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di Vittorio Casula

 
 

 

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Messaggi del 16/02/2015

Coppie di fatto

Post n°2110 pubblicato il 16 Febbraio 2015 da deosoe

Coppie di fatto: tutelate per la prima volta in un contratto di lavoro

E’ una vera e propria svolta. Chi mette su famiglia senza sposarsi né in Chiesa né civilmente potrà usufruire di un congedo retribuito di una settimana purché presenti un certificato che attesti lo stato di famiglia. E’ uno dei punti innovativi dell’accordo per il nuovo contratto integrativo aziendale alla Skf Industria, raggiunto, la notte scorsa, con tutti i sindacati metalmeccanici, all’Unione Industriale di Torino.

L’intesa riguarda circa 3 mila dipendenti – 2 mila in provincia di Torino, gli altri a Bari, Cassino e Massa Carrara – di nove stabilimenti italiani del gruppo svedese che produce cuscinetti a sfera per auto e per tutto il settore industriale. Nell’accordo non si parla esplicitamente di coppie gay, ma poiché lo stato di famiglia può essere rilasciato a coloro che hanno una relazione omosessuale, non c’è nessuna ragione per credere che possano essere escluse. La tutela delle coppie di fatto non è il solo punto innovativo dell’accordo, sul quale voteranno nei prossimi giorni i lavoratori: è previsto un contributo di 400 euro all’anno per chi ha figli portatori di handicap, la possibilità di prestiti aziendali per acquistare la casa, l’auto o per spese mediche, permessi retribuiti per la malattia dei figli fino all’età di 8 anni, anticipo del Tfr senza giustificazioni. Anche dal punto di vista salariale l’intesa prevede un incremento salariale significativo, legato a indici di produttività, redditività e qualità: fra 350 e 400 euro all’anno in più se tutti gli obiettivi saranno raggiunti, oltre a quanto già previsto dal vecchio Premio di Risultato.  Soddisfatta la Fiom, che tre anni fa non aveva firmato l’accordo Skf che introduceva la variabilità, a livello aziendale, degli aumenti del contratto nazionale: “E’ un’intesa importante, ricuce lo strappo e dimostra che è possibile fare accordi che prevedano miglioramenti per i lavoratori senza ridurre i diritti, e che lo si può fare unitariamente”, spiegano Federico Bellono e Edi Lazzi.

 
 
 

Welfare

Post n°2109 pubblicato il 16 Febbraio 2015 da deosoe

Welfare: Cgil, Isee percorso a ostacoli, serve proroga

In questi giorni le sedi dei centri di assistenza fiscale “stanno faticosamente provando a dare risposte ai cittadini che cercano di predisporre il proprio Isee”, l’Indicatore della Situazione Economica Equivalente necessario per accedere a servizi pubblici di varia natura, dall’accesso alla scuola dell’infanzia, all’abbonamento dell’autobus, ai buoni gas e acqua, per categorie di persone che hanno dei redditi contenuti. Lo denuncia la Cgil che chiede a tutti i soggetti coinvolti, in primis i comuni, una proroga dei termini di presentazione dell’Isee oltre il 31 marzo.

Il sindacato chiede inoltre “di fare pressione sul Governo affinché si renda conto che anche in questo caso, nel mezzo, tra gli annunci e le pratiche quotidiane, restano persone in carne ed ossa” dice Maria Pia Scandolo, segreteria Cgil Genova.  Secondo il sindacato “sarà impossibile dare la possibilità ai cittadini di avere il proprio Isee entro il 31 marzo e questo comporterà il fatto che molte persone non potranno più accedere a molti servizi pubblici dei quali invece avrebbero diritto”.

Con il vecchio Isee si prendeva appuntamento, preoccupandosi di avere i documenti necessari, e in 15 minuti si usciva dal Caaf con il modulo pronto da portare all’ente che lo aveva richiesto (scuola, Amt, Iren, ecc.) dice la Cgil. “Il Governo ha complicato le procedure, con la ratio condivisibile di colpire i furbetti, ma il risultato è che le persone devono tornare al Caaf mediamente 3 volte e viene tra l’altro chiesta la giacenza media sul conto corrente. A questo proposito ci sono diversi istituti di credito che non indicano nell’estratto conto questo dato ma chiedono anche sino a 20 euro per produrlo. Se chi ha necessità di un Isee per i figli è separato o divorziato deve farsi dare tutti i dati anche dal coniuge, se quest’ultimo è introvabile i comuni non sanno quale procedura attivare”.  “Anziché colpire qualche furbetto al quale questa situazione può solo dare un po’ di fastidio, si colpiscono persone anziane
e nuclei familiari che invece su certi servizi fanno molto affidamento”.

