude l’Unità in un recinto. Ingrao ne è consapevole e quando il 4 novembre l’Armata Rossa invade Budapest va a trovare Togliatti e gli esprime il suo “sgomento”. Il segretario lo liquida con sarcasmo: “Oggi invece io ho bevuto un bicchiere di vino in più”. Ingrao resta in silenzio, non sa rispondere. Non ha il coraggio di rispondere. E il titolo dell’Unità, il giorno dopo, è tristemente trionfalistico: “Le truppe sovietiche intervengono in Ungheria per porre fine all’anarchia e al terrore bianco”.Un’occasione mancata i cui effetti saranno pesanti: la redazione è in subbuglio e molti scrittori sono sul piede di guerra. Alcuni di loro scrivono un testo critico con il Pci che passerà alla storia come il “manifesto dei centouno”. Tra i firmatari ci sono personaggi importanti: da Carlo Salinari a Carlo Muscetta, da Paolo Spriano a Natalino Sapegno, da Alberto Asor Rosa a Renzo De Felice, da Enzo Siciliano a Elio Petri. La sera in cui la lettera diventa pubblica nelle stanze del giornale – che si rifiuta di metterla in pagina – il clima è brutto. Ingrao è teso. “Quando entrai nella sua stanza mi accolse con uno sguardo che voleva dire: tu quoque”, ricorda Spriano nel libro “Le passioni di un decennio”. Arriva persino Togliatti e si mette a discutere nei corridoi. Ha un battibecco con Tommaso Chiaretti, eccellente corsivista, che difende le critiche al Pci. Alla fine il segretario perde la pazienza e urla: “Volete fare una frazione contro la direzione del partito? Allora la farò anch’io la frazione. Vedremo chi avrà la maggioranza al congresso”.Quel trambusto, che divide e provoca lacerazioni, spinge Ingrao a reagire: decide di mandare a Budapest uno dei suoi inviati di punta, Alberto Jacoviello. Il suo primo reportage esce il 13 novembre, quando ormai l’invasione è compiuta. Ma quell’articolo apre un altro squarcio di verità: “Eppure non si può dire che tutti coloro che hanno preso le armi in Ungheria siano fascisti o banditi. Errore sarebbe dimenticare che al movimento hanno partecipato anche i lavoratori”, scrive Jacoviello. Ma il tempo sembra scaduto e la ferita del ’56 non si può più rimarginare. E’ il tempo dei sogni che muoiono. E’ il tempo della Bonaccia delle Antille, come scriverà più tardi Italo Calvino: “Il capitano aveva spiegato che la vera battaglia navale era quello star lì fermi guardandoci, tenendoci pronti, ristudiando i piani delle grandi battaglie navali…”.Quando lascia la direzione dell’Unità, Pietro Ingrao si porta sulle spalle questo decennio di ferro e di fuoco. Le sue speranze, i suoi sogni e i suoi errori. Entra nella segreteria del Pci ringiovanita con cui Togliatti cerca di rispondere alla drammatica crisi del 1956. Ma prima di andare via chiede e ottiene che alla guida del giornale ci siano, l’uno a Roma e l’altro a Milano, due giovani brillanti molto dubbiosi sui fatti di Budapest. Due giornalisti in grado di contrastare le spinte normalizzatrici che vengono dal partito: Alfredo Reichlin e Aldo Tortorella. Ingrao vuole difendere l’Unità moderna cresciuta, nonostante gli sbagli, dentro quelle bufere. Vuole che resti un giornale popolare con un profilo culturale aperto e serio. Un giornale curioso, battagliero. La notte del 30 dicembre del 1956 compie, si può dire, il suo ultimo atto da direttore: inaugura la nuova sede di via dei Taurini, a San Lorenzo, che ha una rotativa modernissima. Una foto lo ritrae con il bicchiere in mano mentre brinda al futuro del suo giornale. E se il futuro poteva esserci, come di fatto c’è stato, gran parte del merito lo si deve a lui. A quell’uomo che ha preso in mano un’Unità clandestina orfana di Gramsci e l’ha trasformata, navigando in mare aperto spesso contro vento, in un grande giornale di popolo.