ansa

 
 
 

Appalti

Post n°2108 pubblicato il 16 Febbraio 2015 da deosoe

Appalti: Cgil, al via viaggio per raccolta firme su proposta legge

“Gli appalti sono il nostro lavoro. I diritti non sono in appalto”. Queste le parole scelte dalla Cgil per una campagna a sostegno di una proposta di legge di iniziativa popolare sul tema e che, a partire da febbraio e fino alla fine di aprile, attraverserà tutto il Paese. Lo farà grazie ad un furgone, adeguatamente bardato delle immagini della campagna, che oggi da Aosta inizia un viaggio che percorrerà tutto lo stivale per chiudersi a Roma negli ultimi giorni di aprile. L’obiettivo è la raccolta di firme a sostegno di una proposta di legge che, in estrema sintesi, propone: la garanzia dei trattamenti dei lavoratori impiegati negli appalti privati e pubblici; il contrasto alle pratiche di concorrenza sleale tra le imprese; la tutela dell’occupazione nei cambi di appalto.

Le motivazioni di questa iniziativa della Cgil nelle parole del segretario confederale, Franco Martini. “La parola appalti – spiega il dirigente sindacale – è troppo spesso legata al termine malaffare, ma dietro la ”corruttela” ci sono centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori che pagano il prezzo più alto di questa deriva. Gli appalti sono infatti prevalentemente sinonimo di lavoro povero, destrutturazione del ciclo produttivo, di sfruttamento del lavoro, di assenza di diritti, di inquinamento dell’economia. Elementi che impongono una politica diversa”.

Queste quindi le ragioni di un impegno straordinario della Cgil, che si innesta in un percorso sindacale unitario che sta monitorando, sul tema appalti, il tema delle direttive europee e del disegno di legge delega di recepimento. “L’impegno del sindacato su questo fronte – precisa Martini – ricalca infatti il merito della proposta di legge della Cgil, ovvero: lotta al massimo ribasso, riduzione del numero delle stazioni appaltanti, ripristino della clausola sociale, applicazione di un contratto di riferimento, quello prevalente nel sito”. Punti che sono al centro della campagna Cgil e che mira, tra le altre cose, “al ripristino della norma sulla responsabilità solidale”.

Gli appalti sono un segmento cruciale dell’economia e del mercato del lavoro, “che va innovato e rinnovato, introducendo un sistema di diritti e di tutele”, aggiunge ancora Martini. “Gli appalti sono un cancro dell’economia – osserva il segretario confederale della Cgil -, inseriti in un’area di illegalità che si stima essere pari a 70 miliardi di euro. Bisogna riportare tutto alla luce, ricondurre tutto in trasparenza, tutelando e garantendo quei lavoratori, anche e soprattutto dalle storture del Jobs Act. Questo il nostro impegno, questo l’obiettivo della campagna”, conclude Martini. Dietro queste ragioni c’è quindi il motivo della campagna e del viaggio: dopo la partenza dalla Valle d’Aosta, il furgone si sposterà la prossima settimana in Piemonte, per toccare poi tutte le regioni del Nord entro i primi di marzo. Sarà poi il turno del Centro, fino alla fine del mese prossimo, e infine ad aprile del Sud. Data di arrivo nel Lazio, e conclusione del viaggio, dal 17 al 19 aprile.

 
 
 

Bonus bebè

Post n°2107 pubblicato il 16 Febbraio 2015 da deosoe

Bonus Bebè 2015 al via: il decreto attuativo

Firmato il decreto attuativo che rende operativo il Bonus Bebè 2015, ovvero l’assegno da 80 euro al mese (960 euro l’anno) per le mamma che hanno avuto bambini a partire dal 1° gennaio 2015 introdotto dalla Legge di Stabilità 2015 (Legge n. 190/2014). Per entrare in vigore era necessario l’apposito decreto attuativo. Ora le mamme che hanno adottato o fatto nascere figli quest’anno potranno contare su questo contributo.

Da sottolineare che il Bonus Bebè non scatta in maniera automatica, ma solo previa richiesta all’INPS. Ricordiamo poi che si tratta di una misura sperimentale che riguarderà i nuovi nati (o adottati) tra il 1° gennaio 2015 e il 31 dicembre 2017, fino al terzo anno.

Il vincolo reddituale fissa l’asticella a 25 mila euro per la famiglia nel complesso. In caso di famiglie che non superano i 7 mila euro il Bonus raddoppia a 160 euro. L’erogazione, invece, non andrà ad aumentare il reddito IRPEF.

Secondo le stime del Governo la misura dovrebbe interessare 330 mila bambini su 500 mila

 
 
 

Licenziata

Post n°2106 pubblicato il 16 Febbraio 2015 da deosoe

Licenziata perché malata di cancro. Grazie al sindacato, l’azienda ritira il provvedimento

“Siamo molto soddisfatti per come si è chiusa la vicenda. Non speravamo di arrivare a questo risultato. Evidentemente, la eco che tutta la vicenda aveva avuto a seguito della denuncia del sindacato, ha indotto l’azienda a un ripensamento”. Lo afferma la segretaria generale della Cgil di Brindisi, Michela Almiento, a proposito dell’accordo raggiunto con la multinazionale Lyondell Basell, che ha reintegrato Zoe (nome di fantasia), una lavoratrice, 52enne a cui era stato annunciato il licenziamento dopo che si era ammalata di cancro.

“In realtà – precisa la sindacalista - il licenziamento non era mai stato notificato, ma la lavoratrice era stata sospesa dal 17 novembre. Si trattava dell’unico esubero della multinazionale che opera nel sito produttivo del petrolchimico dell’area industriale di Brindisi”. Grazie all’accordo, la lavoratrice ha ripreso il suo posto di lavoro.

Prima del licenziamento, alla lavoratrice era stato offerto un indennizzo economico che però aveva rifiutato. “Sicuramente la trattativa è stata un pò complicata – continua Almiento -, ma l’impegno che abbiamo profuso tutti quanti, come organizzazione sindacale, insieme al nostro legale e con la stessa lavoratrice, era teso a garantire il posto di lavoro, attribuendo a quest’ultimo un valore essenziale della vita di una persona, soprattutto in un momento di grande fragilità. Abbiamo voluto richiamare l’attenzione di una azienda così importante, una multinazionale – precisa Almiento -, sul fatto che quell’unico licenziamento era una ingiustizia sulle spalle di una persona che in quell’azienda ha lavorato con proficuo per ben 25 anni”.

Secondo la sindacalista, “è una vittoria anche nei confronti di chi sul piano della produzione industriale, spesso, si fa distrarre da problemi di utili e di profitto e perde un pò di vista la relazione fondamentale con i propri dipendenti; perché il processo produttivo esiste in quanto esistono i lavoratori e le lavoratrici che riescono a farlo diventare anche positivo per l’azienda stessa”. 

“L’attenzione che abbiamo avuto è il giusto riconoscimento per l’impegno profuso. Le trattative si sono concentrate nelle ultime settimane sulle modalità di reintegro della lavoratrice, a cui è stata data la possibilità attraverso un distacco nella società consortile di cui Basell fa parte, ”per tutelarla sotto tutti i punti di vista”, spiega Almiento.

L’auspicio – conclude la sindacalista - è che questa vicenda possa significare anche una nuova attenzione da parte di Basell verso il territorio brindisino per, magari, riuscire, attraverso la Regione, ad arrivare a un impegno maggiore sul territorio con un contratto di programma finalizzato al rilancio del settore chimico”.

 
 
 

Welfare

Post n°2105 pubblicato il 16 Febbraio 2015 da deosoe

Welfare: al via #DIAMOCIUNAMANO, primi progetti sul web

Muove i primi passi #diamociunamano, la misura sperimentale, promossa dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, che punta a coinvolgere le persone beneficiarie di un sostegno al reddito in attività di volontariato a fini di utilità sociale, nell’ambito di progetti realizzati congiuntamente da organizzazioni del terzo settore e da Comuni o Enti locali. 

Nella sezione specifica del sito web del Ministero del Lavoro, www.lavoro.gov.it/diamociunamano, attivata una settimana fa, sono infatti stati inseriti i primi sette progetti di utilità sociale che offrono l’opportunità di impegnarsi in un’attività di volontariato ai soggetti destinatari della misura.

I progetti sono promossi da Comuni, Enti locali e Associazioni del Terzo settore e propongono attività che vanno dalla manutenzione del verde all’accompagnamento di anziani, minori e disabili, dalla piccola manutenzione edilizia all’educazione ed istruzione. 

Quanto alla localizzazione, i Comuni interessati dai progetti sono Vicenza, Rimini, Asciano Pisano, Livorno, Pagani e Bari.