 
 
 

Pietro Ingrao

Post n°2248 pubblicato il 27 Marzo 2015 da deosoe

Scritti di Pietro Ingrao 1936 - 1954
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MI SONO MOLTO DIVERTITO - SCRITTI 1936 - 1954PDFStampaEmail
INDICE
Mi sono molto divertito
Scritti 1936 - 1954
Scritti 1976 - 1997
Scritti 1999 - 2003
Trattamento di Jeli il pastore
Tutte le pagine
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Scritti di Pietro Ingrao

1936 - 1954

 

Cinema Colonna

Al ritorno della campagna, s'apriva la scuola di Cinematografia. V'entrai come chi faccia una valigia per domani e v'infili due libri, che forse gli serviranno e vorrà leggere, ma se la valigia è colma è tentato ad ogni attimo di metterli da canto; col peso di un autunno che non riusciva a comporsi su un ordine, e la mancanza di un ritmo, per occhi cresciuti da sempre ad uno sciogliersi sereno nel tempo delle campagne e del mare, era una fatica ed una pena che si scontava ora ad ora.

I primi giorni non bastava la curiosità della cosa: gente che non si conosceva, ci si guardava da lontano, staccati, in sospetto l'uno dell'altro. C'erano cortili ampi che mi ricordavano l'infanzia con le partite di calcio, rischiate contro il volere di casa, le palle di stracci, un grosso violino che imparavo a suonare allora e mi portavo appresso nelle ore rubate per il gioco. Accanto, una scuola d'avviamento al lavoro, che mi inquietava con l'immagine precisa d'una vita che si svolgeva cosciente ed aveva i suoi tempi e le sue avventure.

Io facevo passeggiate lunghissime ed ogni volta che ritornavo alla scuola mi pareva un tradire.

Il principio fu duro. Ma forse quella prima asprezza liberò la voglia nei muscoli: il sentire che quella scorza d'ingrato poteva essere un'esperienza che giovasse, e molto. Ormai i giorni sonavano dentro, anche se sonavano amaro.

Venivano i primi freddi, e si chiarivano naturalmente le amicizie. Il cinematografo si coloriva come materia, liberava dagli occhi ogni falso, ogni nebbia, ogni giro tortuoso. Chi stava a chiedersi se il cinematografo era un'arte; se il problema dell'industria avrebbe soffocato l'intelligenza? Nessuno doveva domandarselo. Noi scoprivamo un paese dove cadeva il giorno e la notte, dove la valle dava frutto e i monti s'aprivano agli occhi: un paese da vivere intero, goderlo e lavorarlo. Di quei mesi, l'incontro con l'opere antiche ma belle. Nascevano e morivano in un modo misterioso, generavano una musica che non si spiegava, ma si segnava meglio negli occhi, come un nevicare in un campo. Noi eravamo innamorati. Venne il Natale e fu una pausa giusta. Ognuno stette con una voglia forte di lavorare, ma senza fortuna.

Pure si ritornò più calmi e freschi come dopo un sonno. Le amicizie si fecero più serrate, s'incontravano in un punto comune. Cominciarono i viaggi nella città alla ricerca dei films dimenticati: gennaio recava nei pomeriggi piogge pigre, e a me piaceva dormire.