La misura sperimentale, contenuta nel Decreto Legge 90 del 2014 e resa operativa da un decreto del Ministro del Lavoro, prevede che i soggetti beneficiari di misure di sostegno al reddito possano essere invitati a rendersi disponibili, in forma volontaria, per essere coinvolti in attività di volontariato a fini di utilità sociale in favore della propria comunità, nell’ambito di progetti realizzati congiuntamente da organizzazioni di terzo settore e da Comuni o Enti locali.

Una volta acquisita la disponibilità del soggetto e verificato il possesso dei requisiti, l’organizzazione di terzo settore potrà richiedere all’Inail l’attivazione della copertura assicurativa i cui oneri saranno sostenuti da un apposito Fondo, di durata biennale, istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. 

Tenuto conto che attualmente sono assegnati al Fondo 4.900.000 euro per ciascuno dei due anni, si stima di poter assicurare annualmente circa 4.900.000 giornate, equivalenti a circa 19.000 soggetti per un intero anno.

 
 
 

Videoterminale

Post n°2104 pubblicato il 16 Febbraio 2015 da deosoe

Pause dal videoterminale, le mansioni alternative

 

Il datore di lavoro può sostituire le pause dal videoterminale, obbligatorie per i dipendenti che trascorrono continuativamente tempo davanti al PC, con mansioni differenti che non prevedano l’uso del computer: lo ha stabilito una sentenza di Cassazione, la numero 2679 dell’11 febbraio 2015, riferita al caso di una dipendente di Telecom Italia. Il punto è il rispetto delle normative sulla sicurezza sul lavoro, che prescrivono una pausa di un quarto d’ora ogni 120 minuti (due ore) passati davanti al PC.

L’azienda non aveva riconosciuto queste pause, perché di fatto la dipendente oltre alle mansioni che prevedevano la permanenza davanti al videoterminale, aveva anche compiti di back-office, di tipo amministrativo, che non richiedevano l’utilizzo del PC. La sentenza di primo grado aveva dato ragione alla lavoratrice, stabilendo un indennizzo di circa 4mila euro, così l’azienda ha presentato ricorso. Va segnalato che la vicenda si riferisce alla fine degli anni ’90 e, dunque, la legge di riferimento per quanto riguarda i lavori davanti al videoterminale è l’articolo 54 del Dlgs 626/1994 (oggi sostituito dall’articolo 175 del Dlgs, decreto legislativo, 81/2008). Ebbene, la “vecchia” 626, prevedeva che il lavoratore che svolgeva la sua attività al PC per almeno quattro ore consecutive avesse diritto a un’interruzione «mediante pause ovvero cambiamento di attività». Modalità da stabilire dalla contrattazione collettiva o aziendale. In mancanza di accordi contrattuali, la norma prescriveva una pausa di 15 minuti ogni 120 trascorsi al videoterminale (come prevede anche la nuova legge). Comunque sia, il punto fondamentale è l’esplicito riferimento alla possibilità di sostituire le pause con diverse mansioni, che rappresentassero un cambiamento di attività.

La Corte, si legge nella sentenza: «Ha accertato che nella fattispecie non sussisteva la continuità dell’applicazione al videoterminale e che, peraltro, lo svolgimento, seppur in maniera minore, dell’attività amministrativa nella stessa giornata comportava un cambiamento di attività, idonea a integrare la prevista interruzione».

Risultato: la Corte di Cassazione ha dato ragione all’azienda. Il precedente è importante, perché sancisce appunto che una diversa mansione, che non preveda l’uso del PC, possa essere considerata alla stregua delle pause……

Si tratta di un punto sul quale la vecchia e la nuova normativa sono relativamente simili, nel senso che anche il copra citato articolo 175 della legge 81/2008 prevede per il lavoratore il diritto «ad una interruzione della sua attività mediante pause ovvero cambiamento di attività». Le modalità delle interruzioni devono essere stabilite dai contratti di lavoro e in caso contrario vale la pausa di 15 minuti ogni due ore davanti al PC. Sottolineiamo che nei tempi di interruzione non sono compresi quelli di attesa della risposta da parte del sistema elettronico (considerati, a tutti gli effetti, tempo di lavoro) e che la pausa è considerata parte integrante dell’orario di lavoro e, come tale, non è riassorbibile all’interno di accordi che prevedono la riduzione dell’orario complessivo di lavoro.

pmi

 
 
 

Isee

Post n°2103 pubblicato il 16 Febbraio 2015 da deosoe

Isee: per Tar Lazio illegittimo su reddito disabili

Il Tar del Lazio ha giudicato illegittima la riforma dell’Isee nella parte nella quale considera nel reddito disponibile anche le pensioni legate a situazioni di disabilità e le indennità di accompagnamento. Lo riferisce l’Anmil dichiarando la propria soddisfazione per la decisione dei giudici amministrativi.

“È con soddisfazione – dice l’Anmil -  che apprendiamo la notizia dell’accoglimento da parte del Tar del Lazio del ricorso presentato dai familiari dei disabili contro la riforma dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) entrata in vigore a inizio 2015, che ha introdotto un nuovo meccanismo di calcolo del reddito per l’accesso ad aiuti e a prestazioni sociali agevolate, sfavorevole per le persone con disabilità più gravi”. Secondo i giudici amministrativi – ”non è dato comprendere per quale ragione, nella nozione di reddito che dovrebbe riferirsi a incrementi di ricchezza idonei alla partecipazione alla componente fiscale di ogni ordinamento, sono stati compresi anche gli emolumenti riconosciuti a titolo meramente compensativo e/o risarcitorio a favore delle situazioni di disabilità, quali le indennità di accompagnamento, le pensioni Inps alle persone che versano in stato di disabilità e bisogno economico, gli indennizzi Inail.

Una pronuncia, quella del Tar, – conclude il comunicato – pienamente in linea con quanto denunciato dall’Anmil già nelle prime fasi di elaborazione del regolamento. Auspichiamo che ora il Governo prenda atto al più presto di questa importante pronuncia, risolvendo una questione che tutto il mondo della disabilità sta vivendo come una inaccettabile e ingiusta aggressione dei propri diritti”.

ansa

 
 
 

Crisi

Post n°2102 pubblicato il 16 Febbraio 2015 da deosoe

Crisi, la Cgil analizza 7 anni di previsioni sbagliate

“Dopo sette anni di errori reiterati, anche per il 2015 i modelli previsionali calcolano una ripresa che non ci sarà”. Questo il secco giudizio dell’Ufficio economico della Cgil nazionale sulle previsioni diffuse in questi giorni dai principali istituti nazionali ed internazionali, impegnati a ricalcolare le stime di crescita nel nostro paese alla luce di alcune variabili esogene (quantitative easing, flessione del prezzo del petrolio, svalutazione dell’euro, riduzione dei tassi d’interesse). 

Secondo le elaborazioni dell’Ocse, riporta lo studio, negli ultimi sette anni il Pil italiano sarebbe dovuto crescere complessivamente dell’1.6%, dato ottenuto dalla somma delle singole previsioni d’autunno effettuate dall’istituto parigino tra il 2007 e il 2013. Applicando lo stesso calcolo alle stime che i vari Ministeri dell’economia e delle finanze hanno elaborato in funzione delle leggi di stabilità, il prodotto interno lordo della penisola avrebbe dovuto registrare un incremento complessivo di ben 5.4 punti percentuali. Numeri smentiti, ogni anno, dai dati effettivi diffusi dall’Istat: il gap previsionale, ovvero lo scostamento cumulato tra le previsioni e il dato definitivo, nel corso di questi ultimi sette anni, oscilla tra i meno 10.5 punti percentuali dell’Ocse e i meno 14.3 dei governi italiani.

“Errori che in termini assoluti si traducono in un ammanco, dall’inizio della crisi, di 200 miliardi per quanto riguarda l’Ocse e addirittura di 330 miliardi di euro per i governi italiani”,  spiega il segretario confederale della Cgil, Danilo Barbi.  Per il dirigente sindacale dall’inizio della crisi sono stati commessi “errori clamorosi”, che dimostrerebbero come “la metodologia di calcolo venga piegata dalle contingenze politiche”. “Per sei degli ultimi sette anni è stato replicato sempre lo stesso sbaglio: una sovrastima della crescita per l’anno successivo”, sottolinea Danilo Barbi: ma siamo di fronte ad un clamoroso errore scientifico o questo ”ottimismo per l’anno dopo” nasconde l’intento di ostacolare un dibattito sulle alternative necessarie circa la politica economica?.

In particolare, lo studio evidenzia che nonostante le ripetute previsioni ottimistiche, con i ritmi di crescita calcolati, si tornerebbe ai livelli pre-crisi di crescita solo nel 2026 e di occupazione nel 2031. Anche analizzando le ancor più rosee stime del Centro studi di Confindustria, diffuse a fine gennaio, al Pil italiano, esaurita la spinta esogena, mancherebbero comunque 4.7 punti percentuale per tornare ai livelli pre crisi, da realizzare nel 2017-2018, cioè nell’arco della presente legislatura. Una crescita “irrealizzabile” secondo la Cgil “se non attraverso un Piano del Lavoro come quello che abbiamo avanzato”.