In quei giorni m'addormentavo nei cinematografi: su certe sedie d'angolo, il braccio poggiato su ringhiere di legno che portavano dipinti angeli verdi e celesti e grossi mazzi di fiori rossi. Le maschere vigilavano silenziose ed un amico mi svegliava al momento buono. Ricordo un cinematografo profondo, selciato, dai finestroni alti, appena bui, che rammentava gli androni della mia casa paterna; dove le piogge risonavano lunghe, marine, e al risveglio mi toccava una luce leggera, di latte, come un'alba nebbiosa. Le immagini sul rettangolo dello schermo nascevano accanto a quelle sottili dei sogni; imparavamo il valore delle sembianze, che il bianco e nero della fotografia formava e scioglieva in un cadere continuo, come un tempo: segni di un alfabeto, verdissimo. Io dinnanzi ad alcune comiche di Charlot spiegavo ad un amico che si trattava di un sogno ordinato, i termini essenziali fermati in apparenze e distesi in ritmo, con i modi più limpidi ed elementari.

Amavamo la fantasia ed il racconto semplice; innamorati anche noi, come una volta gli strapaesani, del viennese Stroheim e dei suoi monaci, che sorgevano sulla terra le notti di tempesta, dei sobborghi sudici (custoditi da grandi mandorli) che la plebe agitava e gli aristocratici cattivi come il diavolo visitavano. Films muti ci nutrivano una passione per la favola che non tollerava fastidi di montaggi astrusi, impagli d'angolazioni, compilazioni sapienti, verosimiglianze. Si faceva chiaro per noi che il cinematografo voleva soprattutto immaginazione, e chi aveva fantasia sincera, estro genuino poteva giuocare sicuro.

Della brigata era un compagno particolarmente ingordo che sgranocchiava sempre mostaccioli durissimi e spesso urlava; noi ci tenevamo lontani dalle sale ben messe per non correre rischi e ci buttavamo in periferia. Ciascuno di noi cercava figure vedute una volta, in qualche corsa rapida alla borgata: ragazze d'una diffidenza spinosa che rispondevano irto e pure dovevano essere docili.

Ad ogni occasione di caccia tradiamo il film; ma il cinematografo non ci portava sempre fortuna. Erano allora attese crucciate su strade, che guardavano prati ed anfratti boschivi, dove ognuno passava - la donna col canestro del latte e l'uomo che sfilava silenzioso in bicicletta - ti scrutava fisso; fino a quando dalle nubi cominciava una pioggia quieta e infinita, e non restava che cacciarsi in un'osteria, col malumore negli occhi e il ricordo di quei prati nascenti.

C'era modo più tardi d'avventurarsi per i quartieri sconosciuti incontro a piazze buie e sonore in cui riposare il respiro; vie dove ti cadevano intorno i bambini come nei paesi. Conoscemmo librai ambulanti, venditori di cioccolatini che improvvisavano farse nei crocicchi (chi si scorderà di quella ragazza che ci vendeva i numeri, gli occhi d'una malizia aperta e lustra, che decantavano sapienza); una bambina che faceva l'acrobata nell'osterie, perché la mamma stava male (si toglieva il gonnellino in un canto protetta da una zia rugosa, vestita d'un lungo camice marrone - e quando le demmo dei soldi ci fece un sorriso stanco di antica esperienza). La sera, di ritorno nei tram lenti e anziani, il cappello rideva di pioggia e il sonno cadeva sugli occhi leggero. Il mio cappello era gloriosissimo.

Il nostro cinematografo s'ordinava così in una conoscenza naturale e semplice degli uomini, in un viaggio alla scoperta della nostra città e dei nostri luoghi. Cresceva da un amore alle cose, da un attento entusiasmo, da un cosciente abbandono al respiro del tempo, che ci sembrava allora e ci sembra ancora la sola misura essenziale di vita, la sola grande avventura possibile.

Coi primi annunci della primavera amici partirono. Veniva un tempo nuovo e noi lo sentivamo: ora pensavamo sempre alle ragazze, ma come fosse sorta una distanza nuova, si fosse scoperto un cammino che non finiva mai, una lontananza.

I cinematografi furono abbandonati. Io avevo ripreso le passeggiate lunghe da solo e la stagione mi sconvolgeva, segnandomi ad ogni passo, ad ogni giorno, ad ogni trascorrere d'ora; i grandi prati lungo le mura antiche spalancate nel cielo, ed il ritorno degli alberi sulle colline della città, stormenti.