 
 
 

Crisi

Post n°2101 pubblicato il 16 Febbraio 2015 da deosoe

Crisi, la Cgil analizza 7 anni di previsioni sbagliate

“Dopo sette anni di errori reiterati, anche per il 2015 i modelli previsionali calcolano una ripresa che non ci sarà”. Questo il secco giudizio dell’Ufficio economico della Cgil nazionale sulle previsioni diffuse in questi giorni dai principali istituti nazionali ed internazionali, impegnati a ricalcolare le stime di crescita nel nostro paese alla luce di alcune variabili esogene (quantitative easing, flessione del prezzo del petrolio, svalutazione dell’euro, riduzione dei tassi d’interesse). 

Secondo le elaborazioni dell’Ocse, riporta lo studio, negli ultimi sette anni il Pil italiano sarebbe dovuto crescere complessivamente dell’1.6%, dato ottenuto dalla somma delle singole previsioni d’autunno effettuate dall’istituto parigino tra il 2007 e il 2013. Applicando lo stesso calcolo alle stime che i vari Ministeri dell’economia e delle finanze hanno elaborato in funzione delle leggi di stabilità, il prodotto interno lordo della penisola avrebbe dovuto registrare un incremento complessivo di ben 5.4 punti percentuali. Numeri smentiti, ogni anno, dai dati effettivi diffusi dall’Istat: il gap previsionale, ovvero lo scostamento cumulato tra le previsioni e il dato definitivo, nel corso di questi ultimi sette anni, oscilla tra i meno 10.5 punti percentuali dell’Ocse e i meno 14.3 dei governi italiani.

“Errori che in termini assoluti si traducono in un ammanco, dall’inizio della crisi, di 200 miliardi per quanto riguarda l’Ocse e addirittura di 330 miliardi di euro per i governi italiani”,  spiega il segretario confederale della Cgil, Danilo Barbi.  Per il dirigente sindacale dall’inizio della crisi sono stati commessi “errori clamorosi”, che dimostrerebbero come “la metodologia di calcolo venga piegata dalle contingenze politiche”. “Per sei degli ultimi sette anni è stato replicato sempre lo stesso sbaglio: una sovrastima della crescita per l’anno successivo”, sottolinea Danilo Barbi: ma siamo di fronte ad un clamoroso errore scientifico o questo ”ottimismo per l’anno dopo” nasconde l’intento di ostacolare un dibattito sulle alternative necessarie circa la politica economica?.

In particolare, lo studio evidenzia che nonostante le ripetute previsioni ottimistiche, con i ritmi di crescita calcolati, si tornerebbe ai livelli pre-crisi di crescita solo nel 2026 e di occupazione nel 2031. Anche analizzando le ancor più rosee stime del Centro studi di Confindustria, diffuse a fine gennaio, al Pil italiano, esaurita la spinta esogena, mancherebbero comunque 4.7 punti percentuale per tornare ai livelli pre crisi, da realizzare nel 2017-2018, cioè nell’arco della presente legislatura. Una crescita “irrealizzabile” secondo la Cgil “se non attraverso un Piano del Lavoro come quello che abbiamo avanzato”.

 
 
 

Cassa integrazione

Post n°2100 pubblicato il 16 Febbraio 2015 da deosoe

 

Cgil, nel 2014 oltre 1 miliardo di ore di Cig

Il 2014 si è chiuso con un monte ore di cassa integrazione, richieste e autorizzate, pari a oltre 1,1 miliardi, in flessione del -5,97% sull'anno precedente, che hanno investito oltre 530 mila lavoratori in cassa integrazione a zero ore, per un taglio del reddito pari a circa 4,3 miliardi, ovvero 8.000 euro netti in meno in busta paga per ogni singolo lavoratore.

E' quanto emerge dal rapporto 2014 sulla cassa dell'Osservatorio Cig della Cgil Nazionale, nel quale si sottolinea come la flessione dello scorso anno, su quello precedente, sia il risultato di una variazione operata dall'Inps che, nel fornire i dati di dicembre, ha modificato le ore concesse e autorizzate nell'anno 2013. Si registra, infatti, rispetto ai passati rapporti sulla cassa integrazione, un cambiamento sostanziale per il 2013 (passato da 1.075,8 milioni di ore registrate nei passati rapporti a 1.182,3 milioni di ore) che risulta così essere peggiore rispetto a quello consuntivato precedentemente.

In ogni caso il 2014 sfonda il miliardo di ore di cassa integrazione e si qualifica come il terzo peggior anno dal 2008, ovvero dall'inizio della crisi. Il tutto per un totale di ore di cig dal 2008 al 2014 pari a 6.648,7 milioni di ore. "Con questi dati, e una crescita pari allo zero, ridimensionare gli ammortizzatori sociali, come contenuto nel Jobs Act, sembra una follia", afferma il segretario confederale della Cgil, Serena Sorrentino, che aggiunge: "Chiediamo al governo una riforma che sia realmente universale. Se il governo non si dà una regolata sull'impatto sociale del Jobs Act, avremo mesi difficili, con più licenziamenti, che sono l'unica cosa crescente che intravediamo, e con meno tutele

 

 
 
 

Corriere della Sera

Post n°2099 pubblicato il 16 Febbraio 2015 da deosoe

Corriere della Sera

 
 
 

Il Manifesto

Post n°2098 pubblicato il 16 Febbraio 2015 da deosoe

Il Fatto Quotidiano

 
 
 

deledda

Post n°2097 pubblicato il 16 Febbraio 2015 da deosoe


IL BILINGUISMO DI GRAZIA DELEDDA

di Francesco Casula

Specie in occasione della presentazione della mia Letteratura e civiltà della Sardegna (2 volumi, Edizioni Grafica del Parteolla, 2011-2013) spesso mi si chiede :”come mai Deledda per i suoi racconti e romanzi non ha usato la lingua sarda, che pur conosceva bene”?

Per comprendere bene la lingua che utilizza la Deledda nei suoi scritti occorre partire da questa premessa: la lingua sarda non è un dialetto italiano – come purtroppo ancora molti affermano e pensano, in genere per ignoranza – ma una vera e propria lingua. Noi sardi dunque, siamo bilingui perché parliamo contemporaneamente il Sardo e l’Italiano. Anche la Deledda era bilingue. Era una parlante sarda e i suoi testi in Italiano rispecchiano, quale più quale meno le strutture linguistiche del sardo, non tanto o non solo in senso tecnico quanto nei contenuti valoriali, nei giudizi, nei significati esistenziali, nelle struttura di senso magari inespresse ma presenti nel corso della narrazione. Voglio sostenere che la Deledda struttura il suo vissuto personale, la fenomenologia delle sue sensazioni e del profondo in lingua sarda ma lo riversa nella lingua italiana che risulta così semplice lingua strumentale. In tal modo opera un transfert del suo universo interiore nuorese, dell’inconscio, della fantasmatica.

Poteva non operare tale transfert e scrivere in Sardo? Certamente. Se non lo ha fatto è stato perché non vi era in quel momento storico (siamo a fine Ottocento-inizio Novecento) la cultura, la sensibilità, l’abitudine da parte degli scrittori, specie di romanzi, di utilizzare il sardo. Prima con i Savoia e poi con lo Stato unitario e ancor più con il fascismo, la lingua sarda viene infatti proibita negata criminalizzata.

Dopo il passaggio della Sardegna dalla Spagna al Piemonte (per un baratto di guerra) i Savoia (che parlano il francese!) introducono (e impongono) formalmente l’italiano al posto dello spagnolo, proibendo il sardo. Scriverà Carlo Baudi di Vesme, uno spocchioso storico di Cuneo, amico di Carlo Alberto (in Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna,Torino 1848) che “In materia d’incivilimento della Sardegna e d’instruzione pubblica, innovazione importantissima si è quella di proibire severamente in ogni atto pubblico civile l’uso dei dialetti sardi, prescrivendo l’esclusivo impiego della lingua italiana”. E ancora ripete e insiste :”E’ necessario inoltre scemare l’uso del dialetto sardo e introdurre quello della lingua italiana per incivilire alquanto quella nazione…”.

Insieme alla lingua verrà proibita e negata la storia sarda, perché – risposero le autorità governative piemontesi a Pietro Martini  che voleva introdurre fra gli studenti dell’Isola l’insegnamento della Storia –  “nelle scuole dello Stato debbasi insegnare la storia antica e moderna, non di una provincia ma di tutta la nazione e specialmente d’Italia”.