Dalla contemplazione di queste cose non so come accadesse che mi nasceva uno sgomento, un timore che tutto ciò venisse a mancare d'un tratto, mi sfuggisse via. Ritornavo, come da ragazzo, a pensieri di isole lontane e di paesi che la stagione mutava: la primavera nel mondo.

Nel sangue s'originava un fervore e ci demmo tutti a lavorare ferocemente. Alla scuola ormai tacevano le discussioni, sopito ogni rancore, ogni diversità nel manifestarsi improvviso d'una fatica comune, d'una somiglianza di uomini dinnanzi al tempo e al lavoro.

I giorni dell'inverno vivevano di quell'entusiasmo che ci avevano dato ed il ricordo cresceva la pena e il desiderio di non tradire, di non mancare un abbraccio, che avevamo pensato in sogno. Ogni errore diveniva fonte di sconforti grandi, che duravano, ed ogni invenzione colmava giorni e luoghi.

Si faceva caldo: dal paese giungevano parenti in affari con le notizie del grano e della stagione. Noi cominciavamo a pensare ai cieli assordanti di cicale, alle stanze campestri abitate dal vento e dall'ombre degli alberi, alle grandi bevute rigati di sudore.

Nell'attesa ci davamo a riflettere che il caldo era propizio al cinematografo. Ora ch'era chiusa la filza delle novità, ritornavano in campo con un colore pallido di vecchia bandiera le pellicole sdrucite e garibaldine.

Aspettavamo la stagione al Colonna. Di tutti i cinema rozzi e nobili da pochi soldi il Colonna era l'antico, il primogenito. Simile ad un signore di razza, imprigionato dall'inverno nella città eguale, che nell'estate ritorni in villa e tiri fuori di nuovo servitù e carrozze, doppieri d'oro e stoffe di pregio; il Colonna, dopo la bassa cronaca dell'anno, nei mesi dell'estate annunziava i campioni più validi, le opere che si mangiavano gli anni: Charlot, Keaton, Douglas, i muti tedeschi e così via.

Per tempi generazioni s'erano educate al Colonna ed era sempre sangue denso che veniva alle vene impoverite dai digiuni sofferti per il passato. Noi aspettavamo: come i contadini i quali, ad ogni venuta della stagione buona, temono che con il freddo il padrone sia morto nella città e la villa resti chiusa per sempre.

Poi d'un tratto vi fu il buio, come una malattia. Fui occupato per molto; quando a poco a poco potetti riprendere i miei lavori più cari, la scuola era ormai chiusa, molti amici erano partiti, solo qualcuno ancora in giro con un'aria d'arrivederci all'anno venturo. Si tirava avanti in attesa della partenza.

Ci aiutò il Colonna: il signore si ricordò della villa. Vi trovammo un vecchio "Douglas" e fu un entusiasmo. Ogni immagine ci ridava nella compiuta bellezza della favola tutti i pensieri dell'inverno, i cammini, le scoperte. Il pubblico gridava, batteva le mani e gridavamo anche noi. Ogni atto era puerile in noi: si conchiudeva la fatica di un anno, si spiegava giusta. Sullo schermo Douglas cavalcava a sciogliere dalla prigione il Re, i cavalli fumando toccavano le cime degli olmi; e appariva come il cinematografo era stato tradito, in tutti i punti.

Vorremmo raccontarvi queste storie: storie in gran parte d'anni passati, segni d'un linguaggio che si veniva liberando e fu soffocato, dimenticato ogni giorno. Dovrà essere soltanto il cinematografo un pretesto all'ignoranza? Profitteremo del caldo e andremo in giro per quei nostri cinema, immaginando di trovarvi la ragazza che cerchiamo, e che dopo ci aspetti la cena su una terrazza aperta, alta sulla città. Forse a qualcuno verrà la voglia di fare come noi.

 

"Italia letteraria", 26 luglio 1936

 

 
 
 
 
 

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