Tale concezione, da ricondurre a un progetto di omogeneizzazione culturale, – che per l’Isola significherà dessardizzazione – la ritroviamo pari pari nelle Leggi sull’istruzione elementare obbligatoria nell’Italia pre e post unitaria con i programmi scolastici, impostati secondo una logica rigidamente statalista e italocentrica, finalizzati a creare una coscienza “unitaria“, uno spirito “nazionale“, capace di superare i limiti – così si pensava – di una realtà politico-sociale estremamente composita sul piano storico, linguistico e culturale. Questo paradigma fu enfatizzato nel periodo fascista, con l’operazione della “nazionalizzazione-italianizzazione” dell’intera storia italiana. Non c’è quindi da meravigliarsi che, una volta negata e proibita, gli scrittori – anche per avere una maggiore visibilità e diffusione delle loro opere – scrivano in italiano: la Deledda come tanti altri. Ma – dicevo –  Deledda rimane bilingue: pensa in sardo e traduce, spesso meccanicamente in italiano, soprattutto “nel parlare dialogico” – lo sostiene il linguista Massimo Pittau e io sono d’accordo – come in :”Venuto sei? –che traduce il sardo: Bennidu ses?; o “Trovato fatto l’hai? – Accatadu fattu l’as?; o ancora “A Luigi visto l’hai? –A Luisu bidu l’as?; o “Quando è così, andiamo – Cando est gai, andamus.

Vi sono poi innumerevoli vocaboli tipicamente sardi e solamente sardi che Deledda inserisce nelle sue opere quando attengono all’ambiente sardo: pensiamo a tanca (terreno di campagna chiuso da un recinto fatto in genere di sassi), socronza, usatissima in Elias Portolu(consuocera), corbula (cesta), bertula (bisaccia), tasca (tascapane),leppa (coltello a serramanico), cumbessias o muristenes (stanzette tipiche delle chiese di campagna un tempo utilizzate per chi dormiva là per le novene della Madonna o di Santi), domos de janas (tombe rupestri e letteralmente “case delle fate”).

O addirittura intere frasi in sardo come: frate meu (fratello mio), Santu Franziscu bellu (San Francesco bello), su bellu mannu (il bellissimo, letteralmente il bello grande), su cusinu mizadu (il borghese con calze), a ti paret? (ti sembra?), corfu ‘e mazza a conca (colpo di mazza in testa), ancu non ch’essas prus (che tu non ne esca più :è un’imprecazione).

Qualche volta Deledda ricorre a frasi italiane storpiate in sardo o frasi sarde storpiate in italiano:Come ho ammaccato questo cristiano così ammaccherò te (…) o Avete compriso?”.

Occorre però chiarire che i sardismi linguistici della Deledda, non solo lessicali ma anche sintattici, non derivano dalla sua incapacità di utilizzare correttamente la lingua italiana. Scrive a questo proposito la critica sarda Paola Pittalis:””L’uso dei “sardismi” linguistici da parte della Deledda anche nelle opere della maturità –è il caso di Elias Portolu- è consapevole e voluto. Rappresenta anzi una chiara e decisa scelta di linguaggio letterario, di canone stilistico e fa parte del suo essere “bilingue”. Ciò non significa che in questa scelta non sia stata condizionata da fenomeni letterari e culturali esterni, -come il verismo- che prevedevano la raffigurazione oggettiva della realtà da parte dello scrittore che doveva riportare fedelmente il linguaggio popolare e “dialettale” dei personaggi.

A questo proposito occorre secondo molti critici liquidare risolutamente il luogo comune della “cattiva lingua” e della “mancanza di stile” appoggiato alla valutazione di intellettuali di prestigio da Dessì (le “sgrammaticature” di Deledda) a Cecchi (la sua lingua “spampanata”). Si tratta invece –secondo Paola Pitzalis- “di forme nate dall’incontro fra dialetto e italiano nel momento di formazione delle varietà designate oggi come <italiani regionali>. L’uso di vocaboli dialettali, sardismi sintattici e atti linguistici frequenti in Sardegna è intenzionale, tanto è vero che scompaiono quando l’interesse di Deledda si sposta dal romanzo <verista> e <regionale> al romanzo <psicologico> e <simbolico> (dopo il 1920). La sintassi prevalentemente paratattica, non equivale alla mancanza di stile; deriva dal trasferimento nella scrittura di modalità anche linguistiche di costruzione del racconto orale (è questo un percorso suggestivo sul quale da tempo lavora con esiti personali Sole). Ed è il contributo modernizzante di Deledda allo snellimento della lingua letteraria italiana costruita sul modello della frase manzoniana…” [Paola Pittalis, Il ritorno alla Deledda, <Ichnusa>,rivista della Sardegna, anno 5, n.1 Luglio-Dicembre 1986, pag.81].


 
 
 
 
 

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